Ogni tanto mi prendo il lusso di confrontarmi – potrei quasi azzardare di litigare – con Orazio, perché le volte in cui , per qualche arcano motivo, mi rimetto a dialogare con lui, mi imbatto sempre in qualcosa di nuovo. Tralascio il cimento della traduzione poetica, impossibile per definizione, eppure ineludibile. Mi riferisco in particolare all’Orazio lirico, non al pur mirabile «satiro», secondo la definizione dantesca (Inf. IV 89). E così mi ritrovo davanti a quel «monumento più perenne del bronzo» (carm. III 30, 1), quasi come si ritorna a visitare un luogo dell’anima.
Quest’oggi sono alle prese con il carmen I 11, solitamente noto come carpe diem, anche se non ha titolo. Ne ho tentato diverse rese, ma a rimeditarle non reggono il paragone con l’originale. Scoperta ovvia, si potrebbe pensare. Ne propongo un’altra che non mi pare disdicevole, frutto di quell’attimo che fugge, dell’hic et nunc, se si vuole del carpe diem.
Non chiedere, sacrilego è sapere,
che fine a me, che fine a te gli dei
hanno dato, Leuconoe, e non tentare
i calcoli caldei. Oh come è meglio
sopportare ogni cosa del futuro!
Conceda Giove molti inverni o solo
quest’ultimo, che fiacca ora tra opposte
scogliere il mar Tirreno, tu sii saggia,
filtra il vino e recidi al breve spazio
una speranza lunga. Mentre noi
parliamo, il tempo sarà già fuggito
pieno d’invidia. Cogli il giorno, senza
dare il minimo credito al domani.
Il mio dialogo s’arricchisce d’altri due interlocutori, Eugenio Montale e Giacomo Leopardi. Chissà perché, ma non mi ero mai accorto che all’immagine della recisione fa eco l’imperativo negativo di Non recidere, forbice, quel volto. Contesti diversissimi, certo: non parlo di allusioni o citazioni. Quel che mi stupisce, tuttavia, è la strana coincidenza. Esortazione e negazione: «recidi» e «non recidere», modi solo apparentemente opposti di considerare il presente. La «cicala» vive il presente, come nella favola di Esopo: prende alla lettera il precetto di vivere completamente il giorno, ascrivendolo a guadagno, perché non dà credito al domani. Avevo alluso a qualche cosa di simile in Auguri in ritardo ad Alberto. Anche l’autore delle Occasioni così conclude il suo breve componimento: «e l’acacia ferita da sé scrolla / il guscio di cicala / nella prima belletta di novembre». Suggestioni, nulla di più. Leggere diventa un mosaico da decostruire e ricostruire, mentre si riaffaccia L’ombra di Narciso.
Riguardo a Giacomo Leopardi gli addentellati sarebbero più precisi, ma non vorrei svelare le mie carte: il testo mi pare già tanto eloquente. Ci sarebbe da chiedersi, forse, perché abbia legato quell’immagine alla «memoria». Noi coincidiamo, questo sì, con la nostra capacità di ricordare e di sperare: in questo senso si dispiega tutto il componimento e il gioco di specchi che lo attraversa. Il Recanatese è fin troppo intriso dei classici per non farmi buttare il cuore al di là dell’ostacolo. Prima o poi mi profonderò in qualche interpretazione più ardita.
© Federico Cinti
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Splendida poesia, bellissima ed eccellente interpretazione del carpe Diem!
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Grazie di cuore, carissima! Ogni volta che la leggo scopro qualche cosa di nuovo: il fascino dei classici…
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Splendida traduzione!
Adesso che hai messo a confronto Orazio e Montale e hai trovato un nesso tra il “recidi” dell’uno e il “non recidere” dell’altro, le cose si complicano ancora di più!
Certamente vivere il presente non deve, non può comportare dimenticare il passato. Siamo come eternamente sospesi tra il passato e il futuro. Sono curiosa di vedere come interpreterai in tal senso Leopardi…
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Una traduzione sofferta, non c’è che dire, e probabilmente non definitiva, nel senso che mai una traduzione può dirsi definitiva. Piuttosto potrei azzardare approssimativa, nel senso che si approssima, senza mai giungere a perfezione.
Ammetto che è stato il tuo appunto, Rosanna, a generare il confronto tra l’atteggiamento della cicala, volto al “carpere diem”, e la formica, tutta proiettata al “cras”, sul domani.
Montale cerca di non recidere il filo della memoria, anche se questo in tensione si addipana, come nella famosa lirica “La casa dei doganieri”. Presente, passato e futuro s’ingatbugliano come in un gomitolo, lo gliommero di gaddiana memoria. La perdita della propria coscienza è sempre possibile, è sempre un rischio.
Per Leopardi è diverso, ma non voglio dire troppo ora. Certo, le ascendenze oraziane ci sono tutte o almeno io le sento presentissime. Vedremo d’intavolare il discorso come si conviene.
Intanto, sempre grazie della tua attenzione.
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Bella traduzione si! Concordo sul fatto che una traduzione non è mai definitiva
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Grazie, carissima! La traduzione è uno dei miei rovelli, anche perché tutto alla fine è traduzione, pure il lavoro di scrittura o di elaborazione artistica. Anzi, più che altro potremmo dire transcodifica. Ogni volta che si legge un classico, del resto, viene voglia di farlo proprio.
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Hai perfettamente ragione!!
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