Enea e Didone

 

Allo specchio dell’anima il tuo volto

era di una bellezza senza fine:

nel cuore le macerie, le rovine

esuli di uno spirito irrisolto.

 

All’inatteso naufrago il tuo ascolto

eternò il tempo all’ultimo confine

e mareggiò quell’essere tuo affine

tanto al mio nell’immagine sepolto.

 

Dialogo senza termine di giorni

infiniti, infinita nostalgia

dove tutto si può, tutto s’impara.

 

Ora tu sei, mia dolce luce chiara,

nell’ansia dileguata sulla via,

il senso di partenze e di ritorni.

 

 

eppure, come racconta il «divin poeta», andò proprio così, andò che Enea e Didone si amarono al di fuori del tempo e dello spazio. naufrago e profugo il primo, fuggitiva e perseguitata l’altra. Così, si ritrovarono (o ritrovarono se stessi?) l’uno di fronte all’altra, come l’Italia all’Africa. Due universi, due destini, irrimediabilmente uniti e divisi dal mare. s’incontrarono sulla soglia dei mondi, ai margini del tempo. S’incontrarono e s’amarono. Due metà che si fusero insieme e confusero, completandosi a vicenda come frammenti di simboli ritrovatisi a un tratto e per sempre. ella «ruppe fede al cener di Sicheo» (Inf. V 62), bevendo nello specchio degli occhi riflessi nei suoi, egli «che pria da Troia, per destino, ai liti / d’Italia e di Lavinio errando venne» (A. Caro, Dell’Eneide, I 2-3) fu raccolto dopo i l naufragio e naufragò di nuovo in altre acque.

 

 

 

Viaggio di viaggi, racconto di racconti, partenze e ritorni sull’infinita via ondosa, liquido amniotico perpetuamente in moto in cui nascere e rinascere. In Didone, non c’è proprio dubbio, Enea s’imbatte nella sua Calipso, nel suo nascondimento. In lei l’eroe vide il possibile sogno della felicità, quel sogno di vanità, sogno d’oblio in cui avrebbe potuto smarrirsi un’altra volta non solo invano, bensì per sempre. non avrebbe ripreso mai più l’immenso piano azzurro, il «marin suolo» (Inf. XXVI 129) d’Ulisse. Didone è pronta ad accoglierlo senza riserve. La città che tanto cerca è davanti ai suoi occhi, è nella sua regina. Enea non vuole riprendere il pelago, ma fermarsi e contemplare a destra il sole sorgere e nel suo corso occiduo a sinistra cadere «non molto lunge al percuoter de l’onde» (Par. XII 49): «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20)

Aeneae et Didoni et nobis loquor. Questo, forse, avrebbe dovuto essere il vero titolo, l’autentico senso del riflesso in cui ci si vede da fuori. Nulla vale il sorriso di scoprire che tutto già fu scritto e che si può riscrivere. Nell’oltracotanza di sostituirsi al genio si dà il continuo progresso, eterno volgersi e rivolgersi indietro. S’attua il ciclo, anche se non lo si scorge all’istante, anche se i più fingono non esista. Il cerchio, in fondo, altro non è se non l’espansione del punto nello spazio, su cui è possibile sollevare con Archimede l’intero universo. Il ciclo in cui inizio e fine non esistono è il tempo che rende possibile il fiorire e lo sfiorire. Nulla di più. Ecco Enea e Didone, ecco il nostro ritrovarsi in loro. Non fu un caso, allora, sentire nella voce di una donna l’eco della conchiglia che ripeteva la nostra storia, il nostro amore.

 

 

 

© Federico Cinti

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Rosa dolcissima

 

Ridesti, rosso fragile d’un giorno

ormai sfiorito; eppure, la fragranza

si spande più che mai chiara dintorno

all’aleggiare fragile di danza.

 

Dono inatteso, nella lontananza

oscilla ancora tremulo il contorno

lungo la soglia: nella buia stanza

colsi dal mio crepuscolo il ritorno.

 

In me sentii rinascere qualcosa,

simile a un dolce sibilo d’azzurro:

sentii che ero rinato a nuova vita.

 

In quell’istante, sulla via infinita,

mi fermai al tuo profumo, al tuo sussurro,

ai tuoi soavi petali di rosa.

 

 

Uno specchio, una rosa, due anime: nulla di più. Il resto mi pare superfluo o forse è ricordo, eco di un’eco che si perpetua. Nei racconti e nel canto tutto è possibile, «fior da fiore», diciamo pure così. E in quei fiori sta tutta la riflessione, chissà se pure quella dello specchio, riguardo alla soavità e alla caducità. Perché è vero, «la verginella è simile alla rosa, / ch’in bel giardin su la nativa spina / mentre sola e sicura si riposa, / né gregge né pastor le s’avvicina» (L. Ariosto, Orlando furioso, I 42, 1-4), a cui risponde il pappagallo lusinghiero che canta «Deh mira […] spuntar la rosa / dal verde suo modesta e verginella, / che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa / quanto si mostra men, tanto è più bella» (T. tasso, Gerusalemme liberata, XVI 14, 1-4).

Tanti altri si sono cimentati nell’elogio di questo fiore, da Chiabrera a Marino, da Gozzano a Moretti, anche se oggi non voglio vestire i panni dell’amico pedante. Eppure, tutto si perpetua, in un copione che non ha mai fine, sempre nuovo com’è. Forse letteratura, forse vita. è che mi ci metto pure io a ragionarci su e mi rivedo, in qualche modo, agire in un sogno, in uno specchio appunto in cui tutto si fa possibile, perché tutto lo è veramente. La realtà è fantasia e in noi diventa rappresentazione. Il confine non è più così certo né vuole esserlo. Resta il sogno di quella rosa, di un fiore eterno di dolcezza senza fine. e il rosso, poi, vita che fluttua e fluisce nelle vene. Non so, ci nutriamo di simboli; anzi, siamo noi stessi simboli di qualcosa di più grande e di più significativo.

Non di più e non di altro vorrei parlare, quest’oggi, mentre ripasso la «rosa della grammatica latina» (M. Moretti, Rosa della grammatica latina, 1), l’unica certo che non sfiorisce mai. si declina così il tempo e la vita. mi è rimasta addosso, mi è rimasta dentro, come il profumo di quel giorno in cui sulla soglia incontrai quel fiore senza tempo. Un ricordo, intendo, un sogno di cui mi resta il distillare tenue senza tempo. Penso che nulla valga l’immagine inafferrabile di quel fiore. Forse, non è sempre vero che si amano solo le rose che non si colgono. Ma questa è un’altra storia.

 

 

© Federico Cinti

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Senza fine

 

Albeggiò. Squarcio tremulo. Lontano

musiche rosa candide vermiglie.

Occhio aperto, riflesso d’un profano

risveglio dentro un mare di giunchiglie.

 

Eri tu, tra le mille meraviglie,

sola certezza in quest’andare insano.

Eco, voci di voci, eterne figlie

nell’attimo in cui nulla era più invano.

 

Zampillò la tua dolce luce chiara

al soffio della vita sulla via.

Fu il tempo lungo il baratro, scogliera

 

in cui si riaffacciò la primavera.

Nel cuore la tua pura melodia,

estasi d’improvvisa gioia rara.

 

 

E tutto a un tratto si squarciano le tenebre notturne, quando «già de l’ultima stella il raggio langue al primo albor ch’è in oriente acceso» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XII 58, 3-4) e intanto «spunta / fra la tacita selva in sulla rupe » il «nunzio del giorno» (G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 2-4). Così ogni cosa cambia all’apparire di Venere e una luce nuova riaccende una speranza. Come un lampo zampilla una gioia inesprimibile e inattesa. In quel bagliore fluttuano armonie celestiali, riflesso di un’anima alla ricerca di quanto la completi. Un canto senza fine di cori angelici intona: «O Maria, diana stella, / che riluci più che ’l sole, / la mia lingua dir non pole, / o Maria, quanto sei bella» (S. Razzi, O Maria, diana stella, 1-4), e ricomincia il giorno.  

Suoni e volti si rincorrono, nuovi Eco e Narciso nello specchio del cuore. Nel giallo delle giunchiglie si riflette il sole riaffacciatosi nella cosmica armonia. Senza fine si genera l’amore oltre l’umido buio in cui tutto è inghiottito per sempre. occhio e voce, coagulo di mille meraviglie in cui ogni dimensione riacquisisce il proprio senso. Il ciclo ripercorre il trito sentiero all’infinito. Eppure, ci si ritrova sempre sull’ultima linea, a domandarsi: «Perché ne l’aria bruna / sudian, quasi dolendo, intorno intorno, / gir l’aure insino al giorno? / Fur segni forse de la tua partita, / vita de la mia vita?» (T. tasso, Qual rugiada o qual pianto, 8-12). Di nuovo e per sempre, senza fine, Enea saluta la sua bellissima Didone.  

 

 

Dall’antica scogliera «ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19-20). Il varco è proprio qui, sulla cresta dei secoli, nell’eterna primavera che ritorna «e festosetti / la salutan gli augei con lieto canto» (A. Vivaldi, La primavera, 1-2). Sulle acque si riflette la luce in infinite scaglie d’oro. Quello è il tesoro del cuore. La rinascita passa dal sogno di un giorno migliore, nell’oblio rasserenante in cui si dissipa la notte. E così agli occhi e al cuore si schiude l’estasi che ridona alla vita, eterea metamorfosi.

 

 

 

© Federico Cinti

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Oblio di sogno

 

Eterea levità, fu il tuo sorriso

Smarrimento d’un attimo infinito.

Tutto successe a un tratto: all’improvviso

una dolcezza sul sentiero trito.

 

Sfiorai il cielo sublime con un dito:

tutto mutò, tutto fu gioia e riso;

ubriaco ormai, mi ritrovai stupito

percorrendo le vie del paradiso.

 

Oblio di sogno, attesa sulla vana

rarefazione al palpito del giorno,

m’incamminai di nuovo oltre la soglia.

 

Eri di luce chiara, eri la voglia

urgente d’un sospiro, d’un ritorno

senza il filo che attorto s’addipana.

 

 

[Sonetto classificatosi al secondo posto al concorso Amore… parole dal cuore 2022 nella sezione metrica]

 

 

Incredibile, forse; eppure, mi è capitato proprio così, come canta Alfredo alla sua trasognata Violetta: «Un dì, felice, eterea, / mi balenaste innante, / e da quel dì tremante / vissi d’ignoto amor. // Di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero, / misterioso, altero / croce e delizia al cor». Non so se sia l’arte a ispirarsi alla vita o la vita all’arte. Qualcuno, dall’alto del suo genio, scrisse che «di natura arte par, che per diletto / l’imitatrice sua scherzando imiti» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI 10, 3-4). È specchio, tutto qui, in cui ci si smarrisce e ci si ritrova a un certo punto. Mi fa sempre sobbalzare il verbo «ritrovarsi», come ci racconta il massimo tra tutti i pellegrini della storia che, «nel mezzo del cammin di nostra vita / si ritrovò per una selva oscura» (Inf. I 1-2). Ecco, così, si ritrovò, come successe a me, davanti a quella luce chiara. Fu un ritrovare me stesso. L’ho capito attraverso i versi di Piave.

È specchio, certo, è soglia che impercettibilmente si supera, senza accorgercene. La realtà ci si mostra per quella che veramente è. Ci si mostra o ci appare, in quell’eterno gioco di deformazioni che chiamano vista, udito, tatto, olfatto, forse pure gusto. Tutto si trascolora, tutto assume un senso diverso e divergente nell’aura in cui ci immergiamo. E si giunge a toccare il cielo con un dito, come confessò Orazio al suo Mecenate, per ringraziarlo di avergli concesso di essere quel che desiderava: «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36). Era davvero l’anima mundi, «di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero». A quella voce chiara trasalii d’un tratto, come quel Morvàn che «viveva con sua madre in Cornovaglia: / un dì trasecolò nella boscaglia» (G. Pascoli, Breùs, I 1-2). I sogni ci si palesano davanti e noi cominciamo a inseguirli. Così nasce l’amore.

 

 

A volte me lo domando e non posso che rivolgere lo stesso quesito a quella donna meravigliosa: che fu quel giorno? Chiara nell’orecchio ho la tua voce, luce nei ricordi in cui spesso mi specchio e mi rispecchio. Fu il primo giorno, certo, quella prima volta in cui tutto cominciò, quasi per sbaglio. Ecco, appunto, quasi, perché sbaglio non fu, fu certamente segno da decifrare, simbolo da riconoscere, un po’ come il famoso filo che legava Arianna e Teseo. Ora noi diciamo che è la memoria, perché abbiamo nell’orecchio che «un filo s’addipana» (E. Montale, La casa dei doganieri, 11). Sul limite a strapiombo, sulla frontiera che più non si vede, la memoria è un filo che non può non legare. Nel mio caso, almeno, è così, voglio che sia così. Eri «felice, eterea» e «mi balenasti innante»: me lo canto e me lo ricanto. Il più è avere il coraggio di farlo davanti a quell’eterna luce chiara. Ma verrà il giorno: ne sono sicuro.

 

 

© Federico Cinti

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Intervallo

 

S’aprì un varco. Nell’anima un sorriso

esule. Sulla soglia uno spiraglio

infinito di sogno. All’improvviso

tutto mi si mostrò. Non fu per sbaglio.

 

Urgeva l’ora, languido travaglio

in cui ci si riflette. Viso a viso

l’ansia si sciolse. Nulla fu dettaglio,

minuzia malinconica. In quel riso

 

il senso delle cose. Le parole

orme di vita, tenue lontananza

sull’ampia luce chiara tutt’intorno.

 

Oscillavano i battiti del giorno,

lenti lenti, di timida speranza.

E io? Ero solo un’ombra, tu il mio sole.

 

 

Non avrei mai creduto che le cose potessero avvenire, come sentenziò qualcuno, per intervalla insaniae. Eppure, ci si deve ricredere, ogni tanto. Si va, come in mezzo alla folla brulicante di un luogo non nostro, finché non accade che si squarcia la notte e tutto a un tratto una luce chiara rivela il senso recondito. E, così, «Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, / Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan, / La douceur qui fascine et le plaisir qui tue. / Un éclair… puis la nuit!» (Ch. Baudelaire, À une passante, 6-9). In quel lampeggiare l’epifania estrema dell’essere e dell’esserci. Bere dagli occhi come alla fonte della vita e della conoscenza. In quei «mobili cristalli» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI, 9, 3) si riflette il Narciso innamorato di chi ancora non conosce.

Minuzie filologiche, certo, nulla più, nella vita che trova il suo senso proprio nell’intercapedine che assorbe la corsa inevitabile dell’ora. Fermarsi è un nulla sul ciglio che ci salva dall’oblio, mentre tutto sembra grigio languore intorno. E l’arte si riversa a liquide cascate dalle finestre aperte sul giardino e qualcuno ripete ancora tra sé, magari guardando annoiato, che «Ha forma […] questo non glielo si può negare; ma ha sentimento? Temo di no. Di fatto, è come la maggior parte degli artisti; è tutto stile senza nessuna sincerità» (O. Wilde, L’usignolo e la rosa). E così è ritrovarsi, forse per sbaglio o per necessità, quando tutto il resto scompare e si resta come «les enfants qui s’aiment» e di essi «Et c’est seulement leur ombre / Qui tremble dans la nuit» (J. Prèvert, Les enfants qui s’aiment, 4 e 6-7). Quelli sono attimi rari di felicità.

 

Tutto si trasfigura, anche se «trasumanar significar per verba / non si poria» (Par. I 70-71). Resta nel cuore, forse sulla pagina, tra parole che fluttuano nel vento, come nella memoria, quell’emozione inesprimibile. Non tutto si può comunicare, non tutto si fa oggettivo. La poesia mantiene in sé qualcosa di indecifrabile. È simile a un colloquio tra chi non ha bisogno di altro se non di un cenno, un dettaglio, un piccolo sussurro. Ecco, è un incontro sul limite del tempo e dello spazio, un atto di cosmica necessità. Dal varco che si apre si può accedere alla felicità, al carpere diem tanto sperato. Ci si trova davanti all’epifania dell’assoluto, come il cadetto di Guascogna che prega di «non ridere, ti prego, di queste mie parole: io sono solo un’ombra e tu, Rossana, il sole» (F. Guccini, Cirano). Anch’io mi sentii così, sospeso «verso l’ultima salute» (Par. XXXIII 27). Inutile insistere: chi ha provato quel che racconto ci si rispecchierà, vita vissuta, vita vera. Poesia insomma.

 

 

 

© Federico Cinti

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In te vidi la luce

 

Infine, ti trovai. Per sbaglio, forse.

Non so. Fu un grande dono inaspettato.

Ti trovai, di sfuggita, tra le corse

estenuanti del giorno, impreparato.

 

Vidi il sole. Un candore sussurrato

il senso delle cose già trascorse.

Distinsi nel futuro il mio passato

in quell’attimo. Il cuore mi rimorse.

 

L’immagine del vero, l’armonia

attesa, l’ala bianca di gabbiano

libera sulla soglia in fondo in fondo,

 

uscire, entrare. Eterno varco al mondo.

Chiara sentii la voce. Di lontano

era un’eco di un’eco di poesia.

 

 

nulla è invano, si sa. Lo si ripete forse con troppa sicumera a volte. Eppure, ci si deve credere sul serio, se è vero – come è vero – che le coincidenze non esistono. Nemmeno per assurdo nei trasporti, ambito in cui tutto è creato ad arte. Gestito non lo so. non mi pare per nulla, anzi; ma questa è un’altra storia. Un altro viaggio, davvero: «anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / IL mio dura tuttora, né più mi occorrono / le coincidenze» (E. Montale, Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale, 3-5). O meglio mi servirebbero, per continuare il percorso già tracciato, la via intrapresa quello strano giorno in cui il sole fece capolino, quando In te vidi la luce. Sostanza e accidente, il kairòs nel chronos. Forse, è così che nasce la poesia, dalla parallela convergenza di vite che un giorno s’incontrano. Era il nero germe dell’aratore che «se pareba boves, / alba pratalia araba» (Indovinello veronese).

 

 

 

Era la soglia, tutto qui, attraverso cui esiste un’uscita e un’entrata. Invisibile, certo, come l’ombra che avvolge il senso delle cose e che, tutto a un tratto, all’improvviso, ci si svela davanti. È allora che ogni cosa si fa chiara. Si corre e si percorre infinite volte una strada, senza tuttavia vedere, senza tuttavia poter sentire. Ed ecco il raggio obliquo segnare la via giusta, non più smarrita «la diritta via» (Inf. I 3). E non se ne conoscono i motivi. Succede, nulla di più. Anzi no, il di più è l’accorgersi di quel tempo che si fa occasione, motivo e movente. Emozione e commozione, tra le pieghe dell’essere. Così nasce e rinasce la poesia, nella greve realtà in cui un rivolo azzurro d’inchiostro riga le pagine bianche. In quell’attimo ci si specchia. Ecco, è così che «M’affaccio alla finestra, e vedo il mare: / vanno le stelle, tremolano l’onde», è così che m’interrogo sull’infinito gettato tra il qui e l’altrove, mentre vedo un «ponte gettato sui laghi sereni» e anch’io mi chiedo «per chi dunque sei fatto e dove meni?» (G. Pascoli, Mare, 1-2 e 7-8). Ecco l’eco, era il senso della vita che mi si riaffacciava prepotentemente dinanzi.

In quella luce chiara è ritornato a splendere l’azzurro. È fuggito, è fuggito il temporale. l’occhio si è aperto e chiuso, «tra il nero un casolare: un’ala di gabbiano» (G. Pascoli, Temporale, 6-7), è tornato a vedere ciò che prima era impossibile anche solo immaginare. È forse questo l’atto creativo in sé, che tante volte ho creduto d’afferrare nell’attimo che scivola lontano, sempre più in là, dove l’artificio si fa arte, «che tutto fa, nulla si scopre» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI 9, 8). In quel guizzo luminoso ho cercato di fermarmi. Era il tempo in cui tutto sembra chiudersi all’orizzonte, in cui il libro si chiude dopo l’estasi della lettura. Un brano, un altro. E la voce continua a sussurrare nell’orecchio parole altrui divenute ormai nostre. Anche questo è creare e ricreare. Ecco, ancora, dove nasce l’atto creativo. È il mio rovello. Non so, non mi guardo indietro: mi fondo in questa tua luce chiara e comincio a volare, in alto, in alto, tra le scaglie rare di un cielo che si è fuso dentro il mare, che si è fatto mare, «lo gran mar de l’essere» (Par. I 115). E così si ritorna a essere io, si ritorna a essere tu in queste mani candide che formano un candido sole di poesia.

 

 

 

© Federico Cinti

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A me stesso – nel giorno del mio compleanno

 

Anch’io, certo. Chi sfugge a questo rito?

Fui già, lo so. Forse sarò. Vedremo.

Era l’esserci sempre, all’infinito,

dopo l’ultimo salto, il volo estremo.

 

Esce la nave mia: all’azzurro il remo

ritrova lo spettacolo del lito

in lontananza. Anch’io mi volgo, temo

cielo e mare: trasecolo stupito.

 

Oggi, il mio giorno. Luccica un gabbiano

candido, lieve. Tutto sa di sale.

Inutile sperare nel ritorno.

 

Nuova la via nell’anima. Dintorno

tace l’ansia dell’ora. A nulla vale

il tempo per procedere lontano.

 

 

oggi capita a me: una volta all’anno succede. Bene, se ne prende atto e si prosegue come nulla fosse. Perché, mi sono accorto, se mi fermo a pensarci troppo, non trovo più il bandolo della questione e la matassa s’ingarbuglia al punto di divenire un glomerulo inestricabile. Gadda, perlomeno, avrebbe usato un’espressione simile. Quando leggevo il Pasticciaccio restavo incantato anche dalle acrobazie verbali. Era un tuffo, un immergersi in un mare ignoto. Del resto, non è così ogni giorno? Non è perché si compiono gli anni che ci si ferma a riflettere. Credo io, intendiamoci. Qualcuno non lo fa mai, figuriamoci in questo benedetto giorno in cui in qualche modo ci si trova a fare i conti con il tempo che passa. E meno male che passa, altrimenti sarebbe pure peggio. Ieri e oggi, due facce di una stessa, inequivocabile medaglia. All’appello manca sempre l’oggi. Eppure, è un giorno speciale, per me, oggi. Fare festa è giusto: il giorno lo esige. Non mi si chieda perché, ma io lo sento così, anche se qualcuno, non molti giorni fa, mi ha detto che non sono nessuno. Già, vero: una goccia nell’abisso. Non che io pretendessi di essere chissà chi, ma un minimo di riconoscimento me lo sarei aspettato. Me lo do da solo e tanto basta.

Uno sproloquio, lo so; ma, quando si inizia, non si sa mai dove si vada a parare. Qualcuno lo chiama pomposamente flusso creativo. Potrebbe essere. Altrimenti, anche andare a ruota libera non mi pare del tutto lontano da quel che si fa di solito. Si segue un pensiero e si va, come spinti da una forza superiore. Alle volte pensiamo allo scrittore come a uno seduto a tavolino, che di tanto in tanto scruta nel vuoto a cercare chissà che parola. Potrebbe pure essere. Io mi vedo così, alle volte, ma poi so che non sono io, perché mi ritrovo a buttare giù qualche cosa alla boia d’un Giuda, seduto chissà dove, col computer sulle gambe oppure sdraiato sul divano. Certo, sempre ammesso si possa dire che io sia scrittore. Diciamo che scrivo, ecco, scrivo e tanto basta. Quando faccio vedere i miei libri, c’è sempre qualcuno che, con un sorrisetto, mi chiede quanti soldi io abbia guadagnato. Soldi? Ma la scrittura è un piacere che supera la viltà di ogni moneta. Ma come si fa a spiegare a chi non lo sa? Non dico di professione, perché ormai non conosco più persone che scrivono di professione. Mi piacerebbe, certo, potermi fregiare del titolo; ma sarebbe, e forse lo è proprio, anacronistico.

 

 

 

Potersi fare da solo gli auguri di compleanno è privilegio di pochi. i grandi sono serviti e riveriti, come si suol dire. Io, che volete mai, dal mio piccolo punto di vista, dalla mia aiuola, che pure non mi fa tanto feroce, mi ritaglio un momento per me. Ecco, questo è il regalo più bello che io possa ricevere. Anzi no, ce ne sarebbe un altro, ma è inconfessabile. O meglio sarebbe, se non mi fossi già incamminato per questo strano sentiero. Già, perché è qualcun altro che scrive per me, come afferma il vate delle donne angelicate: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV 52-54). Ecco, se potessi esprimere un desiderio, mi piacerebbe che una donna angelicata mi facesse i suoi auguri, con la sua voce melodiosa, quasi di nenia al dondolio infinito d’un attimo lontano. Le sarei grato: quella voce mi è entrata nel cuore, chiara, limpida com’è. Il resto è tutto come sempre, nella norma. Gli amici i parenti, la torta. Quest’anno capita pure di domenica. Se sono a scuola, infatti, di solito gli studenti mi portano in trionfo come i generali Romani. Non mancano nemmeno i «lazzi turpi e matti» (G. Carducci, Congedo, 5) di chi non è poeta e li pretende negli altri.

Già, si fa in fretta a dirsi poeta solo perché si scrivono versi. Io diciamo che ci provo. Per gli altri ho una discreta facilità. Per me, francamente, non so che dire. Parlare di me non è il mio forte. Mi vedo piuttosto come l’Ulisse navigatore sul suo piccolo legno alla ventura. È il mare che conduce, non certo il nocchiere. Le onde vanno solcate e abbracciate. Dico Ulisse, ma vorrei dire l’Ulisse vero, quello che Dante mi racconta nella Commedia, se stesso. Quello è il viaggio che vorrei compiere «per lo gran mar de l’essere» (Par. I 113). Ecco, il mio viaggio continua sulla via tracciata da altri. Mi auguro di esserne capace. Io mi ci metto, con umiltà. Il resto sta nel viaggio, nei libri che si leggono, nei porti cui si giunge, nelle persone che s’incontrano, anche in quella donna che vorrei stringere per sempre a me. Ecco, tutto è ignoto, nel senso che è quasi impossibile determinare il successo del viaggio, finché non lo si fa, non lo si porta a termine. Io procedo, e «prego anch’io nel suo porto quiete» (U. Foscolo, In morte del fratello Giovanni, 11). Il resto sono solo chiacchiere, cui piacevolmente so anche abbandonarmi.

 

 

 

© Federico Cinti

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Ridere in pianto

 

Riso o pianto, Democrito o Eraclito?

Illusione dell’essere sul bordo

dell’attimo tra il nulla e l’infinito,

enigmatico filo del ricordo.

 

Rimane un mormorio, nel cuore sordo,

esilio sulla via. Tutto è smarrito.

Impossibile, ormai, qualunque accordo

nell’ora, sogno fragile svanito.

 

Passò quel tempo, Nello specchio solo

il mutevole volto che non dice

altro se non parole senza suono.

 

Nell’anima arrendevole abbandono

tra il desiderio d’essere felice,

oggi e per sempre, tra l’azzurro un volo.

 

 

Tutto a un tratto s’avverte una frattura e il punto di frazione si manifesta in una risata liberatoria. Ma davvero è tutto così folle? La presa di coscienza passa inevitabilmente attraverso il distacco, dalla sublime compunzione di sé alla disincantata Allegria di naufragi. Sfuma così la nebbia e «il velo è ora ben tanto sottile / certo che ’l trapassar dentro è leggero» (Purg. VIII 20-21). Niente di nuovo, è ovvio, se tutto «fa ridere e commuove», come coglie acutamente Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo a proposito di Cervantes. Ecco, allora, «Democrito che ’il mondo a caso pone» (Inf. IV 136) ed Eraclito, incapace d’immergersi due volte nello stesso fiume. Il riso dell’uno si specchia nel pianto dell’altro. Da soli non si danno: l’uno è il complemento dell’altro. O almeno a me così pare.

Sono considerazioni, queste mie, «degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno / teatro» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XII 54, 1-2), se è vero che «è assai meglio, dentro questa tragedia, / ridersi addosso, non piangere e voltarla in commedia» (F. Guccini, Il matto). Vedersi da fuori, tutto qui: questo il segreto, in ogni ambito, in ogni dimensione, in ogni occasione. Chissà, forse è simile a quella «leggerezza» di cui parla Calvino nelle Lezioni americane, forse non è troppo diverso dal non prendersi troppo sul serio. Non so se io stia rispondendo a chi mi chiede perché, di persona, sono così simpatico, quasi dissacrante, e per iscritto tanto (troppo?) malinconico. Oscillo costantemente, diciamo pure così, tra Democrito ed Eraclito.

  

Eppure, ne sono pressoché certo, «verrà un giorno», come proferì il buon padre Cristoforo di manzoniana memoria, in cui tutto sarà scoperto, in cui il velo cadrà inesorabile. In me i due filosofi antichi o, meglio, quel che ci è stato tramandato di essi, un frustulo di nulla nella memoria infinita, si fonderanno in me o si separeranno. Attendo paziente quel giorno, quando potremo leggere veramente la realtà per come è e non per come ce la propongono gli improvvisati pittori del pensiero. Alle volte, il bisturi filologico non fa che scomporre arbitrariamente il mosaico perfetto che il genio degli autori ha saputo costruire. Figuriamoci se il sarto ci fa vedere le cuciture; eppure, qualcuno le va a cercare per dimostrare che l’opera di cucito è confezionata a regola d’arte. E così nei rapporti umani, professionali, d’amicizia. Io parlo di quel che so e conosco, naturalmente; altri, chissà, s’improvvisano esperti di saperi altrui. Ne ho incontrati, sì; ne ho incontrati sin troppi e chissà quanti ancora ne incontrerò.

Oggi vediamo tutto attraverso uno specchio, ammettiamolo una buona volta. Ci approssimiamo asintoticamente al vero, se siamo onesti. Io ci provo. Mando in scena i miei soliloqui, m’accontento di non pesare troppo su chi deve ascoltarmi e tanto basta. Nel mio piccolo regno al quarto piano e mezzo posso riflettere, proprio come allo specchio, sulle finzioni altrui. Anche «io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura» (G. Leopardi, L’infinito, 7-8), e venitemi a dire che non è così. Mi stringo nelle spalle e vi rispondo che va bene: c’è sempre qualcuno che ha letto una pagina più del libro. Io attingo molto agli scaffali della mia pur scarsa memoria, dove «si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Insomma, «miserere del mio non degno affanno» (Rvf LII 12). Non lo faccio apposta, è la mia fragile forza.

 

 

 

© Federico Cinti

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Calipso e Ulisse

 

Cielo e mare, nell’anima l’oblio

antico in cui smarrire ogni contorno

lungo la via, impossibile il ritorno

in patria, chiara l’eco dell’addio.

 

Partire o rimanere, mormorio

sommesso tra le palpebre del giorno,

ombre concave in cuore, tutto intorno

esilio atroce, inerte logorio.

 

Ultima dea, nascosta, la speranza

langue inerme. Non vela, non sussurro

in vista, voce cava di conchiglia.

 

Solo l’amore, antica meraviglia,

stordisce i sensi. Un palpito d’azzurro

e l’occhio annega in quella lontananza.

 

 

Eternità di un tempo senza fine, non altro, mi è sempre parso il soggiorno di Ulisse nell’ombelico del mare, presso «Calipso, inclita ninfa», per usare uno dei tanti epiteti usati da Ippolito Pindemonte, nell’isola di Ogigia. Sette lunghi anni, come canta Omero, oppure uno solo, come sbrigativamente riporta Igino nelle sue Fabulae, o ancora nove, come ricorda Cesare Pavese nei Dialoghi con Leukò? Non importa: l’amore di «Calipso, inclita dea», non poté vincere lo struggimento dell’eroe di tornare in patria, al «debito amore, / lo qual dovea Penelopè far lieta» (Inf. XXVI 95-96). Sul lido algoso l’eroe dal multiforme ingegno piangeva, sospirando l’azzurro oltre cui sarebbe tornato a vivere e a essere mortale.

In quella pausa ai confini del mondo il tempo si era fermato, in un’infinita primavera. nel nascondimento di Ogigia era racchiuso il senso della vita, «come in conchiglia murmure di mare» (G. Pascoli, Alexandros, IV 36). Forse è proprio Ogigia la conchiglia in cui si sente l’eco del mare, l’incessante fluire dell’essere. Nell’antro di Calipso, «illustre dea», si nascondeva il segreto attorno cui tutto ruota. Ulisse intravvede l’immortalità, attinge alla sapienza ignota agli uomini, ma deve andare, non può restare. Ha in sé la propria conchiglia, che pulsa diversamente, eppure all’unisono.

 

 

 

In un sogno ritorna a quelle sponde arse di sale, a quel non luogo e a quel non tempo, per la visione estrema del poeta, l’eroe navigatore: «lo riportava il mare, / alla sua dea: lo riportava morto / alla nasconditrice solitaria, / all’isola deserta che frondeggia / nell’ombelico dell’eterno mare» (G. Pascoli, Calipso, 40-44). Era il ritorno, il senso di quel pianto in cui si erano lasciati sulla sponda dell’«ultimo fiume Oceano senz’onda» (G. Pascoli, Alexandros, I 7). Partire o rimanere? Era la domanda, il «murmure di mare» della conchiglia che pulsava all’unisono, ma diversamente. In quel ponto, divenuto ponte, tutto è divenuto possibile. era l’amore e la morte, che «fratelli, a un tempo stesso», come cantava il Recanatese, «ingenerò la sorte» (G. Leopardi, Amore e Morte, 1-2).

Chissà, Calipso e Ulisse, la ciclicità che ruota attorno all’isola, spersa tra «l’ultimo fiume Oceano senz’onda», nell’eterno fluire del cuore, sistole e diastole che s’inseguono e s’allontanano. Ulisse «baciò la sua petrosa Itaca» (U. Foscolo, A Zacinto, 11), per poi tornare forse nel nascondimento solitario di Calipso, presso cui ogni essere creato ritorna e si rigenera. Anche Ulisse si vede da fuori, antico e nuovo Narciso che rifiorisce dalle acque. Nulla si è perso, nulla si è distrutto: la poesia è una mutevole palingenesi di senso, uno specchio oltre la cui soglia tutto si ritrova, come nell’antro di Calipso, come nella conchiglia che ha in sé sempre il «murmure di mare». Così, partire è come ritornare.

 

 

© Federico Cinti

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Variazioni sul tema

 

Variazione sul tema, questo vano

antico, ineluttabile tornare:

languido il tempo scivola, lontano,

eterno andare.

 

Nulla si perde, nulla si ritrova

tra i frammenti del giorno. Ora l’oblio

inerte, linea d’ombra, luce nuova,

non altro. Addio.

 

Addio a ciò che non si è: la meraviglia

grida l’ansia dell’attimo, catene

al di là di quei cocci di bottiglia

rotti, altro bene,

 

unica via d’uscita. L’infinito

là, dove l’occhio attinge l’orizzonte,

limite invalicabile, smarrito,

inique impronte.

 

 

A saperlo, poi, che cosa sia questo benedetto tempo, potrei anche azzardare una risposta. Potrei, intendo, al di là di tutte le infinite elucubrazioni provate sul tema, da che mondo è mondo, arrischiarmi a formulare una mia piccola ipotesi, quasi fossi quel «passero solitario» che «tenta la sua tastiera, / come nel santuario / monaca prigioniera» (G. Pascoli, Il passero solitario, 2-4), se l’avessi. Eppure, continuo a ragionarci su, «come l’uomo che, segnato un gran cerchio per terra, comincia a camminare attorno ad esso dicendo: “Voglio vedere quando arrivo alla fine”» (G. Guareschi, Le lampade e la luce).

Variazioni sul tema, corsi e ricorsi, come nell’intuizione geniale di Vico di coniugare linearità e circolarità, insite in noi e nelle coordinate spazio-temporali in cui ci troviamo immersi, come in quel mare infinito che qualcuno ha scorto al di là della siepe e qualcun altro oltre «un rovente muro d’orto» nel suo «palpitare / lontano di scaglie» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2 e 9-10). La compagnia mi pare anche buona, ma non mi so risolvere a comprendere questa «infinita vanità del tutto» (G. Leopardi, A se stesso, 16). Perché di questo, in fondo, si tratta: tendersi oltre le nostre umane possibilità, «qual è ’l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige» (Par. XXXIII 133-135). Ma va bene, va bene così: viviamo pur sempre sulla soglia.

 

 

In questa liminalità sospesa occorre decidere da che parte stare. Al di qua dei «cocci innumeri di vetro / sulla cinta vetusta, alla difesa» (G. Gozzano, La signorina Felicita, I 17-18), in fondo, non mi pare si stia nemmeno troppo male. Ogni tanto si guarda oltre, per cogliere qualche sprazzo di luce, alla ricerca di frammenti perduti da ricomporre nel mosaico di cui ci sfugge, purtroppo, la figura intera. Ma è la sfida, questa, nient’altro. Mi lancerei anche io, nel caso, a gridare: «Miserere del mio non degno affanno» (Rvf LII 12), se il tempo me lo concedesse. Il tempo, certo, quello che non so definire in alcun modo e che pure va e ritorna, come in questo giorno, preludio alla fine e al principio. Anche l’anno ha i suoi riti, le sue pause e le sue accelerazioni, rotazione e rivoluzione di un vortice immoto. Ci si ritrova qui, anche ora, a scandagliare il prima e il poi, dimenticandoci dell’hic et nunc.

 

 

 

© Federico Cinti

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