Tutto era nulla. A un tratto azzurro un grido:
il senso, ora svelato all’improvviso,
aveva la tua voce, il tuo sorriso.
Mi ritrovai. Dolcissima, sul lido,
oasi di pace chiara, antico nido
la tua presenza eterea. Nel tuo viso
ombre di sogno, eterno paradiso,
sapevano di gioia. A te m’affido.
A te si schiuse l’anima, rinacque
il cuore. Tra le tenebre il respiro
breve del tempo diventò infinito.
Eri lì. Toccai il cielo con un dito.
Non ti lascerò più, lieve sospiro,
estasi d’un naufragio in auree acque.
il tutto e il nulla, fusione d’inizio e fine, mi stringono e costringono nella loro circolarità. Intorno tutto ruota sull’inconsistenza immateriale del punto sull’infinito spazio del piano. È lo stesso che pieno e vuoto. L’illusione si veste d’azzurra lontananza, grido che squarcia il silenzio in cui talvolta si rischia di cadere. Eppure, a un tratto, ci si ritrova, ci si trova di nuovo, anche noi «per una selva oscura» (Inf. I 2). Ritrovarsi così, nel buio, non nella luce chiara, miracoli e contraddizioni di ciò che ci circonda, appunto, in una ciclicità che è la cifra del nostro essere nel tempo. Forse anche nello spazio, in quel piano determinato dal punto in cui ci si trova e ci si ritrova. Veramente le parole sono nere, buie. E poi quel buio e quel nero divengono luce d’incredibile bellezza. Si fanno voce, si fanno riso, si fanno realtà tangibile e appassionante.
In quell’azzurro, «interminato / spazio» dove «il naufragar m’è dolce» in quanto «mare» (G. Leopardi, L’infinito, 4-5 e 15), ritrovai le «chiare, fresche et dolci acque» (Rvf CXXVI 1) su cui «scintilla, / in testo di scaglia / come l’antica / lorica» (G. d’Annunzio, L’onda, 2-5) il lampo d’una vertigine. Nulla più fu come prima. Tutto trasfigurò se stesso in una soavità chiara, limpida, quasi fuori del tempo. Era possibile, allora, incontrare l’assoluto? Dentro e fuori di me, certo, come vedendomi dall’esterno, con occhi altrui. Fu una gioia immensa, una grazia cercata e insperata. Era un porto tranquillo, voce di madreperla che mi chiamava a un altrove, tuttavia presente e immanente, perché «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Era sogno e realtà insieme, dolcezza che distilla, profezia di Sibilla che s’avverava su quell’onda.
Fu così che tutto mutò in me, che io mutai nel tutto. In alto, in alto, in un lontano cielo, mi sentivo librare e liberare. Il mio dito toccò l’immensa cupola celeste. Già Orazio mi aveva preceduto colassù, cantando «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36), nella più vasta felicità possibile, tra la poesia dei numi e delle Muse. E così cominciò la rincorsa per ritrovare quel primo istante, quella leggerezza senza fine del volo verso le stelle. «Mi ritrovai per una selva» chiara, ti ritrovai nel vortice delle ore, punto fermo dell’eterno fluire. Anch’io rimasi «col trasognato viso di chi sogna» (G. Gozzano, Un’altra risorta, 16) davanti a quel miracolo d’eterea leggerezza. E fu così che il tutto che era nulla divenne una pienezza senza fine.
© Federico Cinti
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