Confessione

 

Tutto era nulla. A un tratto azzurro un grido:

il senso, ora svelato all’improvviso,

aveva la tua voce, il tuo sorriso.

Mi ritrovai. Dolcissima, sul lido,

 

oasi di pace chiara, antico nido

la tua presenza eterea. Nel tuo viso

ombre di sogno, eterno paradiso,

sapevano di gioia. A te m’affido.

 

A te si schiuse l’anima, rinacque

il cuore. Tra le tenebre il respiro

breve del tempo diventò infinito.

 

Eri lì. Toccai il cielo con un dito.

Non ti lascerò più, lieve sospiro,

estasi d’un naufragio in auree acque.

 

 

il tutto e il nulla, fusione d’inizio e fine, mi stringono e costringono nella loro circolarità. Intorno tutto ruota sull’inconsistenza immateriale del punto sull’infinito spazio del piano. È lo stesso che pieno e vuoto. L’illusione si veste d’azzurra lontananza, grido che squarcia il silenzio in cui talvolta si rischia di cadere. Eppure, a un tratto, ci si ritrova, ci si trova di nuovo, anche noi «per una selva oscura» (Inf. I 2). Ritrovarsi così, nel buio, non nella luce chiara, miracoli e contraddizioni di ciò che ci circonda, appunto, in una ciclicità che è la cifra del nostro essere nel tempo. Forse anche nello spazio, in quel piano determinato dal punto in cui ci si trova e ci si ritrova. Veramente le parole sono nere, buie. E poi quel buio e quel nero divengono luce d’incredibile bellezza. Si fanno voce, si fanno riso, si fanno realtà tangibile e appassionante.

In quell’azzurro, «interminato / spazio» dove «il naufragar m’è dolce» in quanto «mare» (G. Leopardi, L’infinito, 4-5 e 15), ritrovai le «chiare, fresche et dolci acque» (Rvf CXXVI 1) su cui «scintilla, / in testo di scaglia / come l’antica / lorica» (G. d’Annunzio, L’onda, 2-5) il lampo d’una vertigine. Nulla più fu come prima. Tutto trasfigurò se stesso in una soavità chiara, limpida, quasi fuori del tempo. Era possibile, allora, incontrare l’assoluto? Dentro e fuori di me, certo, come vedendomi dall’esterno, con occhi altrui. Fu una gioia immensa, una grazia cercata e insperata. Era un porto tranquillo, voce di madreperla che mi chiamava a un altrove, tuttavia presente e immanente, perché «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Era sogno e realtà insieme, dolcezza che distilla, profezia di Sibilla che s’avverava su quell’onda.

 

 

 

Fu così che tutto mutò in me, che io mutai nel tutto. In alto, in alto, in un lontano cielo, mi sentivo librare e liberare. Il mio dito toccò l’immensa cupola celeste. Già Orazio mi aveva preceduto colassù, cantando «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36), nella più vasta felicità possibile, tra la poesia dei numi e delle Muse. E così cominciò la rincorsa per ritrovare quel primo istante, quella leggerezza senza fine del volo verso le stelle. «Mi ritrovai per una selva» chiara, ti ritrovai nel vortice delle ore, punto fermo dell’eterno fluire. Anch’io rimasi «col trasognato viso di chi sogna» (G. Gozzano, Un’altra risorta, 16) davanti a quel miracolo d’eterea leggerezza. E fu così che il tutto che era nulla divenne una pienezza senza fine.

 

 

 

© Federico Cinti

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A mio padre

 

Addio. Fu il giorno, questo, del saluto.

Mi sentii solo, per la prima volta,

in un silenzio gelido, assoluto.

 

Oggi è ancora così. Pallido il sole

preme tra i vetri. L’anima sepolta

attende tra le primule e le viole.

 

Dopo l’addio, papà, non ci scordare.

Restiamo qui ad attendere, a guardare,

esuli in terra, azzurri il cielo, il mare.

 

 

Noi siamo ancora in via, da quella domenica di ventiquattro anni fa. Non mi pare nemmeno vero, resistere tanti anni con questa spina nell’anima. È il ricordo di te, spina e redenzione. Appunto, noi restiamo qui a continuare il dialogo interrotto quella mattina, nel bianco di un ospedale. Stava per scoppiare la primavera, un po’ come oggi, immersi in questo aulire di fiori freschi. Il prorompere della vita s’affaccia alla finestra nel sole a tratti pallido, a tratti insistente. Ci perdonerai se siamo nella tristezza. Chissà, forse non dovremmo.

La tua seggiola è sempre lì, che ti aspetta da quel giorno. Nulla o quasi, per il resto, è mutato. Perché, vedi, nulla può cambiare. Siamo sempre noi, come in quella fine inverno così gelida. Avremmo voglia di raccontare ancora tutto quello che ci resta nel cuore. Un azzurro intenso ci travalica. Ti sappiamo in quella lontananza senza fine, grande come il mare, dove s’allaga ogni nostro sentire. Qualcuno avrebbe parlato di naufragio. Ecco, noi ci si sente un po’ così, come naufraghi in quel mare dove attendiamo una mano che ci salvi. È l’esilio, nell’al di qua.

 

 

Ti vorrei parlare di tante cose, di ciò che ho nel cuore. Tu l’avresti fatto, senz’altro. Una confidenza in questa luce chiara. Fu così anche per te, credo, all’epoca. Ogni tanto la mamma lo racconta. Una storia che si ripete, che deve ripetersi. Non mancherò di aggiornarti. Il viaggio, lo sai, continua. Tu sei nella stanza a fianco, come già ci ricorda sant’Agostino. È solo un difetto, mio intendiamoci, di percezione. Qualche cosa mi tocca il cuore. Appunto, è quel nostro intenderci nonostante tutto e sempre. mi perdonerai se ogni tanto ti sembro distratto.

Il resto già lo sai. non credo ci sia bisogno che io mi dilunghi troppo. Occorrerebbe divertirsi un po’, come all’epoca. Io continuo, la sera, a mangiare un pezzetto di cioccolata: ho mantenuto quell’insana abitudine che avevamo davanti al divano. Mi rimane quel gusto intenso, forte. Non è tanto, lo so, ma è già qualche cosa. Il viaggio, già te l’ho detto, deve pur continuare in qualche modo. Sul tuo esempio penso di potercela fare. Sappi che prima o poi ti disturberò ancora. Forse non vedi l’ora, ma qui, nel tempo e nello spazio, tutto è tirannico. Eppure, la tua mano tesa la sento. Non voglio lasciarla.

 

 

© Federico Cinti

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Al mio amico Cesare

 

Attesa vana. L’attimo

caduco si disperde oltre le pagine

eterne. Antiche nuvole

si specchiano nell’anima e si perdono.

 

Al tempo il nulla cosmico

rimane indifferente. Impercettibile

estasi tra le palpebre

chiuse il fumo azzurrino tra le chiacchiere.

 

Adesso e sempre, il palpito

lontano che ci abbraccia, che ci libera,

assorti nell’ingenua

brezza del giorno tra gli impegni inutili.

 

Ride dell’inquietudine

esistenziale l’ultima vertigine.

Si sa, si è qui, nel pallido

esilio dove tutto passa rapido.

 

 

Ieri era il compleanno del mio amico Cesare. Non c’è nulla da fare: prima o poi ci si vede – o rivede – allo specchio. Negli infiniti spazi interstiziali si trova il senso vero delle cose. Il vuoto non esiste: me ne convinco sempre più. O, meglio, potrebbe anche esistere, ma solo se gli permettiamo che occupi spazio fuori e dentro di noi. È l’horror vacui, chiamiamolo pure così. Alle volte sembra quasi rincorrerci. Il più sta nel non farsi prendere. In fondo è un’insensata dimostrazione della nostra esistenza. Spesso si procede solo per questa vana smania di apparenza. Ho parlato di specchio, ma mi riferivo soprattutto a chi via via, nel nostro percorso, si ha la ventura di conoscere.

Ecco, Cesare è uno di costoro. Ho sempre l’impressione sia in una attesa infinita. Durante la boccata d’aria si riprende il contatto con la realtà. Lo seguo, come posso e quando posso, nelle sue evoluzioni metafisiche. Qualcuno potrebbe pure dire chiacchiere, io stesso le chiamo così. Ma c’è di più, molto di più- mi è capitato più volte di cogliere una profondità in lui che quasi non vuole emergere. Resta chiusa, così, o dischiusa. Occorre spirito d’osservazione per scorgere lo spiraglio, il filo di luce che torna in superficie. Sulla balaustra sporta sul nulla tutto si riacquisisce. A ciò forse porta quella lunga attesa.

Mi viene da pensare che sia una soglia, una delle tante su cui mi trovo a camminare. Una lama di luce, ecco, che squarcia le ombre. Questo mi è stato concesso, questo mi sono conquistato nel tempo. All’ora d’aria aggiungerei il caffè, momento topico come si sa. Perché al caffè, come amo ripetere, come del resto al cuore, non si comanda. Io almeno non so comandare. Aggrega, tutto qui, negli anfratti più reconditi del mondo si coagula attorno a quell’aroma intenso. Penso sia così pure per lui. Non gliel’ho mai chiesto, così, esplicitamente. Non si può parlare di tutto, almeno a parole.

Naturalmente così lo vedo io. Lo vedo per modo di dire, nel senso che mi occorre attendere che l’ombra mi divenga luce prima che io riesca davvero a oltrepassare la linea che mi separa dall’altra parte dello specchio. Nelle corse quotidiane mi stupisco di cogliere dall’esterno le fughe spericolate verso l’ignoto. Già, perché molti – forse troppi? – furoreggiano all’impazzata senza un perché. Anche Cesare la pensa così. Credo perlomeno. Il giudizio lo ha già espresso più volte a riguardo. Nello spazio interstiziale del corridoio tutto si fa possibile (o almeno così mi pare).

 

 

 

© Federico Cinti

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Fiore d’inverno

 

Fiore d’inverno, il tempo troppo breve

indugia tra la luce cristallina,

ora e sempre, al pallore della neve,

riso azzurro di pace, algida trina.

 

Eri e sarai nell’anima bambina

il senso d’un istante lieve lieve,

nel cuore ciò che fu di una mattina

vaga in cui nulla risultò più greve.

 

Eri il sogno avveratosi, eri il vento

rauco tra i rami verdi, eri la vita

nata di nuovo nella luce chiara.

 

Adesso sei l’antica gioia rara,

l’unica forse sulla via infinita,

eternità d’un volto, d’un momento.

 

 

Segno d’elezione nascere in inverno: dall’inerte bruma spuntano i più bei fiori. Non ci avevo mai pensato. E dire che pure io sono nato in un freddo giovedì iemale. Ne posso andare fiero, a questo punto: condivido uno stato di grazia, uno stato che non si può descrivere compiutamente. ecco, lo accenno qui, come per caso. Tutto forse succede per caso, un caso calcolato certo, che gli antichi chiamavano fatum. Ciò che era detto, decretato: capita e quindi accade. Ed è accaduto. E me ne accorgo solo ora, al finire di questa stagione così densa d’avvenimenti da lasciare senza fiato. Prima o poi ne parlerò più compiutamente. adesso chiedo solo un atto di fiducia. Di fiducia, ovviamente, in ciò che accenno e non propalo come dovrei. Non tutto può essere posto sotto la luce chiara.

Ecco, un fiore d’inverno. Qualche persona forse sarebbe lusingata a sentirsi chiamare così. Prima o poi lo farò: ne stia pur certa. Mi sento, davanti a questo spettacolo incantato, come colui che in sogno si stupisce di sentire e vedere avverarsi un miracolo: «Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem. È avvolta nell’ermellino; porta i capelli constretti e nascosti in una fascia; il suo passo è più leggero della sua ombra; la luna e la neve sono men pallide di lei. Ave» (G. d’Annunzio, Il piacere). Anche questo è il riverbero di un’alta capacità di trasfigurare quel che si è in ciò che si vuole essere, anche se qualcuno è naturalmente ciò che è e ciò che rappresenta.

 

 

Trine nivali, sogno senza fine. non amo il freddo, anche se il tempo sembra fermarsi nella stretta del gelo, come gli alberi e i fiumi nell’ode in cui il sommo Orazio parla al giovane Taliarco dei piaceri del vino e dell’amore. Siamo qui e altrove, nella pagina e oltre la pagina, a indagarci dentro e a vederci da fuori. Dall’inverno si passa immediatamente a una dimensione primaverile, in cui si cerca nascosto all’angolo della ragazza che vuole tradirsi. Eterno gioco, questo, delle parti. Non so, l’inverno è tempo di riflessione, di letture, di desiderio. Una voce di madreperla apre lo scrigno incantato e racconta quello che siamo, quello che vogliamo.

Il fiore spunta e rispunta, continuamente. Saperlo cogliere è la sfida. Il suo profumo soave chiama e richiama alla realtà. Nulla è invano, si sa. La letteratura parla di noi, come noi parliamo della letteratura, parola che crea e ricrea instancabilmente. E il tempo si fa breve, troppo breve per non essere avvinti dal sapore dolcissimo dell’ora lieve lieve tra gli ansanti ventricoli del cuore. Tra l’uno e l’altro battito la vita che prosegue e ci avvince, che ci spinge tra l’infinito e il nulla. Parole al vento e vento di parole per le strade deserte, ma tra cui tutto si fa possibile, quasi per caso, per volontà che scende in noi dalle stelle, de sideribus. Ecco, dunque, che «il fiore ha come un miele / che inebria l’aria; un suo vapor che bagna / l’anima d’un oblìo dolce e crudele» (G. Pascoli, Digitale purpurea, I 19-21).

 

 

 

© Federico Cinti

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Favola di Amore e Psiche

 

Di quel momento fragile mi resta

il tuo sorriso. Il tempo si è fermato

a quel giorno indicibile. Fu festa,

miracolo nell’anima insperato.

 

Ora è in me la vertigine. Il passato

restava muta immagine molesta.

Emozione d’un attimo provato

Eternamente. In me fu la tempesta.

 

Poi il cuore rifiorì di gioia rara

sulla soglia dell’essere. Oltre il velo

invisibile un palpito d’azzurro.

 

Chiuso nella conchiglia il tuo sussurro

ha il vero senso limpido del cielo,

esilio in terra, dolce luce chiara.

 

 

In uno specchio mi ritrovo ancora a comprendere chi sono e chi non sono. È la bella fabella (Apuleio, Metam. VI 25) in cui si racconta il viaggio iniziatico di un’anima. Ha nome, certo, è figlia e sposa. Si chiama Psiche. Anima, appunto. A un certo punto trova sulla via ciò che più di tutto le corrisponde. Trova in sostanza la sua completezza, parte di un tutto scisso per invidia degli dèi. Anche a me è capitato così, non c’è che dire: è successo come a tutti, prima o poi, nella vita. niente di nuovo; eppure, eternamente unico. Tutto mutò in un attimo senza fine. tempo e spazio s’annullarono nella dolce luce chiara.

Una vertigine mi prese, ecco tutto. Avvertii in me la levità del fanciullo che fluttuando confessava a tutti coloro che incontrava: «Oh! Voi non siete il bosco, che s’afferra / con le radici, e non si getta in aria / se d’altrettanto non va su, sotterra!» (G. Pascoli, La vertigine, I 7-9). Uno stato di grazia singolare iniziò a mostrarmi le cose sotto una diversa luce, cambiando in me il modo s’ascoltare e percepire l’universo fuori e dentro di me. Anche i miei piccoli versi presero vita, vera vita in quella tenerezza che completa l’essere fino a trasfigurarlo. Era un candore, lungo quella soglia su cui mi muovevo ormai spinto dalla ricerca di non sapevo bene che cosa. In quel «non so che» trovai la giustificazione al mio travaglio interiore. Era questo, forse, come nel mito, il desiderio d’Amore che la bella Psiche vagheggiava ogni giorno, ogni notte, ogni istante.

 

 

 

Rinacque in me, come un fiore dalla roccia, il senso delle cose, il senso vero, quello che o si prova o non esiste. Molti vagano alla ricerca di ciò che non hanno, senza sapere che tutto è già scritto in loro, nelle eterne pagine di chi ci ha preceduto. È la voce della poesia a guidarci sul sentiero che porta all’assoluto, all’infinito. Un volto luminoso, certo, una voce dolcissima ci attrae. La s’incontra, presto o tardi, e non la s’abbandona più, «come in conchiglia murmure di mare» (G. Pascoli, Alexandros, IV 36). Così rivissi il mito, rivisse in me la bella fabella che narrava di un tempo fuori del tempo. Nulla fu invano. Attendo ancora sulla soglia immota il giorno in cui quest’anima, l’antica Psiche, potrà congiungersi per sempre con Amore. Sarà un giorno di festa senza fine. la mano è tesa, aperta a ricevere quella così amata. La poesia, come una corona, cingerà il capo della principessa. Una corona è pronta già nelle mie mani, dono estremo di questo altissimo sentire che mi ridonò la vita.

 

 

 

© Federico Cinti

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Dal primo giorno

 

Sorrisi. Il giorno naufragò all’incanto,

eternità dell’attimo sepolto

in quella sospensione. M’eri accanto:

tutto vanì alla luce del tuo volto.

 

Ultima linea, l’ansia dell’ascolto,

lontananza dell’anima in un pianto

antico di un piacere mai risolto.

Mareggiò il cuore, schianto dopo schianto.

 

Infinità dell’essere sul ciglio

ancestrale del tempo e dello spazio

la voce chiara tesa all’assoluto.

 

Urgenza d’una soglia, d’un saluto,

chiamò, mi richiamò, di te mai sazio.

Eri lì, rosa rossa, bianco giglio.

 

 

Non so, mi capitò proprio così, senza volerlo certo, senza cercarlo. Nelle situazioni ci si trova, tutto qui. Penso lo sappia bene pure tu. Non si è sempre nello stesso stato d’animo; eppure, a un tratto il velo si squarciò nel mezzo e m’apparve il tesoro prima nascosto. Impossibile prevederlo. Nemmeno tu, credo, lo immaginavi. Un tuffo in un mare inaccesso, immensità non più così lontana. Voci e colori si fusero insieme, inscindibile realtà ormai nel ricordo di quell’attimo. Eternità dell’attimo, «punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 17-18). Trovarti fu un dono insperato, l’improvviso sbocciare di una rosa.

 

Il cuore poi «rimareggiò rinfranto» (G. Pascoli, Il tuono, 5), scosso da un turbamento luminoso. Era la voce chiara, la tua voce chiara, di madreperla. La visualizzai così, tra il tumulto dell’anima. Di qualche cosa si parlò, forse di quella «felicità nuova», data dall’indistinto «non so che» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, 24) che mi s’agitava dentro. Non te ne accorgesti nemmeno. O forse sì? Prima o poi cercherò di scoprire l’arcano tra le pieghe di quell’indecifrabile mistero. E fu come la commozione, allora come adesso, immaginarti «sì che par tu pianga, / ma di piacere» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 98-99).

Dal primo giorno, vedi, sei la mia luce. La poesia crea e ricrea incessantemente ciò che la logica tende a distruggere o a ottundere. Sia qui o altrove, come eravamo quel giorno fuori del tempo, «chi sa dove, chi sa dove!» (G. d’annunzio, La pioggia nel pineto, 94), resta il fragile stupore di qualcosa che ci sopravanza e ci trascende. Tu lo sai, io lo so. una gioia leggera permea ancora ogni istante. Non si fugge dall’essere. Purezza incalcolabile è il tuo volto di una rara bellezza. In quel candore diafano tutto risplende, la stella diana, «nunzio del giorno» (G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 4), e la purezza limpida del giglio.

 

 

 

 

© Federico Cinti

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Acquerello per Sara

 

Pennellate di sole. Ride l’aria

ebbra d’azzurro. Palpiti di vita

riempiono il cuore. Sulla via smarrita

sogna l’anima fragile, precaria.

 

Al cuore una dolcezza immaginaria

rampolla, ardua vertigine infinita

adesso e sempre. Labile salita,

caducità dell’ora che non varia.

 

Antica novità di primavera,

presaga del trascorrere dei giorni,

oggi vestita d’una luce chiara.

 

L’ora trascorre, adesso, forse ignara,

lungo i mille sentieri dei ritorni,

in cui tutto sarà come già era.

 

 

Come nasce una poesia? qualcuno di recente me lo ha chiesto. Me lo sono domandato sempre pure io. Spesso mi sono visto da fuori, seduto al mio tavolo, digitare sequenze arcane di lettere. Al mio tavolo, certo, oppure sulla sedia, sul divano, in autobus. Una posa, ovvio: si è sempre fatto così. Eppure, credo che una poesia non nasca: la poesia esiste già, tra le pieghe nascoste delle cose, nell’aria che si respira, nel senso che si scopre a poco a poco, come un miracolo, come una rivelazione. È come se qualcuno ce la dettasse. Il vate ebbe a spiegare che «i’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV 52-54). Un’ipostasi bella e buona, questo suo «Amor», l’entità che per gli scolastici era «voluntas animi», la forza che eleva dal moto discensivo del desiderare (de sideribus) a quello elativo del considerare (cum sideribus).

Nella realtà, non altrove o chissà dove, è insita la poesia, perché «c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico» (G. Pascoli, L’aquilone, 1-2). Straordinaria dichiarazione, questa, di quell’inesprimibile «qualcosa» – altri avrebbe detto «non so che» – «di nuovo» e «d’antico» inscindibilmente insieme. Un unico afflato, un unico senso permea e trascorre gli infiniti piani in cui ci si muove e ci si trova. Ecco dunque che in una pennellata di sole, in un po’ di colore oltre le case si coglie ciò che tutti abbiamo dentro da sempre. in questo la parola crea e ricrea ogni istante, invisibile sibilo del cuore, perché sono sempre «parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 5-7).

Va colta, tutto qui e non altro, la poesia, fiore dolcissimo di campo. Perché la poesia si può donare, come omaggio fuori del tempo e dello spazio, come momento di condivisione immateriale. Non a caso l’occasione, il kairòs, è ciò che muove lo svelamento dalla misteriosa unità al momento particolare in cui si plasma, si dà forma e sostanza allo sciame dei nostri pensieri o emozioni. Non è mai indifferenza o atto cortese, bensì sempre una necessità ineludibile. Non il poeta, quindi, canta e fa versi, bensì il sentimento di cui si fa strumento. anche un compleanno a fine febbraio può essere motivo poetico da onorare, principio e fine di un ciclico ritorno.

 

 

 

Non altro, almeno mi pare, sulla questione. I più faranno finta di capire che cosa significhi questo travaglio interiore. Eppure, l’arte è anche mestiere e non ci si improvvisa nemmeno ad «accordare le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciottolio» (G. Gozzano, La signorina felicita, III 47-48). Anch’io ci ho impiegato tanto a oltrepassare la linea d’ombra che permette di comprendere, seppur velatamente e in modo impreciso, questo groviglio inestricabile. tanti si limitano a fare a pezzi la fragile struttura di cristallo di una poesia, come se il bello di un fiore fosse la sequela ordinata dei petali o la corolla vivisezionata sotto il vetrino del microscopio. La profonda unità tra sostanza significante e significata non può essere oggetto di analisi, pena la scomposizione artificiale di un mistero che continua, nonostante tutto, a restare tale. Chissà, la critica letteraria origina in qualcuno non dallo scambio di idee, bensì dall’impossibilità di averne di proprie e dalla voluttà di distruggere le altrui. La primavera esiste nonostante l’occhio di chi pretende di spiegarla scientificamente. Ma la retorica serve pure a questo, a velare di falsa epistème la dòxa più vera.

 

 

 

© Federico Cinti

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Euridice e Orfeo

 

Eco di un’eco. Per le scale il vento,

urlo azzurro di nuvole lontane.

Restai solo. Nel tacito sgomento

invisibili addii, immagini vane.

 

Dov’eri? dove sei? Parole insane

in un sussurro al lume quasi spento.

Cantai struggenti melodie profane,

esilio di dolcezza e smarrimento.

 

Eri in me, sei nell’anima. Il tuo volto,

ombra di luce, chiara sinfonia,

rampolla al tempo sempre troppo breve.

 

Fummo e saremo, candidi di neve,

estasi eterea, limpida poesia,

oggi e in eterno. In me ti sento e ascolto.

 

 

Tu davvero così sparisti a un tratto, Euridice, o almeno mi sembrò che tu sparissi. Il tuo nome era un sospiro nell’aria azzurra del mattino. Una soglia invisibile, un sussurro. Non so se fu un addio. Fu il desiderio di rivederti presto, al di là dei frammenti di vita che si ricercano tra la ghiaia del cortile, simili ai mille pezzi di vetro dopo la sostituzione della veranda. A un tratto anch’io mi sentii «contento che questo fosse un lavoro di quelli che non possono mai essere finiti, perché, veramente, credo che sarebbe molto triste finirlo, e trovarsi con un’anima che possa stare tutta in una mano. Ho pensato che ogni parte dell’anima sia tutta l’anima intera, e che l’anima intera sia composta di una quantità infinita di parti, come i frantumi dei vetri, la ghiaia, la superficie del muro» (G. Mozzi, Vetri.). e così eri tu, Euridice, oltre la scala al margine del giorno. Eri lì, ti trovai, ti ritrovai. poi quasi il nulla, «nella notte nera» (G. Pascoli, Il lampo,).

Scesi in quel gorgo rapido che inghiottiva ogni cosa, per quella scala d’infiniti passi. M’accompagnava il canto che sgorgava come zampillo lucido fuori e dentro di me. Nulla più fu come prima, nulla più poteva esserlo. Eri tu il canto, Euridice, chiara luce nel pozzo senza fine in cui «cigola la carrucola del pozzo», in cui «l’acqua sale alla luce e vi si fonde» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1-2). Non era un sogno ritrovarti ancora, ma una necessità. Da te, dolce driade fuori del tempo, attinsi l’interminato flusso di parole, di pensieri, di passioni. Tutto fu luce, tutto fu risveglio, al suono melodioso della cetra. Anche il tuo volto riapparì come un miracolo tra le ombre. Non potei più essere quello che ero prima né lo potrò mai. sei tu la mia poesia, perché in quel porto di quiete «vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 1-2).

 

 

Tu e non altri, tu prima e io secondo, nell’infinita corsa delle ore. L’aria limpida, l’azzurro oltre le case, il senso d’ogni istante che oscilla tra l’essere stato e il non essere ancora: questo sarà in noi, questo intorno a noi. È il senso dello specchio, immagine riflessa e conosciuta, tra quei vetri infranti in mezzo alla ghiaia sulla metamorfica liquidità del tutto. È questa, forse, l’unica certezza nell’eterno «panta rhei». Euridice, chiara gioia è il tuo vivere oltre i secoli, nel canto che perpetua senza fine. e allora anch’io ripeterò senza stancarmi: «Che farò senz’Euridice? / Che farò senza il mio ben?» (R. de’ Calzabigi, Orfeo ed Euridice) sulle note dell’immortale Christoph Willibald Gluck. Non sei tra le ombre gelide, perché sei la vita stessa che continua per sempre, non come vorrebbe l’ombra ingannatrice di Pavese che, nel suo racconto, impassibile confessa: «Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. […] S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela» (L’inconsolabile) in Dialoghi con Leukò,. Tu, Euridice, sei la vita, non la morte.

È l’attesa di «riuscire a riveder le stelle» (In. XXXIV 139), insieme, noi, senza più il gravame che ci opprime. Anche questa è poesia, il ritmo delle pulsazioni che creano e ricreano costantemente ciò che siamo e che vogliamo essere. Attendo, sì, attendo quel giorno in cui al sommo di quella scala potremo andarcene liberi dai vincoli, dalle costrizioni, da colpe che non ci appartengono. In questo s’apre e chiude l’eco del vento, voce di madreperla nella conchiglia dell’anima. L’inverno termina ormai in una sottile primavera di colori. Il più bello sei tu, mia euridice, finissima dolcezza tra le nuvole, dove il cuore «’nverso ’l ciel più alto si dislaga» (Purg. III 15). In te la luce chiara è un sogno che diviene felicità reale.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Mauro in memoriam

 

Mi aspettavi, lo so. Non me ne accorsi.

Aspettavi di spalle. Lo imparai

un po’ per volta, dopo, tra i rimorsi,

ruggine ormai.

 

Osservavi la vita. Sulla via

vecchie maschere intrise di ricordi.

Era così che andava, l’ironia

nei tuoi precordi.

 

Tutto già fu, Nel portico l’azzurro

umbratile del giorno, fioco lume.

Rare le voci, timido sussurro

adesso il fiume.

 

 

entrai per sbaglio, sempre ammesso – è ovvio – che lo sbaglio esista, lo sbaglio di natura intendo. Eri di spalle, nel primo tavolino di sinistra. Tenevi circolo assieme agli avventori di una vita. chissà perché, poi, prima di allora non ci ero mai entrato al Caffè Margherita, all’incrocio tra la Porrettana nuova e la Porrettana vera. Era il 2009 o giù di lì. Ora che sei al di fuori del tempo non importa, ma a noi esseri cronici un po’ sì. In verità, credo non t’interessasse nemmeno allora, quando eri dei nostri. Dei nostri, insomma: eravamo noi piuttosto a essere dei tuoi. Io, almeno, mi sentivo così. Mi sentivo di conoscerti da sempre. anzi, no: eri tu che mi conoscevi da sempre, anche se la soglia la varcai per sbaglio quando ero grande. Già, ma grande rispetto a che? Forse, e tu lo sapevi bene, non sono mai cresciuto del tutto. Tu mi aspettavi per cominciare il dialogo che si è interrotto solo quando hai deciso, strano gioco del capocomico, di uscire di scena. sì, perché è tutto «una grande pupazzata», per dirla con Pirandello. E tu di maschere te ne intendevi, perché avevi la capacità di vedere al di sotto e al di là dei personaggi che entravano al bar. Chissà, il sommo capocomico eri tu, da dietro al bancone, in cui ti muovevi furtivo come un gatto sornione.

Mi dicesti qualcosa, ma non chiedermi che cosa. Il dialogo non è fatto sempre di cose che si dicono. Più spesso mi accorgo che è ciò che non si dice l’autentica corrispondenza di sensi. qualcuno scomoderebbe la visione del mondo, ma vedere o non vedere è solo una condizione estemporanea. Ti piaceva dissacrare, esercizio in cui del resto mi ritrovo benissimo pure io. Da dietro le ciglia si vede ciò che è invisibile agli occhi. Tu lo sapevi. Per questo, credo, mi aspettavi. Non potevamo non incontrarci. E infatti il varco era proprio lì, sotto il portico, luogo pubblico in spazio privato. Era la dimensione in cui si può scorgere ciò che si vuole celare. Perché, non neghiamocelo, anche inconsapevolmente molti celano ciò che non sanno. La tua ironia era un bisturi. Non faceva male; anzi, guariva, medicina dalle ansie, dalle corse, dallo sconforto. Insomma, non ci si poteva non fermare. Col tempo ho compreso che alcuni se la davano come una posa sedersi al tuo cospetto. Erano i tuoi bersagli preferiti, come lo sono i miei.

Ci fu un periodo in cui avevo preso l’abitudine di venire a prendere il caffè la domenica mattina presto, con Davide Monda, il mio amico virtuoso della viola. Ne parlaste a lungo: anche di quello sapevi tutto. Perché, quando entravamo, trovavi sempre il modo di sederti assieme a noi. Non ho divinato se lo facessi con tutti, anche se oggi sono persuaso di sì. Il tempo c’era, nel querulo brusio di tanti altri caduti dal letto come noi. Già, perché ogni orario aveva i suoi avventori e per ogni avventore tu avevi una parola. Non che cambiassi in funzione di chi entrasse, piuttosto era la tua capacità introspettiva a mutare l’angolo di prospettiva con cui scrutavi l’oggetto o il soggetto. Il resto erano dettagli del momento e della circostanza. Tant’è vero che pretendesti che venisse anche lui, anche Davide, il bel pomeriggio di maggio in cui presentammo il mio Bestiario. Ritratti veri di persone false. Correva l’anno 2013. Non ho fatto in tempo a chiederti perché tu abbia chiuso il libretto sul Caffè Margherita proprio con la foto di quel pomeriggio, un paio d’anni dopo. Ero molto soddisfatto di quella scelta e mi bastava. Tutto qui. Pensa che ho ancora cinque o sei copie del testo, in qualche parte della mia libreria dalle amicizie speciose.

Amavi tanto le foto: il Margherita ne è pieno. Sono presenze mute di un passaggio lontano. E pensare che ci sono pure io. E adesso ci sei pure tu, anima silente di quel luogo della memoria. Già, perché, anche quando ci si veniva con Stefano Orlandi, mi pareva di entrare in un’altra dimensione. Non so se anche per lui fosse così, ma non mi chiedeva dove andare: si veniva direttamente da te. Magari tu eri a casa, per riposare, e non ti si salutava nemmeno. Oppure, a un certo punto, uscivi non si sa da dove e così cominciava il siparietto. Ed era così pure con Gabriele Mignardi, il famoso giornalista, cui ogni tanto chiedo pure qualche fotografia del mondo circostante. Me ne manda tante e poi mi suggerisce di buttare qua e là l’occhio, un po’ come facevi tu quando mi dicevi che non ti capacitavi del fatto che io non avessi visto il tavolino che era lì anche prima. Ma ci sta, che vuoi che sia? C’è stato un giorno in cui l’ombra è diventata luce e allora ho cominciato a vederci davvero. Penso sia successo così anche a te, soprattutto adesso che ridendo mi starai guardando scrivere un ricordo di te, come se ce ne fosse veramente bisogno.

 

 

 

© Federico Cinti

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Enea e Didone

 

Allo specchio dell’anima il tuo volto

era di una bellezza senza fine:

nel cuore le macerie, le rovine

esuli di uno spirito irrisolto.

 

All’inatteso naufrago il tuo ascolto

eternò il tempo all’ultimo confine

e mareggiò quell’essere tuo affine

tanto al mio nell’immagine sepolto.

 

Dialogo senza termine di giorni

infiniti, infinita nostalgia

dove tutto si può, tutto s’impara.

 

Ora tu sei, mia dolce luce chiara,

nell’ansia dileguata sulla via,

il senso di partenze e di ritorni.

 

 

eppure, come racconta il «divin poeta», andò proprio così, andò che Enea e Didone si amarono al di fuori del tempo e dello spazio. naufrago e profugo il primo, fuggitiva e perseguitata l’altra. Così, si ritrovarono (o ritrovarono se stessi?) l’uno di fronte all’altra, come l’Italia all’Africa. Due universi, due destini, irrimediabilmente uniti e divisi dal mare. s’incontrarono sulla soglia dei mondi, ai margini del tempo. S’incontrarono e s’amarono. Due metà che si fusero insieme e confusero, completandosi a vicenda come frammenti di simboli ritrovatisi a un tratto e per sempre. ella «ruppe fede al cener di Sicheo» (Inf. V 62), bevendo nello specchio degli occhi riflessi nei suoi, egli «che pria da Troia, per destino, ai liti / d’Italia e di Lavinio errando venne» (A. Caro, Dell’Eneide, I 2-3) fu raccolto dopo i l naufragio e naufragò di nuovo in altre acque.

 

 

 

Viaggio di viaggi, racconto di racconti, partenze e ritorni sull’infinita via ondosa, liquido amniotico perpetuamente in moto in cui nascere e rinascere. In Didone, non c’è proprio dubbio, Enea s’imbatte nella sua Calipso, nel suo nascondimento. In lei l’eroe vide il possibile sogno della felicità, quel sogno di vanità, sogno d’oblio in cui avrebbe potuto smarrirsi un’altra volta non solo invano, bensì per sempre. non avrebbe ripreso mai più l’immenso piano azzurro, il «marin suolo» (Inf. XXVI 129) d’Ulisse. Didone è pronta ad accoglierlo senza riserve. La città che tanto cerca è davanti ai suoi occhi, è nella sua regina. Enea non vuole riprendere il pelago, ma fermarsi e contemplare a destra il sole sorgere e nel suo corso occiduo a sinistra cadere «non molto lunge al percuoter de l’onde» (Par. XII 49): «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20)

Aeneae et Didoni et nobis loquor. Questo, forse, avrebbe dovuto essere il vero titolo, l’autentico senso del riflesso in cui ci si vede da fuori. Nulla vale il sorriso di scoprire che tutto già fu scritto e che si può riscrivere. Nell’oltracotanza di sostituirsi al genio si dà il continuo progresso, eterno volgersi e rivolgersi indietro. S’attua il ciclo, anche se non lo si scorge all’istante, anche se i più fingono non esista. Il cerchio, in fondo, altro non è se non l’espansione del punto nello spazio, su cui è possibile sollevare con Archimede l’intero universo. Il ciclo in cui inizio e fine non esistono è il tempo che rende possibile il fiorire e lo sfiorire. Nulla di più. Ecco Enea e Didone, ecco il nostro ritrovarsi in loro. Non fu un caso, allora, sentire nella voce di una donna l’eco della conchiglia che ripeteva la nostra storia, il nostro amore.

 

 

 

© Federico Cinti

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