Nel bosco di Valentina

 

Nulla. Il treno fischiò. La ferrovia

emerse tra le tenebre. Una scena,

la vita, la ragione, la follia.

 

Brevi brividi. Lacrime di pena,

occhi aperti laggiù. D’un tratto un grumo

si sciolse: il volto, il bosco, l’altalena.

 

Cadde il velo dall’anima. Oltre il fumo

onirico sbocciò la primavera

dimenticata, un labile profumo.

 

Il cuore vide. Nella notte nera

vacillò il senso. Sulla via smarrita

attinse alla sua immagine non vera.

 

Lontano il giorno, il cranio tra le dita

esitò nello specchio: restò intriso

nell’incrinarsi, un segno di matita.

 

Tutto già fu. Tutto era già deciso,

impossibile sogno che declina

nel tempo, in noi, nell’ultimo sorriso

 

assorto, senza età, di valentina.

 

 

Delle mie divagazioni in ambito teatrale, se si possono chiamare così, ho già raccontato altrove. Poca cosa, intendiamoci, rispetto al magmatico impeto che spinge alla creatività poetica a meno che, e questo è più che ovvio, non s’intenda tutto ciò che ha a che fare con la creatività una sorta di poesia infinita. E questo potrebbe pure essere, se è impossibile trovare il famoso centro di gravità permanente o quel moto uniforme pensabile sì, ma non realizzabile. O almeno credo, per quel poco che mi è dato sapere. Anzi, non sapere: conoscere. Perché sapienza e conoscenza non coincidono o non dovrebbero coincidere. La lingua alle volte ci offre strumenti instabili di definizione di un concetto. Lo si sa, lo si vede, esperienza insomma quotidiana. Me ne meraviglio ancora, lo ammetto candidamente; ma è più forte di me. E forse è pure giusto così. mi meraviglio e così, come affermerebbe qualcuno, mi vedo da fuori, dall’esterno, come i pazzi pirandelliani. Ecco, questo è il senso dello spettacolo cui, mio malgrado, sono stato coinvolto. Il titolo è proprio quello di cui ho provato a parlare nel mio testo poetico, Il bosco di Valentina.

Penso scrivendo e, quindi, vado un po’ a ruota libera, currenti calamo. Nulla di più che un bosco, se volete la famosa «selva oscura» (Inf. I 2), il cui corrispondente primigenio era «la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2) la scena della nostra vita. già, perché ognuno di noi ha il suo ruolo, come a teatro: a volte decide d’impersonare la maschera che si è scelto, altre la riceve senza accorgersene. Resta così, nel limbo della propria indifferenza, finché un giorno le bevute devono tornare pari, simili ai nodi al pettine. Meglio è prepararsi a poco a poco, come ci consiglierebbe il buon Seneca, in una sorta di cottidie mori. A poco a poco, quindi, senza fatica apparente alcuna, in modo che, quando ci si ritrovi davanti allo specchio, non ci si prenda troppa paura. La nostra immagine rischia di incrinare non certo la superficie, bensì la profondità di quel che si specchia. E lì nasce il dramma o lì muore, se ci si accorge che dall’altra parte tutto resta intero.  Noi parliamo allo specchio, ma non sempre lo specchio parla di noi. Solo Alice è riuscita a trascorrere la linea invisibile che separa i mondi. Il resto è letteratura.

In questo gioco teatrale proviamo a mettere a nudo la follia della ragione. Anzi no, la pazzia. Uno degli attori mi ha fatto notare che follia e pazzia non sono la stessa cosa. Ed è vero, ho pensato, perché la sinonimia non esiste. Ne abbiamo coscienza, certo, della nostra follia, in una sorta di lucidità umoristica, ma non possiamo averne della pazzia, che ci relega al di fuori non solo di noi, bensì pure del consorzio umano. Dentro e fori, ecco: di nuovo il concetto di specchio o di tempio o di spazio. non se ne esce e, quando se ne esce, ci si ritrova in un altro specchio, in un altro tempio, in un altro spazio. negli infiniti mondi possibili anche noi possiamo vestire gli infiniti panni dei secoli ed essere felici, se mai qualcuno lo è stato veramente. Anche i nostri progenitori non lo saranno stati fino in fondo, se hanno avuto bisogno di cogliere di quel frutto proibito. A parole, certo, proibito, ma nei fatti coglibilissimo. E ci si volge indietro, al bel tempo andato, quando magari si stava molto peggio in un sogno di felicità che non sappiamo raggiungere oggi. Il problema è, forse, non ciò che siamo, bensì ciò che non siamo. Né possiamo essere, intendiamoci.

Ecco, questo l’ho capito, o penso d’averlo capito, solo facendo un po’ di teatro con il mio amico Luigi, che ha deciso di mandarmi in scena così come sono. In fondo, noi rappresentiamo sempre noi stessi, nel travaglio creativo d’ogni giornata. Siamo in una chiesa, il 15, il 16 e il 17 dicembre, una chiesina di Bologna, chiusa perlopiù gli altri giorni dell’anno. Io stesso non ci ero mai stato prima d’averci fatto un po’ di teatro. È tra via Begatto e via Quadri, nel pieno centro di Bologna, nella zona che più mi piace e non ne so dire il motivo. Quando penso a un luogo bello della mia città, chissà perché, torno con la memoria proprio a quegli incroci, a quei palazzi, a quei portici che mi hanno visto vivere. Ecco, mi hanno visto, senza che io mi vedessi. E adesso che non mi vedo più, vedo io quei luoghi senza di me, in una dimensione metafisica. Sì, perché valgono di per sé, senza che io li agisca necessariamente. È nel dopo, nella riflessione, che tutto acquisisce senso. È così pure nel nostro Bosco di Valentina, dove una mamma, valentina appunto, ripercorre le sue tragedie assieme ad altri malcapitati come lei in una clinica psichiatrica. La vita, ecco, questa è la clinica psichiatrica, dove ognuno prende il suo treno col suo fardello e lo condivide, alle volte non sa con chi, altre con coloro che si impara a conoscere. Io resto lì, resto a guardare e a imparare, perché «altro diletto che ’mparar non provo» (Petrarca, Triumphus Cupidinis, I 21).

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

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12 commenti

  1. Complimenti Federico, a te e ai tuoi compagni d’arte! se vivessi a Bologna verrei volentieri a vedervi.

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    1. Federico Cinti ha detto:

      Sarei veramente onorato della tua presenza! Magari, anche se non è la stessa cosa, proverò a narrare come è andata. Certo, l’unicità del momento in cui si vive è difficile da ricreare «per verba», se vogliamo usare un’espressione dantesca. Ma va bene, ci proverò! Intanto, grazie sempre di cuore…

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      1. Federico Cinti ha detto:

        Ciao, un abbraccio e a prestissimo!

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  2. valy71 ha detto:

    Forse ognuno di noi in qualche modo si è perso e, a modo suo, sta cercando non tanto la strada del ritorno, quanto piuttosto di ritrovarsi.

    Un caro saluto 👋
    Federico
    Buona serata
    Valeria

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    1. Federico Cinti ha detto:

      Ciao, carissima Valeria! Un po’ in ritardo, questa mia risposta, ti giunga come resoconto degli spettacoli che, tra giovedì e sabato, hanno messo in scena non tanto il teatro, quanto la vita. Del resto, che cos’è se non questo il senso vero di certe azioni che chiamiamo sceniche? Già Tasso diceva che la vicenda umana di Clorinda e Tancredi era “degna d’un chiaro sol, degna d’un chiaro / teatro”. ecco, ti posso dire che la selva, il bosco, la foresta sono da sempre immagini metaforiche di quell’inestricabile che rappresenta, e qui ci sta proprio questo verbo, il nostro essere umano. E in questo senso hai ragione a dire che la ricerca ha valore di per sé, non solo per quel che si cerca.
      Grazie di cuore, carissima, e buona serata a te e a presto sentirci ovviamente!

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      1. valy71 ha detto:

        Grazie Federico,
        una buona serata, a presto!
        Valeria

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      2. Federico Cinti ha detto:

        A presto davvero, carissima Valeria, e grazie sempre di tutto!

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      3. valy71 ha detto:

        Figurati, carissimo Federico, buona serata!

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      4. Federico Cinti ha detto:

        Spero che vengano tempi migliori per la scrittura, perché in questi giorni sto scrivendo molto, ma cose che non posso mettere sul blog. Mi auguro le vacanze di Natale mi diano un po’ di tregua!
        Ciao e a prestissimo e auguri!

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      5. valy71 ha detto:

        Ti auguro di avere tregua allora, auguri e buone vacanze, grazie Federico, ciao!

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      6. Federico Cinti ha detto:

        Proverò a raccontare il tutto! del resto, solo chi vive scrive e può scrivere qualche cosa di vero: è il suo specchio. Un abbraccione e grazie sempre di tutto…

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