Lieve il soffio del giorno, ali nel vento,
un sibilo invisibile oltre il velo
indicibile il palpito di cielo:
già fu quell’ora, rapido momento.
Infinita la via, pallido evento
passare indenne il torbido sfacelo,
assorto più d’un fiore sullo stelo:
zampilla il senso, antico sentimento.
Zone d’ombra nell’anima, sussurro
assopito nel cuore. Tutto resta
greve d’intorno sopra il nero suolo.
Lassù un canto di luce, lassù un volo
inatteso nell’ora della festa,
abbracci di vertigine e d’azzurro.
Un saluto, l’ennesimo. Ritrovarsi di nuovo sulla soglia che separa l’ombra dalla luce. Una soglia, appunto, un confine labile da oltrepassare oltre la piccolezza del nostro essere finito. Una strana sensazione, come di già visto e già sentito, un’atroce afa, nonostante la primavera inoltrata. Ero lì, in una solitudine fatta di persone, note e ignote, accomunate dalla necessità di testimoniare che la vita va oltre quel termine. In fondo, stiamo «studiando per l’aldilà», chissà, forse «un fischio, un segno di riconoscimento» (E. Montale, Avevamo studiato per l’aldilà, 1-2).
La via procede, non v’è dubbio, anche se è difficile scorgere sempre qualche cosa oltre le nuvole. L’azzurro esiste comunque. Io me lo immagino, quell’azzurro intendo, come negli affreschi di Giotto: «credette Cimabue tener lo campo / ne la pittura, ma ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura» (Purg. XI 94-96). Sarà questo il senso della fama e dell’azzurro, mescolati assieme. La memoria mantiene vivo ciò che ci sembra scomparire alla vista. Eppure, mi pare che non sia così. Tutto resta nei tetri contorni delle parole, immagine dai contorni che sfocano a poco a poco e svelano il significato più profondo della ricerca. Anche il sogno è così, mostra e rivela. Su quella linea d’ombra s’è parso d’intravedere qualcosa. Non era rito, no, ma vita.
Aveva ben donde il buon Orazio a cantare che non omnes moriemur (carm. III 30, 6). E pensare che Didone aveva gridato, in preda alla follia, proprio moriemur innupta, / sed moriamur (Aeneis, IV 619-620), seguito dalla Saffo di Leopardi «Morremo. Il velo indegno a terra sparto / rifuggirà l’ignudo animo a Dite» (Ultimo canto di Saffo, 55-56)! Le opere buone rimangono a parlare di noi, in chi ci ha conosciuto. Non è vero che nulla è invano. Così almeno mi sembra, di fronte al cielo azzurro che spiccava tra i palazzi. Del resto, in quel luogo, il Fossolo di Bologna, mi sentivo più che a casa. Me lo dicevano gli amici e i conoscenti.
Anche Chiara era triste, certo, ma serena. Salutava suo padre. So bene come ci si sente in quei momenti. Quando ci salutò il mio mi sembrava che quell’azzurro mi si frantumasse addosso. È stato un po’ rivivere quei momenti. Istanti di vita, certo, di tempo che sembra passato, ma non passa mai. ce lo si sente addosso ogni volta, nelle pieghe dell’anima. Mi sono riconosciuto a un tratto, così, «docile / fibra dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31). Questo in fondo siamo, questo dobbiamo essere. Poi il rientro, i pensieri, le emozioni. Nulla è mai invano, lo ripeto.
© Federico Cinti
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E’ un sonetto meraviglioso, Federico ❣️
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Sono molto lieto, Luisa, che ti piaccia! Eh, diciamo che non è stato facile scriverlo, proprio per il carico emotivo… ma anche questa è vita.
sempre grato delle tue parole…
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Grazie a te per la risposta, Federico
Ti auguro una buona giornata
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Buona giornata a te, carissima Luisa, e a presto!
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“assorto più di un fiore sullo stelo”. Bellissimo.
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Ti ringrazio, Sandro, di quest’annotazione: voleva riecheggiare il Pascoli dell’«Aquilone»:
«come un fiore che fugga sullo stelo / esile e vada a rifiorir lontano» (vv. 29-30).
Grazie sempre dell’attenzione e della possibilità di aggiungere qualche cosa ai miei piccoli scritti.
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