Sussurra un viso, immagine sepolta
tra sogni irrealizzabili. Lontano
era il giorno. Null’altro, tutto è vano,
fantasia dentro l’anima. S’affolta
ancora il senso autentico. Una volta
naufragammo. Ricordo quella mano,
oggi perduta. Edulcora pian piano
ogni istante. Si ascolta e si riascolta.
Rauchi frammenti. Era la vita vera
la via seguita, l’ansia del ritorno
attorno al vuoto. Adesso l’ho imparato,
non prima, solo adesso che è passato
distrattamente, nel silenzio, un giorno
in cui cala impalpabile la sera.
Era il tuo giorno, ieri; lo so bene, Stefano. Un tarlo mi lavorava nel libro della memoria “e quel libro era antico. Eccolo: aperto / sembra che ascolti il tarlo che lavora» (G. Pascoli, Il libro, I 5-6). Eppure, non è più il tempo degli auguri. Credo te li aspettassi, anche se avresti giurato di no. E non certo per gli auguri in sé, bensì per il pensiero che ti era riservato, quasi tributato, come se poi in qualche modo non ti si pensasse comunque. Una volta mi chiamasti tu: eri in scommessa con tua figlia sulla pronuncia di una parola. Avresti preferito che io dessi ragione a te piuttosto che a lei. Ridesti come solo sapevi fare tu e quella risata l’ho ancora nelle orecchie.
Tante altre cose, naturalmente, avevamo in sospeso. Che vuoi mai? per vivere il presente occorre progettare il domani. Tu vivevi già il domani, come una sorta di veggente alla ricerca della quadratura: tu eri così, come il famoso Anselmo Paleari, che «dalle vette nuvolose delle sue astrazioni […] lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Sarà per questo che tanti nostri sogni sono rimasti nel cassetto. Me li hai lasciati, tutto qui, una sorta di eredità d’affetti e di pensieri.
Era il tuo giorno, ieri, e molti si saranno ricordati di te. Ne ho la certezza, per non dire le prove. Dimenticarti è impossibile. Anche la mamma me lo ha ricordato e adesso che sono seduto sul divano, davanti alla televisione, proprio nel posto che ti piaceva tanto, ti confesso che mi fa un certo effetto. Ti scrivo, così, liberamente, come quando ti parlavo. Sembrava che tu non ascoltassi o facessi altro. Sembrava, appunto. Poi, te ne uscivi con la tessera mancante del mosaico e il sipario si chiudeva tra gli applausi. Anche tra i fischi, intendiamoci, qualche volta, perché non mancavano certo i detrattori. Non passavi inosservato, anche se qualcuno oggi fa finta di nulla. I compagni di viaggio, chiamiamoli pure così, non perdonano.
Eppure, la tua mano tesa resta. Io mi ci aggrappo ancora idealmente. Questo in fondo è quel che conta, per non perdere di nuovo o per sempre il senso delle cose. Conosciamo bene i versi che ti consacrano all’eternità, «sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna» (U. Foscolo, Dei sepolcri, 40-41). Mi fa strano pensarli riferiti a te, questo sì, perché tu sei ancora qui, nell’altra stanza, come si suole dire. Anche noi siamo in una stanza che non è la nostra, come tutti coloro che non si trovano a proprio agio in un mondo da rifare. Tu volevi rifarlo e, in qualche misura, ce l’hai fatta. Siamo qui sulle tue orme a compiere molti dei tuoi sogni, dei nostri sogni ormai. La tua mano resta tesa, te l’ho detto. Il resto non conta o conta veramente poco.
© Federico Cinti
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Chapeau 🙏🏻🌷🙏🏻🌷
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Grazie di cuore!
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Commozione
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Grazie infinite. stefano era davvero un amico fraterno.
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