Lucio Quinzio Cincinnato

 

Ti rividi nel campo, Cincinnato,

intento come allora all’aratura:

avevi in cuore solo quella cura,

sulla fronte quel ciuffo scompigliato.

 

Poche parole, un cenno del senato,

e l’Urbe t’affidò la dittatura.

Tra le insidie, il sospetto, la paura

togliesti dal pericolo lo Stato.

 

Ogni insegna, ogni alloro tra le chiome

era per te un inutile ornamento;

lasciasti Campidoglio, gloria, vanto.

 

Indifferente fosti a tutto quanto,

sogno che sa di un tempo adesso spento,

antica ombra di un’ombra, eco di un nome.

 

 

Mi ha fatto uno strano effetto rileggere di Lucio Quinzio Cincinnato, mentre aiutavo il figlio di amici in una versione presa da Tito Livio, come fosse un’eco lontanissima che ritornasse da chissà dove. L’ho ritrovato sempre lì, mentre arava il suo campo di soli quattro iugeri, al di là del Tevere, in quelli che avevano preso il nome di prata Quintia. Era sempre lì, spes unica imperii populi romani (Ab urbe condita III 26), a salutare i legati del senato venuti per comunicargli che era stato creato dittatore per risolvere l’impasse in cui si trovava il console Minucio, assediato dagli Equi, dopo la morte del suo collega. Si asciuga la fronte sudata, ricambia il saluto e dopo il dispaccio chiede alla moglie Racilia di andare subito alla capanna a prendergli la pretesta per andare nell’Urbe. Machiavelli aveva forse riassunto meglio di me, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, l’episodio, ma spero ci si possa accontentare.

Tutto era ancora come allora, come sempre, con «Quinzio, che dal cirro / negletto fu nomato» (Par. VI 46-47), come quando lo lessi la prima volta, non ricordo nemmeno più quando, al ginnasio probabilmente. È lo stesso Dante a ricordare l’assoluta grandezza di quest’uomo – «Chi dirà di Quinzio Cincinnato, fatto dittatore e tolto dallo aratro, e dopo lo tempo dell’officio, spontaneamente quello rifiutando, allo arare essere ritornato?» (Conv. IV, V 15) – per cui nulla valeva se non il bene pubblico. Certo, forse già ai tempi del principato, di Livio intendo, questa figura doveva apparire leggendaria e ancora di più ai tempi di Dante o Machiavelli. Oggi mi sembra solo un’eco lontanissima, esempio di virtù quasi impossibile da realizzare, ancor più da raccontare.

Ha avuto su di me lo stesso effetto della «rosa della grammatica latina» (M. Moretti, Elogio di una rosa, 1), perché ha il sapore antico della scuola, di un tempo antico che ora sa di morto e per questo, per questo è ancora vivo, vivo per sempre nella mia memoria, la memoria di un giorno che non muore. E così è Cincinnato col suo aratro ad arare, a combattere, a tornare al «campo mezzo grigio e mezzo nero» in cui sta un aratro senza buoi che pare / dimenticato tra il vapor leggero» (G. Pascoli, Lavandare, 1-3).

Mi sono perso pure io in quel campo, «dove roggio nel filare / qualche pampano brilla, e dalle fratte / sembra la nebbia mattinal fumare» (G. Pascoli, Arano, 1-3), mentre «la lodola perduta nell’aurora / si spazia» e «qualche zolla nel campo umido e nero / luccica al sole, netta come specchio» (G. Pascoli, Di lassù, 1-2, 7-8). Era quel mondo, era lo stesso mondo quasi perduto, che si guarda di lontano, con un po’ di rimpianto dentro il cuore. In questo giorno così inerte, dopo una pioggia incolore, mi sento come l’amanuense che «se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneva, nigro semen seminaba» (Indovinello veronese). Chissà, forse sto parlando solo di una superba metafora dello scrivere, dello scrivere e del vivere, l’uno specchio dell’altro.

 

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

6 commenti

  1. Certo ora dovremmo fare il contrario, quelli che governano mandarli a zappare.

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    1. Federico Cinti ha detto:

      Eh, questa mi pare proprio una proposta interessante! credo, tuttavia, che nemmeno quello saprebbero fare, ma tant’è. Il meglio sarebbe non votarli e cercare persone più rappresentative.
      Grazie sempre!

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      1. Ma finché non sono lì non lo sai cosa combineranno. Quindi obbligarli ad andare a zappare dopo averli visti all’opera mi sembra più corretto.
        Grazie a te

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      2. Federico Cinti ha detto:

        Vero pure questo, anche se non faranno un grande servizio nemmeno in quel campo, reale questa volta, non metaforico. Comunque, mandiamoceli davvero: «lì si parrà la lor nobilitate», per parafrasare il sommo poeta.

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  2. Alidada ha detto:

    che persona non da poco Cincinnato, Bel post! Buonanotte Federico 🙂

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    1. Federico Cinti ha detto:

      Veramente ho sentito come una voce che mi chiamava, mi ricordava, mi raccontava cose studiate chissà quando e chissà con che cuore! Ecco, così è nato questo sonetto e questo post. Sono molto contento che ti sia piaciuto e che tu ci abbia trovato qualche cosa di nuono.
      Ciao e buona giornata pure a te!

      Piace a 1 persona

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