A me stesso nel giorno dei miei anni

 

Fu uno scorrere rapido, fui io

e non altri. Sarò. Sul promontorio

dei secoli impassibile m’avvio.

 

Equilibrio impossibile. Aleatorio

resistere. Proseguo sul cammino

iniziato, oltre Inferno e Purgatorio.

 

Contemplo ciò che sono, pellegrino

onirico di un’epoca imperfetta:

chiamo il mio nome, avverto il mio destino.

 

Io, fui io, non sarò. Per la via stretta

non indugio in inutili fermate.

Tengo un capo del filo. Sulla vetta

 

il suo viso, la lirica d’un vate.

 

 

Mi trovo anch’io sul «promontorio dei secoli» (Manifesto del futurismo, 8), come il vecchio Marinetti. Chissà, volgersi indietro a volte è pericoloso: non ci si riconosce più. anche le foto tradiscono nel loro nitore. Un sorriso, sì, una smorfia o una posa plastica. Nulla più, nemmeno una parola. Eppure, il pensiero fluttua, informe, al di là della gravità che porta con sé. L’etimologia di solito rovina, senza pietà. E così è volgersi indietro, alla ricerca d’un senso, quando lo abbiamo davanti a noi, nel riflesso degli istanti che viviamo. Giorno per giorno, certo, inconsciamente. Meglio non accorgersene: si fa meno fatica a liberarsi di «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, 12). Siamo così, come crediamo d’essere, in una sorta di eterna proiezione di noi e del tutto. Il paradosso sta nello scoprirsi pensabili, ma non conoscibili, apparire e non essere. O, meglio, essere senza sapere chi si sia veramente. A un certo punto ci se ne rende pure conte. E forse è troppo tardi per qualsiasi rivalsa. Prendere o lasciare: tutto qui. Noi avanziamo verso la vetta, su quel promontorio tra rottami e macerie. Finché viene il giorno, benedetto giorno, in cui crolla un filo di vento e tutto ci appare come deve essere.

Ecco, per me l’anno comincia oggi. Va bene, lo concedo, ricomincia. Il moto circolare ci si addice perfettamente, se è vero che ci si ritrova sempre allo stesso punto. Non che mi dispiaccia, intendiamoci: siamo e qui e vogliamo pure restarci. Ma il fatto è che ci si sente addosso una responsabilità sempre maggiore, soprattutto adesso che i grandi siamo noi. Un tempo era diverso: si demandava, al riparo di non si sa nemmeno chi. Non sembrava difficile: era sempre stato così e così sempre sarebbe stato. Adesso decidiamo noi l’an e il quantum. Ci si augura vada bene. Abbiamo di che essere preoccupati, pur nella consapevolezza che possiamo attingere solo alla rappresentazione. Altri ci conforteranno se la scelta sia stata quella giusta. Si sale, ecco, «da l’infima lacuna / de l’universo» (Par. XXXIII 22-23) fino al punto più sublime. Nemmeno da lì vale la pena di volgersi indietro, che varrebbe poi volgersi indietro. Così almeno mi pare.

 

 

 

Preferisco darmi qualche piccolo proposito, magari buono, per il tempo a venire, che tra un anno mi riporterà sempre a questo punto, a fare bilanci. Non mi lamento, no. Avrebbe potuto essere più proficuo, ma tutto è sempre perfettibile: lo sappiamo. Mi sento fiducioso, questo sì: ho come la sensazione che certi nodi debbano sciogliersi. Tra tanta lirica, immagino, il viso amato emergerà tra mille, infiniti altri. Allora sì che sarà il giorno della festa. Fino ad allora navighiamo in questa sospensione. Una pagina, una voce, una parola. Ci si può pure accontentare di poco per dare vita a quadri di una notevole sensibilità. Non occorre tanto per accorgersi di quanto sia semplice cogliere il frutto a portata di mano. non lo si vuole ammettere, ecco. E l’anno corre, il tempo va, anche se sappiamo essere immobile. Sì, ammettiamolo una buona volta: siamo noi a correre. Che poi, questo me lo devono ancora spiegare, dove si corra, beh… nessuno lo sa. Si va, spinti in avanti o indietro.

Oggi resto qui, senza altro fare che dedicarmi un poco, non tanto, ma solo un poco a me stesso. Scrivo di me, di quel che vorrei fare e non vorrei fare. La poesia mi piace, questo è ovvio. La prosa mi spaventa alquanto: difficile da governare. Tutti affermano il contrario. Io vado controcorrente. Chi se ne importa. Andate, andate pure: solo chi si dedica alla poesia, ne sono convinto, può azzardare a mettere mano alla prosa. Chissà, forse quest’anno lo farò. Non che io non lo abbia già sperimentato; ma così, tanto per fare, per provarmici. Sarò più sistematico, a tavolino, come i grandi scrittori che in altro non s’ingegnano. Qualcosa verrà pur fuori. Qui, «sul promontorio dei secoli», ci si spingerà ancora più in là, a contemplare l’infinito e ignoto mare. tutto è navigazione, ce lo hanno ripetuto fino allo sfinimento. Me lo ripeto pure io, in questo specchio in cui pian piano mi sto calando, riflettendo me stesso e su me stesso. È pure sempre l’attimo in cui cerco di fermarmi su di me, quel nulla che è stato e che sarà. Sul presente non posso mai garantire. Posso dire solo che l’anno prossimo, di questo giorno, festeggerò il successo.

 

 

© Federico Cinti

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Il the delle befane

Io fui. So che sarò. Non so se sono.

La retta si sdipana. Il punto oscilla

tra l’essere e il non essere. Un frastuono

ho dintorno. Un silenzio di tranquilla

eternità si scopre a mano a mano

davanti e dietro. Scocca una scintilla.

Eco di giorni, il limite lontano

l’ombra del tempo. Il vertice divide

l’incidenza prospettica pian piano.

Esile il filo tra le trame stride,

breve brivido all’attimo improvviso:

esterrefatto l’occhio più non vide.

Fu e più non fu, nulla di tutto intriso

ancora, sempre. Il circolo si chiude

nello specchio. L’immagine d’un viso

era ciò che m’illuse, che m’illude.

«Mi sa proprio che se ne siano accorti, quando è arrivato», m’accennò distratto l’Ingegnere, forse per saggiare la mia reazione. Ogni tanto lo fa, quasi per gioco, di cogliermi all’improvviso nel bel mezzo di un’amena chiacchierata, in una di quelle intercapedini in cui l’argomento ha tutta l’apparenza di essere sul punto di finire.

«E quindi farà parte dell’inclita accolita pure lui?», sussurrai tutto d’un fiato, come quando ci si deve togliere un peso di dosso e si cerca di fare il più velocemente possibile.

«È ovvio», s’affrettò a rassicurarmi in un sorriso. «Sai che non può mancare». E, dopo un attimo di calcolata pausa, soggiunse: «E nemmeno tu».

«Eh già, nemmeno io», gli feci eco. «Ma perché», tentai di continuare, «tutte le volte mi si pone a fianco? Il tavolone ovale col velluto verde è molto grande. Proprio lì deve fare il suo nido?».

«Illogiche dinamiche spaziali», sentenziò, «una sorta di contrappeso cosmico, in modo da riequilibrare le concave convessità siderali».

Non faceva una piega, naturalmente, il suo ragionamento, anche se non ho mai capito perché al rituale the delle befane io non dovessi mancare. E non manco, va da sé: ci tengo a non fare torto a chicchessia. Per chiudere le feste, come si sa, per consumare le briciole ancora rimaste dai fasti gastronomici della fine e del principio.

«Il fatto è che è un fiume in piena», provai a spiegargli, «e, quando poi inizia a bere un po’, è pure peggio». Guardai nel mio bicchiere: lo tenevo gelosamente in mano, temendo me lo potesse chiedere indietro.

«Ma tu non devi fare nulla: ti accomodi lì, ascolti, abbozzi, ogni tanto un piccolo colpo di fioretto. Suvvia, non devo insegnarti il mestiere», mi suggerì sornione, alzandosi in piedi e cominciando a camminare e a mimare con le mani un’arte consumata.

Poi, voltandosi di scatto, mi fissò e intravide un’espressione umbratile sul mio viso: «Quel posto è tuo, lo hai ricevuto dalla storia».

«Quel posto è mio», ripetei meccanicamente.

«Per chiudere l’anno vecchio e iniziare quello nuovo un piccolo sacrificio è d’uopo: è sempre stato così», mi ricordò, appoggiandosi alla sedia di fianco alla mia. «Assecondalo, che t’importa? Ci penserai poi l’anno prossimo».

Già, anche l’anno prossimo mi ritroverò su quello scranno storico. Il mio riscatto sembra proprio impossibile. Tra tante persone il fato s’accanisce contro il povero derelitto solito. E pensare che viene addirittura da non so dove, dalle nebbie oltramontane, per incontrare parenti e amici, per trascorrere qualche giorno a Bologna. io mi ci ritrovai per caso, forse quasi per sbaglio, quando appunto un invito sibillino recitò pressappoco così: “Facciamo il the della befana: la tua presenza è molto gradita”. Accettai, vellicato nell’intimo, ma poi il messaggio fu rettificato subito così: “Ah, scusa, è poi il the delle befane”. E quella specie d’intruglio felino finì per acciambellarsi sulla sedia accanto alla mia per ore e ore.

«Il tempo è dalla nostra, Tranquillo», rettificò a voce l’Ingegnere, «è per un’opera di bene: Dio perdona tante cose…». Sospese studiatamente l’allusione.

«Lasciamo stare Manzoni, dai», lo implorai. Eppure, penso che sia vero. Penso, intendo, che la provvida sventura in qualche modo aiuti i più intrepidi. Per questo me lo sobbarcherò pure quest’anno, mentre la seggiola scricchiolerà e il bicchiere continuerà a svuotarsi e a riempirsi. Mi mangerò un po’ di cioccolato, fondente ça va sans dire, per dare l’impressione di fare qualche cosa.

So che, quando uscirà di casa, tutti tireranno un sospiro di sollievo. No, non è cattivo: è semplicemente ingombrante, come certi pensieri che non ti lasciano mai. chissà, forse altro non è se non il tempo che passa, che incombe. Ce lo si sente addosso, di fianco, ma non lo si afferra mai. a me pare non esistere, il tempo dico, eppure si materializza così, nei riti e nella ciclicità del tempo: una casa, una tavola, un dolce d’occasione, un ospite che non si incontra se non lì, in quell’interstizio.

L’Ingegnere lo sa, lo sa benissimo: sa sempre tutto, lui. Per questo me lo mette accanto, perché è lui che lo fa, scientemente. Crede io non lo abbia capito, ma è il gioco delle parti: ognuno interpreta il suo ruolo finché, come oggi, non mi metto a scriverne, senza capo né coda. Ma il cerchio non ha né inizio né fine, come le cose che facciamo da sempre, come le feste natalizie che aspettiamo per poi farci rattristare tutte le volte. La mia mamma passa sempre Natale in lacrime, ricordando la sua mamma, poi suo marito, poi sua sorella. Insomma, sono più presenti le assenze che altro.

E va bene, anche quest’anno mi siederò vicino a… a… a pensarci bene non ne so neppure il nome. Mi siederò accanto a lui, il cui soprannome è meglio io taccia per verecondia, e attenderò che s’aprano le danze, mentre l’Ingegnere locupleterà doviziosamente il mio piattino sempre in lacrime per i minuti edaci della compagnia. Penso sia questo il senso del the delle befane cui davvero, non posso non ammetterlo, non posso mancare.

E va bene, anche quest’anno mi siederò vicino a… a… a pensarci bene non ne so neppure il nome. Mi siederò accanto a lui, il cui soprannome è meglio io taccia per verecondia, e attenderò che s’aprano le danze, mentre l’Ingegnere locupleterà doviziosamente il mio piattino sempre in lacrime per i minuti edaci della compagnia. Penso sia questo il senso del the delle befane cui davvero, non posso non ammetterlo, non posso mancare.

 

 

© Federico Cinti

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Pensiero a un amico

 

Alba di perla pallida, il pensiero

disegna sogni nuovi. Nei precordi

cupo il rimbombo assiduo del mistero.

 

Inizio e fine, il ciclo dei ricordi

chiude e riapre. In fondo scorre il fiume,

eco lontana di mille echi sordi.

 

Ride un raggio. Nel labile barlume

ombre non viste mai, qualche rovina

nuda tra le macerie, tra le brume.

 

Esule in terra, l’anima sconfina

memore di che fu. Nulla dintorno,

non altro oltre la fragile mattina.

 

Arcana vanità, solo il ritorno

tenue di ciò che dicono sepolto,

un tempo senza età, l’orma d’un giorno

 

mirabile, il sorridere d’un volto.

 

 

Rito d’un giorno eterno che ritorna, nel tempo che in fondo altro non è se non memoria. Inutile volgersi avanti, ovviamente, se non ci si volge indietro. Perché conoscere è riconoscere. Triti pensieri, certo, già detti e già sentiti; eppure, come il sole, si riaffacciano prepotenti, memorie di memorie. sul piccolo nostro segmento l’idea della retta infinita, del prima e del poi. Si torna sempre a quel presente che non c’è, fuggitivo nel riso beffardo di quei soles che occidere et redire possunt (Catullo, carm. V 4). Mi sento il don Camillo che cammina all’infinito sul cerchio e se la prende con i numeri (G. Guareschi, Le lampade e la luce). Disegni della mente, non credo siano più che questo, un fatto di linguaggio, per non dire di rappresentazione. Un punto, ecco che cos’è, soltanto un punto che vaga. E noi lo seguiamo, come s’insegue tutto ciò che si desidera, ma non si può afferrare.

Ora, perché nel giorno del compleanno di Cicerone, questo benedetto 3 gennaio, io mi metta a parlare di qualche cosa che non esiste, il tempo esattamente, proprio non lo so. ne parlo, tutto qui, come di certe nostre fantasticherie sull’orlo del giorno, quando un filo di sole pare un miracolo dopo le tenebre d’una notte intera. Sogno anche quello, forse, anche quel raggio multiforme. Chissà, forse il volto di quel Marco Tullio che tanta parte ebbe dal ginnasio in poi nel mio breve torno d’anni. Ha qualche cosa in sé che altri non hanno. Lo leggo e lo rileggo, ma non arrivo mai al fondo, sempre che ci si possa arrivare. Si affermerà pure di tanti altri, ma Cicerone… ecco, Cicerone ha un quid pluris inarrivabile.  

Non so quante volte l’ho ripetuto al mio amico Ingegnere. Lui inclina verso altri ricordi, verso altri lidi memoriali: ognuno ha le proprie derive è inevitabile. Anche questo è divenuto rito. Oggi verrà ad limina, così da inaugurare l’anno nuovo. Io ricorderò dei miei, lui dei suoi. La sua sarà una concione in piena regola, il mio un tinnulo sorridere di bimbo. Eppure, i due avvenimenti sono in qualche modo collegati, stretti da un filo che oserei chiamare logico. Alle volte, per uno strano gioco combinatorio, ci si trova complementari, nel solito similes cum similibus facillime congregantur.

«Non poteva che essere così», tuonerà veemente, col suo piglio oratorio.

«Non poteva, di certo, non poteva», gli farò eco io, come già tante altre volte, appoggiandomi sullo schienale a guardare in alto.

«Nei corsi e nei ricorsi storici», chioserà vichianamente, «il senso si attua solo nel ciclico ritorno». Lo fisserò incredulo, pensando più a Nietzsche che al povero secentista napoletano. Eppure, le fusioni mi piacciono, anche se non azzarderò l’aggiunta del tassello virgiliano della IV Ecloga.

«Non credi che, se posto su assi cartesiani, questo strano geoide», continuerà mimando con le mani una sfera imperfetta, «assumerebbe la valenza paradigmatica di un corpuscolo metamorfico in perenne movimento su se stesso e attorno all’universo intero?», per chiudere nel compiacimento d’un sorriso.

«È ovvio che io lo creda», lo rassicurerò, pur vedendo davanti a me solo un foglietto bianco con una croce macchiata da una goccia di caffè. Anche perché, il motivo vero per cui viene con Elena, la pazientissima moglie, è poi collaudare la nuova moca, presa nel negozietto di fiducia sotto casa pietendo un po’ di sconto.

 

 

 

Con la tazzina in mano penserò al buon Cicerone, senza farne parola con nessuno. Anch’egli, come è noto, vagò per gli spazi siderali, se è suo il somnium Scipionis. Per me non lo è: non è il suo stile. Provai a suggerirlo anche a una collega, un giorno, e mi rispose risentita: «Ah, no, anche questo adesso!». Ecco, impossibile pensare da soli, al di là di quel che libri compilati da qualche ignoto estensore propalano agli ignari banditori del sapere. Sì, così, io penserò a Cicerone, mentre si consumerà qualche fetta di crostata o la torta di riso, cui anche io – non so come – ho collaborato a realizzare. Mi resterà, come già mi restò, davanti agli occhi il volto di quel genio della parola. Chissà, un inconsapevole gioco di specchi in cui l’uno è nel tutto e tutto nell’uno.

 

 

 

© Federico Cinti

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Buon Natale!

 

Buio nel cuore, buio in tutto il mondo.

Una luce rifulse in un vagito,

orma d’eternità, nel più profondo.

 

Nell’anima un sorridere inaudito,

nella notte un chiarore, oltre la siepe

attorno uno stupore d’infinito.

 

Tremule le auree stelle, tra le crepe

azzurre schiere angeliche, una culla,

la paglia della stalla nel presepe,

 

eterea nel silenzio una fanciulla.

 

 

 

Tutto già è stato raccontato, ma mai veramente il ripetersi di quello stupito miracolo di cui oggi si fa memoria. Buio in tutto il mondo e a un tratto un vagito. Il nuovo fiat lux a rigenerare il mondo. Il senso scava lento dentro il cuore, distilla a goccia a goccia. Eppure, resta qualche cosa. In questo giorno è già una luce nuova, non c’è dubbio. In noi si chiude e s’apre qualche cosa d’indefinibile. Non dobbiamo essere noi a capire: occorre solo farsi trasportare da quell’indecifrabile mistero. Incute timore, certo: ci si spaventa davanti a ciò che non si conosce.

È la forza del presepe, di un luogo fuori del tempo e dello spazio. realtà e contemporaneamente simbolo. Per noi pure vale lo stesso. Fermarci su quella soglia implica il nostro accettare il limite, ma anche la nostra ragione può affermare che «coi piè ristetti e con gli occhi passai / di là» (Purg. XXVIII 34-35). Di nuovo il roveto ardente si fa visibile nel volto che «mi parve pinto de la nostra effige» (Par. XXXIII 131). Uno specchio, nulla di più, lo specchio in cui vediamo le realtà ultime, i novissimi, così come sono, perché in esso «vedi le cose contingenti / anzi che sieno in sé, mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 16-18).

Ecco, anch’io stamattina mi sono fermato su quella soglia, sul piccolo presepe della nostra parrocchia e mi sono ritrovato nel silenzio pensoso di chi non ha bisogno di altro per appagare la propria sete, non tanto diversa poi dalla «sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia» (Purg. XXI 1-3). Non ci si può non soffermare a riflettere, come allo specchio appunto, nella penombra d’un giorno in cui il sole invitto fa mostra di sé nel suo bagliore più autentico, di bimbo appena nato, a ricordarci chi siamo e per che cosa siamo fatti.

 

 

© Federico Cinti

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Nel bosco di Valentina

 

Nulla. Il treno fischiò. La ferrovia

emerse tra le tenebre. Una scena,

la vita, la ragione, la follia.

 

Brevi brividi. Lacrime di pena,

occhi aperti laggiù. D’un tratto un grumo

si sciolse: il volto, il bosco, l’altalena.

 

Cadde il velo dall’anima. Oltre il fumo

onirico sbocciò la primavera

dimenticata, un labile profumo.

 

Il cuore vide. Nella notte nera

vacillò il senso. Sulla via smarrita

attinse alla sua immagine non vera.

 

Lontano il giorno, il cranio tra le dita

esitò nello specchio: restò intriso

nell’incrinarsi, un segno di matita.

 

Tutto già fu. Tutto era già deciso,

impossibile sogno che declina

nel tempo, in noi, nell’ultimo sorriso

 

assorto, senza età, di valentina.

 

 

Delle mie divagazioni in ambito teatrale, se si possono chiamare così, ho già raccontato altrove. Poca cosa, intendiamoci, rispetto al magmatico impeto che spinge alla creatività poetica a meno che, e questo è più che ovvio, non s’intenda tutto ciò che ha a che fare con la creatività una sorta di poesia infinita. E questo potrebbe pure essere, se è impossibile trovare il famoso centro di gravità permanente o quel moto uniforme pensabile sì, ma non realizzabile. O almeno credo, per quel poco che mi è dato sapere. Anzi, non sapere: conoscere. Perché sapienza e conoscenza non coincidono o non dovrebbero coincidere. La lingua alle volte ci offre strumenti instabili di definizione di un concetto. Lo si sa, lo si vede, esperienza insomma quotidiana. Me ne meraviglio ancora, lo ammetto candidamente; ma è più forte di me. E forse è pure giusto così. mi meraviglio e così, come affermerebbe qualcuno, mi vedo da fuori, dall’esterno, come i pazzi pirandelliani. Ecco, questo è il senso dello spettacolo cui, mio malgrado, sono stato coinvolto. Il titolo è proprio quello di cui ho provato a parlare nel mio testo poetico, Il bosco di Valentina.

Penso scrivendo e, quindi, vado un po’ a ruota libera, currenti calamo. Nulla di più che un bosco, se volete la famosa «selva oscura» (Inf. I 2), il cui corrispondente primigenio era «la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2) la scena della nostra vita. già, perché ognuno di noi ha il suo ruolo, come a teatro: a volte decide d’impersonare la maschera che si è scelto, altre la riceve senza accorgersene. Resta così, nel limbo della propria indifferenza, finché un giorno le bevute devono tornare pari, simili ai nodi al pettine. Meglio è prepararsi a poco a poco, come ci consiglierebbe il buon Seneca, in una sorta di cottidie mori. A poco a poco, quindi, senza fatica apparente alcuna, in modo che, quando ci si ritrovi davanti allo specchio, non ci si prenda troppa paura. La nostra immagine rischia di incrinare non certo la superficie, bensì la profondità di quel che si specchia. E lì nasce il dramma o lì muore, se ci si accorge che dall’altra parte tutto resta intero.  Noi parliamo allo specchio, ma non sempre lo specchio parla di noi. Solo Alice è riuscita a trascorrere la linea invisibile che separa i mondi. Il resto è letteratura.

In questo gioco teatrale proviamo a mettere a nudo la follia della ragione. Anzi no, la pazzia. Uno degli attori mi ha fatto notare che follia e pazzia non sono la stessa cosa. Ed è vero, ho pensato, perché la sinonimia non esiste. Ne abbiamo coscienza, certo, della nostra follia, in una sorta di lucidità umoristica, ma non possiamo averne della pazzia, che ci relega al di fuori non solo di noi, bensì pure del consorzio umano. Dentro e fori, ecco: di nuovo il concetto di specchio o di tempio o di spazio. non se ne esce e, quando se ne esce, ci si ritrova in un altro specchio, in un altro tempio, in un altro spazio. negli infiniti mondi possibili anche noi possiamo vestire gli infiniti panni dei secoli ed essere felici, se mai qualcuno lo è stato veramente. Anche i nostri progenitori non lo saranno stati fino in fondo, se hanno avuto bisogno di cogliere di quel frutto proibito. A parole, certo, proibito, ma nei fatti coglibilissimo. E ci si volge indietro, al bel tempo andato, quando magari si stava molto peggio in un sogno di felicità che non sappiamo raggiungere oggi. Il problema è, forse, non ciò che siamo, bensì ciò che non siamo. Né possiamo essere, intendiamoci.

Ecco, questo l’ho capito, o penso d’averlo capito, solo facendo un po’ di teatro con il mio amico Luigi, che ha deciso di mandarmi in scena così come sono. In fondo, noi rappresentiamo sempre noi stessi, nel travaglio creativo d’ogni giornata. Siamo in una chiesa, il 15, il 16 e il 17 dicembre, una chiesina di Bologna, chiusa perlopiù gli altri giorni dell’anno. Io stesso non ci ero mai stato prima d’averci fatto un po’ di teatro. È tra via Begatto e via Quadri, nel pieno centro di Bologna, nella zona che più mi piace e non ne so dire il motivo. Quando penso a un luogo bello della mia città, chissà perché, torno con la memoria proprio a quegli incroci, a quei palazzi, a quei portici che mi hanno visto vivere. Ecco, mi hanno visto, senza che io mi vedessi. E adesso che non mi vedo più, vedo io quei luoghi senza di me, in una dimensione metafisica. Sì, perché valgono di per sé, senza che io li agisca necessariamente. È nel dopo, nella riflessione, che tutto acquisisce senso. È così pure nel nostro Bosco di Valentina, dove una mamma, valentina appunto, ripercorre le sue tragedie assieme ad altri malcapitati come lei in una clinica psichiatrica. La vita, ecco, questa è la clinica psichiatrica, dove ognuno prende il suo treno col suo fardello e lo condivide, alle volte non sa con chi, altre con coloro che si impara a conoscere. Io resto lì, resto a guardare e a imparare, perché «altro diletto che ’mparar non provo» (Petrarca, Triumphus Cupidinis, I 21).

 

 

 

© Federico Cinti

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All’Ingegnere

 

Antichità dell’attimo, ritorni

lento, eppure affrettandoti, sul muto

limitare dei secoli e dei giorni.

 

In questo, non in altro, è l’assoluto,

nello scorrere rapido d’un fiume

giunto placido all’ultimo saluto.

 

Eterno è il tempo. Al lampo d’un barlume

galleggia il senso naufrago ormai sazio:

nulla si perde, tutto si riassume.

 

Era un pallido sogno anche lo spazio

raffigurato, un piano cartesiano

emerso tra le trame d’uno strazio.

 

L’occhio discerne un universo vano,

un’ombra in mezzo alle ombre sulla via;

cala il silenzio al cenno d’una mano

 

assorta: resta solo la poesia.

 

 

inesausto il dialogo continua, anche a distanza, seppure virtuale. Ci si è pian piano abituati a guardare al di là dello specchio, d’acqua o di vetro poco importa, oltre i cristalli liquidi, tanto che non sappiamo più «chi va o chi resta» (E. Montale, La casa dei doganieri, 22). Esserci è tutto. Il tempo s’è fatta pia illusione di un «Oceano senz’onda» (G. Pascoli, Alexandros, I 7), immobile nello scorrere frenetico. Solo così può attuarsi il festina lente, scelto non a caso da Aldo Manuzio (il delfino per il primo e l’ancora per il secondo), come emblema per le sue edizioni che resistono ai secoli più del fragile cascame tipografico quotidianamente gettato nei maceri. La realtà è più ossimorica della rappresentazione verbale che s’affanna a sanarne le contraddizioni, spesso apparenti. Il mio amico Ingegnere ne è più consapevole di me, o almeno lo dà a intendere, sempre con gli occhi al cielo a fissare gli aerei, una delle sue irrefrenabili passioni.

Il tempo non esiste. È un ritaglio più o meno riuscito dell’infinita serie dei secoli. Non nascondiamocelo. È una rappresentazione del mondo. Oggi si tende a obliterarlo, ricercandone la radice. Sarà la velocità della luce a determinarlo? Ma se non esiste, come si fa a registrarne il passaggio. Parlo sempre del tempo, certo. Se ciò che fu e simile a ciò che sarà, se insomma penso il passato e il futuro, come posso conoscerlo, se lo intuisco appena nel momento in cui muore, che – tra l’altro – è lo stesso in cui nasce? Sì, il tempo non esiste: è esistito, esisterà, ma non esiste. È un fiume immobile. Gli antichi lo sapevano bene e ne circondavano il mondo nella loro ricerca di senso: c’era un limite oltre cui tutto era inghiottito, «abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia» (G. Leopardi, Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia, 35-36). Forse perché il tempo è antico come è antico il mondo.

 

 

 

Mi stringo nelle spalle, il mio amico Ingegnere lo sa. Non oso dirgli che pure lo spazio esiste solo come immagine. Sublime immagine, intendiamoci, ma pura immagine, soprattutto nel momento in cui si vuole obliterare la dimensione metafisica. Oltre la fisica, oltre il dato empirico, è ovvio, rimane il mistero inconoscibile: «le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (Par. I 103-105). Chissà, se così si sana la dicotomia tra fenomeno e noumeno: in Dio immagine riflessa, riflesso stesso e specchio coincidono con la cosa in sé, il principio ontologico. Mettiamolo pure su assi cartesiani, diamone pure le coordinate sul piano e nel suo perpendicolo. Dov’è lo spazio? forse esiste solo perché ne abbiamo tracciato i confini, il perimetro, abbiamo cercato di misurarlo. Ma dove inizia e dove finisce? Se non avessimo posto il punto al centro dell’ipotetico foglio, lo spazio non ci sarebbe. Lo abbiamo inventato noi per dissetare l’arsura di conoscenza che ci divora. Esiste forse il vuoto, ecco, attorno a quel punto. Ma è poi vuoto sul serio? Illusione, direbbe il buon Leopardi, ragionando sulla materialità dell’infinito e sull’infinità materiale.

 

 

 

Mi sa che resta solo la poesia, linguaggio dei linguaggi, parola creatrice per eccellenza, quella che aleggiava sulle acque prima che fossero separate dalla terra. Mito o realtà? E chi può affermare con certezza l’infondatezza del primo e la sicurezza della seconda? Anche il mio amico Ingegnere farebbe uno dei sorrisi dei suoi, per dimostrarmi che è solidale, che ha compreso il nocciolo della questione. Ed è vero: sa sempre tutto. Mi verrebbe da rispondergli, sospirando: non equidem invideo, miror magis (Virgilio, Eclogae, I 11), ma poi lascio perdere. Non è il caso, lo so: mi perderei solo in quella «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5) che altro non è, se proprio si vuole insistere, se non «la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2), dove aleggia cantando e scegliendo fiori Matelda, la felicità originaria, che pure non bastava a dare il senso ai progenitori e nemmeno agli ultimi degli ultimi nipoti. insomma, in questo giorno di ritorni, il tempo pare fermarsi in uno spazio che non esiste, con buona pace di sant’Agostino cui nemmeno veniva una definizione di tempo, figuriamoci di spazio. resta il poeta, appunto, e la sua poesia.

 

 

 

© Federico Cinti

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Sulle soglie del bosco – Auguri a Elena

 

Esitai. Sul confine dei ricordi

la via su cui smarrirsi o ritrovarsi,

eco di un’eco al soffio dei precordi.

 

Nulla dintorno. I miei pensieri sparsi

al limite del bosco. Tra le foglie

la traccia dell’età, solchi riarsi.

 

Un sogno, tutto qui. Ci si raccoglie

per un altro sorriso. Scorre il fiume

placido. Nello specchio altre ardue soglie,

 

in lontananza l’ombra d’un barlume.

 

 

Non ne so il motivo, ma l’aureo pulviscolo di quest’ottobre così lento «somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto» (G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare). Ce lo si sente addosso, impalpabile, eppure percepibile, come in un sogno di cui non si ricordi se non d’avere sognato, quando in noi «quasi tutta cessa / nostra visione, e ancor ci distilla / nel core il dolce che nacque da essa» (Par. XXXIII 61-63). E ci si ritrova «sulle soglie / del bosco» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-2), «per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita» (Inf. I 2-3), o la «divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2) del Paradiso terrestre.

Non ne so il motivo, ma non importa nemmeno saperlo. Tutto rientra nell’eterno scorrere del tempo, al di qua o al di là non rileva. Matelda era al di là, «ridea da l’altra riva» (Purg. XXVIII 67), oltre quel «rio, / che ’n ver sinistra, con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo» (Purg. XXVIII 25-27), in un’aura di sogno senza fine, in quella foresta incorrotta che per Dante sarebbe diventata una «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5). Storie di boschi, di selve e di pinete, in quest’autunno che già ha i segni della malinconia incipiente. Poesia, solo poesia, vale a dire vita che si fa trascendenza nel transeunte. Un fiume, tutto qui, in cui non ci si vede riflessi che per una volta soltanto. E di quel fiume resta solo il suono, resta il «fruscio / sottile, assiduo, quasi di cipressi; // come di un fiume che cercasse  il mare / inesistente, in un immenso piano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 11-14)

 

 

 

Ecco, quindi, «sulle soglie / del bosco», l’incipiente autunno, quando «si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie» (Inf. III 112-14), come «tra i nudi sassi / dello scabro apennino» (G. Leopardi, Il pensiero dominante, 29-30), dove l’azzurrità del cielo s’adagia tra gli alberi e le case. Mi ci ritrovo, quasi fosse la mia stagione, mentre i giorni s’accorciano appena appena «e i brevi dì» somigliano a «tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-13), mi ci ritrovo in quest’autunno mite e pallido, simile a una carezza, e mi ci abbandono. Intorno sono favole di antichi miti e storie che si rincorrono negli arzigogoli celesti del vento, portando con sé «la foglia di rosa, / e la foglia d’alloro» (G. Leopardi, Iimitazione, 12-13).

 

 

 

© Federico Cinti

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Nel cuore del poeta

 

Frulla l’idea. Nel cuore del poeta

ride il genio. L’immagine scintilla

alchemica del sogno. Un po’ di creta

nelle mani, nell’occhio la favilla

 

celeste di Prometeo: a stilla a stilla

ecco a un tratto l’essenza più segreta

spira di vita nella sua pupilla

chiara. L’anima ancora si fa lieta.

 

Antica vanità, la fantasia

blandisce il tempo. Nell’eterna urgenza

assorto sembra il volto nel miraggio.

 

La via procede, ricomincia il viaggio

di chi vede e non sa. L’indifferenza

impedisce alla vista ogni poesia.

 

 

ogni tanto penso di non essere io a scrivere. Altri già l’hanno detto, certo, e molto meglio di me; eppure, mi stupisco ancora di come un pensiero, un mio pensiero, possa diventare poesia. chissà, forse «possa» è troppo pretenzioso e sarebbe meglio sostituirlo con «ardisca». Non è il singolo a essere poeta, questo è ovvio, bensì i suoi lettori a riconoscerlo tale, anche se oggi pare piuttosto il contrario. A ogni modo, «frulla a un tratto l’idea» (G. Pascoli, Il cacciatore, 1) e la si deve cogliere, cui fa eco «il frullo che tu senti non è un volo, / ma il commuoversi dell’eterno grembo» (E. Montale, In limine, 5-6).

Ecco, avevo chiesto ai miei studenti di scrivere un sonetto. Pretesa troppo alta? Forse. Ma chi decide del limite altrui? Ci si deve pure inoltrare oltre la soglia, «vaghi già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 1-2). La poesia si coglie dalla viva foresta di simboli, per parafrasare il buon Baudelaire, da quel tempio già neoplatonico che è la natura, fuori e dentro di noi. «Frulla» appunto «l’idea» «sulle soglie / del bosco» in cui non «odo / parole che dici / umane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-4), sia essa o non sia «in su’l lito di Chiassi» (Purg. XXVIII 20), come il Paradiso terrestre.

Era solo la richiesta di un sonetto, come faccio con tutti i miei studenti delle classi nuove, nulla di più. La poesia è anche mestiere, non neghiamocelo. Leggerla non basta. A me non basta, almeno, per entrare nella fucina del poeta e non solo perché egli sia «un grande artiere, / che al mestiere / fece i muscoli d’acciaio» (G. Carducci, congedo, 19-21), bensì perché è inaccettabile che tutti si dedichino alla composizione di versi senza averne coscienza e contezza. Perché fruttifichi, il campo va arato, come suggeriva l’anonimo autore dell’Indovinello veronese, per cui «se pareba boves / alba pratalia araba / et albo versorio teneba / et negro semen seminaba». In fondo, «quando / amor ci spira, notiamo, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro andiam significando» (Purg. XXIV 52-54), ma solo se abbiamo l’umiltà di chiedere al «buon Appollo» di «farci del suo valor sì fatto vaso» (Par. I 13-14), perché veramente l’autore è un altro, è quel dio presente nella parola «entusiasmo», come sottolineava pure l’ovidiano est deus in nobis (Fasti VI 5), ripreso ancora da Berchet nella Lettera semiseria. A chi scrive l’obbligo del labor limae, usando gli strumenti dell’arte, cosicché «le nove Muse ci dimostrin l’Orse» (Par. II 9).

Anch’io ho fatto il mio compitino: ho scritto il mio sonetto sulle gioie e le pene del poeta. I miei studenti lo hanno apprezzato, quando l’ho proposto alla lettura. Ora attendo i miei piccoli poeti: attendo che anch’essi siano presi dallo stesso entusiasmo che ritrasformi l’otium in vero tempo libero da dedicare a se stessi, come Titiro confessa a Melibeo: deus nobis haec otia fecit (Virgilio, Eclogae I 6). Non resta che appassionarsi, riappropriarsi dell’ardore che investe da sempre lo studium. Io ci provo, tutto qui. Ci provo a non lasciarmi fagocitare. Il più è riuscirci.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Luigi Pirandello il narcisista

 

Assidua vanità, tra il tutto e il nulla

langue meditabondo il lanternino:

urge il pensiero, il cuore si trastulla.

 

Inizia allo spettacolo il cammino:

grida l’ansia del vivere, frammenti

in un inesorabile declino.

 

Pulviscolo di sogni era Girgenti,

il cielo, il mare: immersa in uno specchio

rideva nei suoi frusti monumenti.

 

Attesa d’un ritorno, il nuovo e il vecchio

nuotavano tra le onde. Un’altra via

diceva il senso, luna dentro il secchio.

 

Evanescente immagine, armonia

labile nella forma, nelle vesti

lacere apparve il volto di Mattia.

 

Ombra d’un nome, nulla più, modesti

indizi d’una voce, d’una vita

lasciata oltre le palpebre ai pretesti.

 

Nell’acqua, al vento, soglia indefinita

alla vista su cui scivola il piede

radente, ardue macerie tra le dita.

 

Chi vive, quando vive, non si vede,

invito d’una maschera dissolta

senza un perché credibile. Procede

 

in silenzio, cercando, a volta a volta,

sotto un cielo strappato sul più bello:

tra il tutto e il nulla tacito ci ascolta,

 

ardua montagna, in dubbio, Pirandello.

 

 

Me lo immagino entrare e uscire «ciabattando», come era uso apparire e sparire Anselmo Paleari nel Fu Mattia Pascal, Luigi Pirandello, magari «scuotendo la cenere del suo sigaro» in chissà che frammento d’acquasantiera. Dissacrazione, tutto qui, sui frantumi di qualche desueto oggetto sacro oppure ghiribizzo d’una mente inquieta al di là dello sfacelo. L’inizio del secolo non era giunto invano: aveva fatto irruzione, fischiando e ululando, simile al treno in corsa di tante sue novelle. Entrava e usciva di scena, anch’egli sotto le mentite spoglie d’una maschera, quasi che l’autore avesse bisogno d’un artificio per irrompere nella vicenda narrata e dileguarsene. E bravo, Luigi: ora che hai preso il nome di Anselmo, credimi, tutto appare nella sua luce. Anche la «lanterninosofia», con i suoi rigurgiti di coscienza, m’appare meno inquietante. Una questione di specchi, come per Narciso, una vicenda di riflessi e riflessioni. Forse anche Bonn, dove si era laureato, non era poi tanto diversa, forse solo un po’ più fredda e cristallina.

 

 

 

Girgenti era là, ma sarebbe diventata quello che era stata, potenza evocativa dei nomi e delle loro corruzioni, Agrigento. Nel 1927, certo, quando Pirandello era già uno scrittore di successo, poeta romanziere drammaturgo. Eppure, i resti degli antichi templi non sembravano molto differenti dalla Roma postunitaria, umbertina. Ai suoi occhi era ciò che non poteva più essere, destrutturazione di un mondo senza epoche, se non nei libri di scuola. Ecco, l’eterno contrasto tra vita e forma o, per meglio dire, forma e vita. i luoghi non ne sono esenti, come affermava pure un’altra maschera dal naso storto di Pirandello, Gengè Moscarda, in Uno, nessuno e centomila.

Eppure, l’acqua, solo l’acqua rende possibile la prima immagine speculare. Anche a Miragno era stato così. lo aveva compreso subito Mattia che, tuttavia, era già un altro, aveva già deposto se stesso per prendere il nome, solo il nome, di tale Adriano, adriano Meis. In treno, naturalmente, sempre in treno. Lo specchio, questa volta, lo specchio inganna: nel guardare se stesso, Mattia vede Adriano o, più precisamente, Adriano non può che vedere Mattia. Anche quell’acquasantiera va in frantumi inesorabilmente. Anselmo Paleari non lo sa, Luigi Pirandello sì, confusione e diffrazione. Tutto non è come sembra, pur pretendendo di essere ciò che sembra. Lo sapeva, certo, lo sapeva che tutto quanto in vento et rapida scribere oportet aqua (Catullo, carm. LXX 4).

 

 

 

© Federico Cinti

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Giorno d’agosto

 

Assorto il giorno a un soffio di velluto

galleggia. Tutto è immobile: il cammino

in faccia al sole sembra ormai perduto.

 

Ubriaco di luce aurea, il giardino

languisce a un tratto. Voci sulla via

insistono su un vuoto sibillino.

 

Antiche vanità di nostalgia

medita il cuore stanco. In qualche sbaglio

esiste una possibile armonia.

 

Laggiù, solo al di là del vitreo abbaglio

cade il velo invisibile: il segreto

ha senso, si spalanca lo spiraglio

 

impalpabile. Un dolce riso lieto

offre alla vista ciò che sta sepolto

nell’anima. Ovunque si fa inquieto

 

il raggio senza limiti, in ascolto.

 

 

Un soffio obliquo «il sole / in fasce polverose» (G. Pascoli, Patria, 7-8) già di fine agosto, in quel sogno infinito – o indefinito? – che è l’estate. Un incantato stupore, ecco, non molto altro, in questo mare di luce dorata. Inesorabile è il tempo che ci trascorre e trascolora. Non so, ogni volta me ne sorprendo, perché scopro qualche cosa di sempre nuovo in ciò che è sempre uguale. Evocazione e unicità in una fusione che si dà, nonostante la nostra pur misera presenza. Una sorta di eco di un’eco, come ritrovo nelle poesie in cui mi capita d’inciampare ogni volta che le leggo. In quel «sempre un villaggio» (G. Pascoli, Romagna, 1), incipit di una delle prime liriche che ho imparato a memoria, in terza elementare, non posso che risentire due luoghi leopardiani, l’abbrivio dell’Infinito, «sempre caro mi fu quest’ermo colle», e Il sabato del villaggio. Per non parlare dell’«azzurra visïon di San Marino» (Romagna, 4), debitrice chiaramente delle sfumature celesti delle Ricordanze.

Era così l’estate, in un silente guizzo di luce, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (Romagna, 16), quella sospesa intercapedine che altri avrebbe definito «meriggiare pallido e assorto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 1), davanti al miracolo avveratosi, mentre «la mente mia, tutta sospesa, / mirava fissa, immobile e attenta / e sempre di mirar faceasi accesa» (Par. XXXIII 97-99). Solo in questo stato di grazia eccezionale, «a mezzo il giorno, che de le grandi querce a l’ombra stan / ammusando i cavalli e intorno intorno / tutto è silenzio ne l’ardente pian» (G. Carducci, Davanti san guido, 52-56), può cadere il velo di Maya, si può attraversare la linea che separa il fenomeno dal noumeno e accorgersi che «nel suo profondo», proprio lì, «s’interna, / legato con amore, in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII 85-87). Così si può ammettere l’epifania in cui «non bava / di vento intorno / alita» (G. d’Annunzio, Meriggio, 6-8).

 

 

 

Ascolto, tutto qui, quel che succede intorno, nel giardino che circonda casa in un verde che già desidera biondeggiare. È uno stato di grazia, un sollievo dell’anima, come un fiore che spunta inconsapevole. Ogni cosa si dà in questo momento così leggero, in questo evanescente pomario in cui «tolgo e mordo il frutto avventurato / e mi pare di suggere dal frutto / un’infinita pace, un bene, un tutto / tutto l’oblio del tedio e del passato» (G. Gozzano, Il frutteto, 65-68). È l’estate che va, che va e declina a poco a poco impercettibilmente. E io con lei, non dubito. È soltanto il sogno di un’eco che si ripete infinite volte, «nella cava ombra infinita» (G. Pascoli, Alexandros, 59). Ascolto, tutto qui, senza null’altro fare, nell’ora che s’approssima al crepuscolo e che beve le voci lontane in un azzurro siderale.

 

 

 

© Federico Cinti

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