Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Nel giorno in cui Petrarca compie gli anni, il 20 luglio, propongo – anzi, sarebbe meglio dire ripropongo – una mia traduzione di un epitaffio neolatino di George Buchanan, poeta scozzese del Cinquecento, che dedica versi struggenti all’amore di Francesco per Laura. Il testo originale sarebbe in distici elegiaci latini, ma mi è parso buono e giusto rendere con un sonetto. Credo che Petrarca avrebbe apprezzato lo sforzo e forse pure il risultato.

 

 

Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Se ha memoria di sé dopo la morte,

dotto Petrarca, l’animo nel cuore,

se oltre la tomba vive intatto Amore,

morendo non patisti un tanto forte

 

tormento quanto il gaudio avuto in sorte

d’accompagnarti a Laura nel fulgore.

Lei i primi anni subì l’aspro livore

del fato, ti lasciò per vie contorte

 

nel pianto più struggente. D’ora in poi

la folta folla dell’Eliso al Lete

vi vede passeggiare. Beati voi!

 

Né la morte né il rogo estremo ha sciolto

il vincolo d’affetti in cui vivrete,

per i secoli eterni, lieti in volto.

 

 

Di seguito è doveroso che io riporti anche l’originale: non vorrei lasciare nulla, ma proprio nulla, al caso.

 

 

In tumulum Francisci Petrarchae

 

Si memor ipse sui est animus post funera, culte

Petrarcha, et cineri vivit inustus Amor,

 

certe non tantum cepisti morte dolorem,

quam gaudes Laurae nunc comes ier tuae.

 

Quae, fati invidia primis oppressa sub annis,

te summo in luctu liquerat, et lacrymis.

 

Nunc vos Letheae spaciantes margine ripae,

Elysii spectat plebs numerosa fori.

 

Felices animae, quarum dissolvere foedus

mors quoque et extremi non potuere rogi!

 

 

Confesso che non è l’unica volta, questa, che tento una resa di tale epigramma: la mia prima versione fu pubblicata nel 2004, settimo centenario della nascita del sommo vate. A Bologna si teneva un convegno internazionale sul petrarchismo Cinquecentesco, cui ebbi l’onore di partecipare, e in quell’occasione usciva l’antologia Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G.M. Anselmi, K. Elam, G. Forni e D. Monda, Rizzoli, Milano, 2004. Oggi la disconoscerei: non mi ci ritrovo più, perché appartiene ormai a un Federico che non esiste più. E dire che ne andavo molto fiero, e della traduzione e di quel Federico.

L’insoddisfazione mi ha costretto, nel tempo, a riprendere in mano questi distici per dare loro una veste e un respiro nuovi. Il labor limae credo possa essere un inesauribile stillicidio e dare lo sfinimento. Anche quest’anno non ho potuto farne a meno: il testo è cambiato ancora. Quando traduco (e ritraduco), mi torna in mente il verso dantesco « mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Non c’è che dire: ogni volta io muto e la traduzione muta con me. È un gioco di specchi: io mi rifletto nel testo e il testo si riflette in me. il rischio di perdersi per sempre è fin troppo reale. L’ombra di Narciso incombe su questo esercizio così suadente e mai finito. Una competizione: si può azzardare questo giudizio? Già, chi è migliore: il tradotto o il traduttore? Probabilmente non è solo un atto metamorfico, la traduzione, ma una manifestazione di narcisismo in divenire.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Lascia un commento

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...