Il mio «X agosto» a San Lorenzo

 

San Lorenzo, brillasti nel mondo

di luce, la luce che adesso

arde e cade dal cielo profondo,

lassù, in un tuo tenue riflesso.

 

Eri diacono a Roma: il Signore

ti scelse come umile servo

a donare con gioia il tuo cuore

al mondo insensato, protervo.

 

Ai tuoi poveri desti ogni cosa

con anima lieta, arricchita;

alla Chiesa, l’autentica sposa

del Figlio, donasti la vita.

 

Tu vivesti nel nome di Cristo

spargendo il tuo sangue prezioso,

e seguisti la sorte di Sisto

nel santo martirio glorioso.

 

Tu sapevi che questo tragitto

mortale è la via del Vangelo:

il tuo nome in tal modo fu scritto

con quello di Cristo nel cielo.

 

San Lorenzo, ogni stella è un tuo dono

di pace, un tuo dono speciale

a chi spera, a chi chiede perdono

nel mondo mai vinto dal male.

 

 

Non passa anno in cui il 10 agosto, immancabilmente, non si ricordi il fenomeno astrale delle stelle cadenti e in cui non ritornino alla memoria, come un antico ritornello, gli struggenti versi di Giovanni Pascoli: il poeta di San Mauro dedica, infatti, a tale ricorrenza una delle sue più famose Elegie, intitolata appunto X agosto. Sulla valenza simbolica del numero romano del titolo mi sono già lungamente profuso nel mio commento a Myricae (Rusconi, Rimini 2018), cui rimando e su cui non mi profonderò qui, anche perché non vorrei annoiare troppo.

Quest’oggi, nel celebrare una ricorrenza così particolare, ho dedicato qualche verso proprio a San Lorenzo martire, riprendendo il metro pascoliano, una sorta di distico elegiaco – diciamo così – formato da un decasillabo e da un novenario. In particolare, ho cercato di eliminare la barriera consonantica del terzo verso di ogni strofa, come nell’originale, onde creare una sorta di episinalefe. Dettagli tecnici poco importanti, ovviamente, ma che servono a dare l’idea della cura con cui questo mio piccolo omaggio è stato condotto. Ho ripreso anche la dittologia «arde e cade» (v. 3), tra l’altro nella stessa posizione di X agosto, anche se devo ammettere che essa era una tessera tolta da una canzone di Giovanni della Casa, Rime, XXXI, 11: «per lo sereno ciel arde e sfavilla». La poesia è comunque sempre un gioco di specchi, di continue allusioni e citazioni.

Nulla di nuovo sotto il sole, ovviamente, solo un senso di lontana, pacata nostalgia a considerare il nostro piccolo «atomo opaco del male» (G. Pascoli, X agosto, 24). Eppure, proprio san Lorenzo, in questo giorno, testimoniò con la vita la propria fede contro la malvagità degli uomini, proprio come la «rondine» e l’«uomo» di cui ci parla Pascoli. Tutto si tiene in quella struttura chiastica che si trasforma in croce celeste di condanna e redenzione. Anche la poesia ci spinge a guardare in alto, in un moto verticale, a «quel cielo lontano» (G. Pascoli, X agosto, 10). Ecco, allora, veramente si sapeva che cosa fosse quel pianto in figura «di stelle per l’aria tranquilla» (G. Pascoli, X agosto, 2).

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Guido, io ti persi

 

Guido, nemmeno un ultimo saluto,

uno sguardo silente come dono;

io mi smarrivo, tu eri già perduto

dove non c’è ritorno né perdono.

 

Ora comprendo il senso d’abbandono

in cui rischiavo d’essere caduto,

oggi che so chi sei, che so chi sono,

tornando per la via dell’assoluto.

 

In quel pianto terribile mi disse

più d’un semplice strazio Cavalcante

e compresi il peccato alla radice.

 

Rividi allora il volto di Beatrice

sorridere, il pericolo incessante

in cui era incorso già l’antico Ulisse.

 

 

Non era più il tempo di fuggire né di volgersi indietro a nostalgiche considerazioni: «nel mezzo del cammin de la sua vita» (Inf. I 1) Dante si ritrova «per una selva oscura» (Inf. I 2) da solo, senza più gli amici della Vita nuova. Proprio in quella solitudine ritrova se stesso, dimentica i desideri e gli incantamenti giovanili per cui sperava che Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e le loro donne («monna Vanna, monna Lagia e poi / con quella che è sul numer de le trenta», Rime, LII, 9-10) fossero «messi in un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio» (Rime, LII, 3-4). Quel «mare» si fa «pelago» da cui fuggire nella prima similitudine del poema, perché sono le vischiose acque del peccato, diviene insomma consapevolezza di ciò che si era e non si doveva essere. Dante ne è fuori, faticosamente, ne è salvo: «E come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata, // così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, / si volse a retro a rimirar lo passo / che non lasciò già mai persona viva» (Inf. I 22-27).

Dante ha ripreso la sua «diritta via» prima «smarrita» (Inf. I 3), risvegliatosi dal sonno della ragione, «tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonò» (Inf. I 11-12). Ecco ciò che il primo dei suoi amici, come afferma appassionatamente nella Vita nuova (III 14-15), Guido Cavalcanti, non ha compreso e che lo ha mandato in perdizione. Non si vedranno mai più né si incontreranno, perché le loro strade erano state radicalmente opposte. Eppure, Dante lo ricorda due volte nella Commedia, nel disperato dialogo con Cavalcante de’ Cavalcanti (in particolare Inf. X 61-63), e nel colloquio con Oderisi d’Agobbio (Purg. XI 97-99), non certo per la loro antica amicizia, bensì in un maturo ricordo al padre, che più nulla sa del «suo nato» (Inf. X 111) e in una riflessione sulla caducità del «mondan romore» (Purg. XI 100).

 

 

 

Guido non aveva accolto il raggio illuminante di Beatrice, molto di più che una delle tante donne angelicate amate dai fedeli d’Amore, come Dante aveva compreso fin dal primo incontro con lei a nove anni. Del resto, ella è «la gloriosa donna de la sua mente» (Vita nuova II), è «la donna de la salute» (Vita nuova III), il tramite tra questo mondo terreno e il mondo celeste. La «mente», che pure tanto era stata elogiata nel Convivio, nulla può senza la luce salvifica della «mente» divina. Nelle parole di Virgilio ella diviene la «donna di virtù sola per cui / l’umana spezie eccede ogne contento / di quel ciel c’ha minor li cerchi sui» (Inf. II 76-78).

Il viaggio di Dante continua non più sul «vasel» (Rime, LII 3) assieme a Guido, bensì sulla «navicella del suo ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele» (Purg. I 2-3), sulla «piccioletta barca» (Par. II 1)e si rimette proprio in quel «pelago» (Par. II 5), in quell’«alto sale» (Par. II 13) mai tentato prima da uomo, nemmeno da Ulisse che, come Guido, aveva rifiutato la grazia nel suo ultimo viaggio oltre i «riguardi / acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inf. XXVI109). Dante esplora finalmente con le sue piccole forze, non certo da solo, bensì con l’aiuto di Beatrice prima e di Bernardo di Chiaravalle, il «sene / vestito con le genti glorïose» ()Par. XXXI 59-60) quello che egli stesso aveva definito «lo gran mar de l’essere» (Par. I 113), quel che può dell’infinito mistero di Dio, in cui «si profonda» (Par. I 8), anche se «dietro la memoria non può ire» (Par. I 9).

Ecco allora che dante segue «la correzione dell’Onnipotente, perché egli ferisce e fascia la piaga, colpisce e la sua mano risana» (Gb 5,17b-18), segue la luce che squarcia il delirio della ragione in cui Guido, come tanti magnanimi, è in corso e si è perduto. A buon diritto Giovanni del Virgilio comincia il suo Epitaffio con questa definizione: «Theologus Dantes». Non solo poeta, quindi, non solo filosofo, ma soprattutto teologo innamorato di Dio.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Pia de’ Tolomei

 

E tutto a un tratto il flebile sorriso

lontanò nel silenzio della via.

In quell’evanescente fantasia

s’eclissò impallidendo all’improvviso.

 

Avesti un nome, eco di un’eco, intriso

velo d’eternità, lieve elegia.

Avesti un volto, angelica armonia

nel cuore già rivolto al Paradiso.

 

Orma nell’aria, inutile dilemma,

sapesti che cos’è la vita vera

oscillante sulle ali dell’azzurro.

 

Gioia non fu, fu sibilo, sussurro,

non altro, fu perdono, fu preghiera

offerta, dolce dono, alla tua gemma.

 

 

Stamane parlavo con i miei studenti di Pia, chissà poi se veramente de’ Tolomei, e non ho resistito. Ho sentito in me il bisogno di scrivere qualche cosa, di ricordarla, come già aveva fatto il buon Dante, senza certamente aspirare di raggiungere, semmai solo emulare, il grande vate fiorentino. In quel «ricorditi di me che son la Pia» c’è un mondo, una sensibilità, un tratto distintivo difficilmente afferrabile se non con il cuore. Avrò letto mille volte questo scorcio del quinto canto del Purgatorio, eppure ogni volta scopro qualche cosa. È proprio vero che non ci si immerge due volte nello stesso fiume. Questa è l’arte, la vera arte: cambia il modo di vedere le cose e di vivere la vita. il resto sono solo chiacchiere o trito esercizio, nemmeno troppo di stile. Ma così ho l’impressione d’avere detto fin troppo…

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

I baci d’amore

 

Uno dei mirabili Basia di Janus Secundus (1511-1536), notevolissimo poeta olandese del Cinquecento, perlopiù dimenticato o semplicemente ignorato, il quarto Basium per l’esattezza, nella mia traduzione, per altro nemmeno l’unica. Già, perché è parecchio tempo che mi sforzo di darne una resa che possa avvicinarsi in qualche modo alla bellezza dell’originale. Mi sforzo, certo; eppure, ogni volta noto dettagli che nelle precedenti mi erano sfuggiti o non avevo notato. La traduzione è così: il testo non muta, mutiamo noi che lo leggiamo e lo ritraduciamo, riflettendoci ogni volta nello specchio del nostro cuore.

 

 

Non dà baci, dà nettare Neera,

dà all’anima fragranze rugiadose,

nardo, timo, cannella e miele quale

colgono tra i rosai del monte Imetto

o tra quelli dell’Attica le api

e, circondato da virginee cere,

ripongono in cestini dentro il favo.

Se molti me ne dà da consumare,

in essi sarò subito immortale

e al banchetto starò degli dei grandi.

Ma risparmia, risparmia un tale dono,

o con me, Neera, Fa’ che tu sia dea:

non voglio mensa senza te di dei,

nemmeno se dee e dei, cacciato Giove,

mi fanno re dei rutilanti regni.

 

 

 

Penso sia utile riportare pure il testo originale, in faleci, come il modello, Catullo, cui ovviamente Secundus si ispira.

 

 

Non dat basia, dat Neaera nectar,

dat rores animae suaveolentes,

dat nardumque, thymumque, cinnamumque,

et mel, quale iugis legunt Hymetti,

aut in Cecropiis apes rosetis,

atque hinc virgineis et inde ceris

saeptum vimineo tegunt quasillo.

Quae si multa mihi voranda dentur,

immortalis in iis repente fiam,

magnorumque epulis fruar deorum.

Sed tu munere parce, parce tali,

aut mecum dea fac, Neaera, fias:

non mensas sine te volo deorum:

non si me rutilis praeesse regnis,

excluso Iove, di deaequecogant.

 

 

 

Conosco Janus Secundus ormai da anni, da quando cominciai a interessarmi alla letteratura neolatina europea oltre che italiana. Fui cooptato pure per un’antologia sul petrarchismo europeo del XVI secolo, i Lirici europei del Cinquecento (Milano 2004), e inserii anche alcune sue poesie da me tradotte. Non le rileggo più: non mi ci riconosco per nulla. E dire che, all’epoca, ne ero così soddisfatto. Eppure nel tempo siamo arrivati quasi a darci del tu, a chiamarci per nome: tra poeti e traduttori, come tra autori e lettori, spesso finisce così. Non è semplice studio: è ragione di vita. In tal senso ha ragione Orazio a cantare: non omnis moriar (Odi III 6). La poesia, ossia la letteratura, rende eterni.

Il senso del tutto l’ho capito tardi, l’ho capito da solo, non certo al liceo o all’università, quando non si studia per noi, come sostiene giustamente Seneca per cui non vitae, sed scholae discimus (Lettere morali a Lucilio CVI)12. E non è la solita excusatio non petita, no: è ragione di vita la poesia. Per questo carmina non dant panem, eppure la poesia è più essenziale dell’aria che respiriamo, di quel che mangiamo. Anche la traduzione ha la sua autonomia e non solo di significante, ma soprattutto di significato. Intendo dire che questi versi sono miei nella stessa misura degli altri. Altro che la versione esatta che si ricercava al ginnasio, che pure ricordo con disincantata nostalgia.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Auguri a Novello

 

Nel cielo aria di festa, ali sospese,

Ombre di sogno labili in cui il cuore

Veglia tra mille, indefinite attese,

E riscopre la vita, antico fiore

 

Lasciato lungo il ciglio, a metà mese,

La metà esatta, a luglio, in un chiarore

Opalescente, lievi voci arrese,

Buoni dolci propositi, sapore

 

Amico, tempo che oggi fa ritorno.

Lo sai, lo so, Novello, due parole,

Due o poco più, per fare da contorno,

 

Oggi che brilla limpido il tuo sole,

Novello, oggi ti faccio, nel tuo giorno,

I miei auguri, un po’ come Dio vuole.

 

 

Non ama Novello che io aggiunga la prosa a corredo della poesia, come già fece il buon Dante nella Vita Nuova: sostiene che è un di più, che guasta in qualche modo la limpida purezza della poesia. D’accordo con lui, come sempre; peccato, però, che i miei restanti ventiquattro lettori siano d’opinione totalmente opposta, se è vero che la trovano un degno complemento al ritmo dei versi e «alla mesta armonia che li governa», per citare uno dei suoi autori. Suoi di Novello, ovviamente, anche se il suo preferito resta sempre e solo il conte Leopardi. Anche a me stanno molto a cuore Foscolo e Leopardi, intendiamoci; ma Pascoli alle volte mi comunica di più.

Queste sue preferenze le ha sempre propalate coram populo , ex cathedra, già al liceo, al magnifico Minghetti di Bologna. Lo conobbi lì: era mio esimio professore di lettere. Forse esimio non gli piacerà molto, ma tanto so che non leggerà queste mie poche righe e godo quindi della più ampia parresia. E poi, come sempre ripeto, bisogna temere non quel che dico, bensì quel che non dico. Il resto sono chiacchiere da bar, così soavi e rilassanti. Si impara molto dal nulla altrui, come gli altri imparano dal nulla nostro. Reciprocità, forse, o semplice eterogenesi dei fini. Di solito, chi la spara più grossa ha il maggior credito: è una legge di natura.

In tal modo il rito degli auguri è stato espletato. A metà luglio non riesco a fare di meglio. E si badi che è proprio la metà esatta, perché il mese è di trentun giorni. Probabilmente Novello non ci ha mai fatto caso. Io sì, perché anche gennaio è messo allo stesso modo, con me  che compio gli anni il 16. Coincidenze, se esistono, trappole montaliane per i meno attenti in fondo all’aula. Succede, per l’amor di Dio: cadere nel punto morto dell’universo non fa piacere a nessuno. Domani ci si attrezzerà. Intanto, faccio ancora i miei migliori auguri a Novello.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Omaggio a Martin Mesnart

 

Lo ammetto: per me ha un fascino tutto particolare l’acrostico, quel nascondimento misterioso che impreziosisce taluni componimenti poetici. Per qualcuno altro non sono che esercizi di stile; io, per me, credo sia l’espressione di una complessità che si svela solo ai lettori più acuti, una sorta di dialogo segreto tra poeta ed esegeta. È un tocco di raffinatezza artistica o parte della personalità.

Conoscendo questa mia passione, un amico, Francesco Pieri, mi ha segnalato il prologo – vogliamo chiamarlo così? – dell’edizione parigina, risalente al 1545, di Tertulliano a cura di Martin Mesnart. Un nome noto, questo, non c’è che dire. campeggiava latinizzato, mi suggeriva l’amico, sul frontespizio, come se io non fossi in grado di accorgermene da solo.

Mesnart lo avevo incontrato parecchie volte durante gli anni di dottorato, quando mi occupavo dell’Adversus Marcionem di Tertulliano. Ed ecco che un giorno proprio Mesnart mi è venuto a cercare, mi ha tirato per il braccio e mi ha detto: «E adesso che facciamo?».

Chissà, voleva che io lo traducessi, quasi io dovessi riportarlo in vita. Il testo è in trimetri giambici puri: lo dico per i puntigliosi, ma significa poco o nulla per i più. Mi sono sentito in obbligo di abbozzarne una versione, un po’ come riuscivo. In qualche modo, pensavo, glielo dovevo.

 

 

Molto oggi ti è di pro, lettore candido,

Ardente mio lettore, e mi pare utile

Ridirtelo: è di pro senza alcun dubbio.

Tertulliano ti ho offerto in un libro unico,

Io, senza errori, senza alcuna macchia:

Non dico, sai, l’autore, ma la sua opera,

Voluta e avuta dai più dotti in pregio,

Sempre in mano a Cipriano per lo studio,

Misconosciuta e in grande parte persasi

E per te viva adesso oltre ogni lapide.

Se leggi, ti stupisci. Tra le pagine

Notare puoi quanto gli altri teologi

Anteceda in sentenze e in fiori e in varia

Raffinatezza nello stile nobile.

Tu godine: è il mio dono. Stammi al meglio.

 

 

A proposito, sarà meglio che io riporti pure l’originale: questi studiosi sanno essere alle volte alquanto permalosi. Io almeno lo sarei parecchio se qualcuno citasse un mio testo senza poi riportarlo.

 

 

Multum dies haec ipsa (lector candide

Ardensque lector) commodi tibi attulit

Rursusque dico commodi multum attulit.

Tertullianum tandem tibi habes integrum

Ipsumque cunctis expiatum sordibus:

Non dico ego authorem sed authoris opera

Viris disertis habita summo in pondere

Subtili ad unguem Cypriano cognita,

Magnoque magna ex parte lapsa tempore

Et consepulta nunc reviviscunt tibi.

Si legeris, mirabere. poteris interim

Notasse quantum caeteris theographis

Antestet et sententiis et floribus

Rerumque varietate quam gratissima:

Tu fruere lector munere, et faustus vale

 

 

Qualcuno, ovviamente lo stesso amico che mi ha segnalato l’acrostico, ha detto che la mia resa ha superato l’originale. Può darsi, ma non oso nemmeno ripeterlo. Ne prendo atto con un certo compiacimento. Mesnart si è dileguato, come i sogni della mattina, vividi eppure evanescenti. Il lettore, ogni lettore, ha spesso più responsabilità dell’autore. Io mi limito a fare il mio lavoro. Sono in fondo un mero esecutore.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

L’estate e il suo solstizio

 

Fermo il sole nel cielo inerte indugia

fuori del tempo. Tiepido l’abbraccio

dell’azzurro, sospiro

via via sempre più languido.

 

Lontana una cicala, eco al prodigio,

oltre la fantasia: si fa perpetuo

un guizzo d’infinito.

Il mondo attende immobile.

 

In quest’attesa vibrano all’unisono

mille corde. Nell’anima una musica

risuona, eterno soffio

di vita impercettibile.

 

Termina il viaggio, qui? Sul monte gli alberi

sussurrano nel vento antiche nenie

dimenticate. È l’ora

che ci ridona al vivere.

 

Vanisce il sogno. S’aprono le palpebre

alla nuova realtà. Così si supera

l’oscura linea d’ombra,

l’estate e il suo solstizio.

 

 

Insolito il tepore che si respira nel giorno del solstizio d’estate, quando il tempo sembra fermarsi smarrito e la luce si riversa a liquide cascate. È il tempo delle vacanze, delle lunghe giornate che paiono non finire mai e tutto sembra possibile. La leggerezza è palpabile, liberi da ogni costrizione: i «nostri vestimenti / leggeri» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 24-25) non opprimono più l’anima. È un abbraccio senza fine, questo, un calore primigenio. Il cuore vaga lontano in un sogno di languida dolcezza fino quasi a smarrirsi dopo l’orizzonte in fuga.

Non vi è altro momento nell’anno in cui si percepisca ugualmente il fluire della vita. Ogni cosa trova la sua pienezza, mostra il suo senso vero nella diafana luce trasfigurata del giorno. Suoni e colori s’inseguono, come in un incanto. Così nascono le leggende che si ripetono, durante il tempo che rallenta attimo per attimo. Antichi poeti cantano, come narra uno stupito Platone, senza stancarsi mai il ciclo dell’essere: le cicale inondano l’aria di squillanti carezze soavi. È il loro tempo, è il tempo della felicità, di un presente che non sa dello sfiorire fragile dei fiori, degli alberi che bisbigliano sommesse cantilene, del «perir della terra» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 67).

Al solstizio comincia l’estate, nel miracolo della sua bellezza. Il silenzio attinge a vertigini dimenticate. Si ritorna bambini, con la gioia nel cuore e il sorriso negli occhi. Nulla si deve più, tutto è donato in questo tempo di grazia. L’ansia si scioglie nell’ora che si ferma a contemplare ogni singola cosa che si desta di nuovo. Palingenesi di vita e di senso lanciata oltre l’ostacolo, oltre il «rovente muro d’orto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2), alla ricerca dell’infinito in cui è «dolce naufragare» (G. Leopardi, L’infinito, 15).

Ecco dunque che, nel mondo delle fate, la realtà diviene il trastullo dei sogni e Titania continua a giocare con Oberon nel bosco incantato. Tutto vince l’amore, quella favola bella che si perpetua, come in conchiglia il mormorio del mare. Nulla d’ignoto, nulla di conosciuto ancora: si fonde la memoria nel futuro a generare un presente che tuttavia è già ricordo. S’oscilla sull’orlo della voragine nella traslucida armonia della natura tornata al suo volto originale. Solo così l’azzurro non è illusione, ma fervida realtà onirica.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservatii

Saluto finale

 

L’ultima campanella, suono vano

smarritosi nel cuore. Corre l’ora

con noi. Passa ogni istante. Piano piano

il volto dei ricordi trascolora

 

più d’una vecchia foto. È ormai lontano

il liceo, ansia del giorno che divora

inesorabilmente. Eppure, è strano

volgersi indietro adesso, in quest’aurora

 

di luce nuova. Il dado è stato tratto:

ogni evento procede con o senza

rimorsi. Tutto quanto è stato fatto

 

nel migliore dei modi. Altra partenza,

altro arrivo, chissà, sogno distratto

di questa troppo breve adolescenza.

 

 

Un saluto, l’ultimo forse, simile alla lunga, infinita ombra nera della sera, un ricordo che si fa malinconia del tempo che trascorre. Ecco, un tempo non che è trascorso, ma che continua a trascorrere, quasi indifferente, come se ogni istante fosse simile al precedente. Una linea separa i giorni, distingue i momenti. Un passo ancora e tutto trasfigura, eterna metamorfosi del presente. Tutto si fa memoria, ricordo impercettibile: le voci, i volti, i riti di un’età che non tornerà mai più. Non mi è mai parso così vero ciò che canta il buon Orazio: «dum loquimur, fugerit invida / aetas» (carm. I 11, 7-8).

Il tempo si sconta istante per istante: «la morte / si sconta / vivendo» (G. Ungaretti, Sono una creatura, 11-13). Ogni giorno muore, ogni istante: il viaggio comincia col suo carico d’attese. Poi, impercettibilmente, si giunge a destinazione e tutto s’annulla in un «punto acerbo / che di vita ebbe nome» (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Volgersi indietro non è possibile: Orfeo perderebbe di nuovo Euridice, Narciso rifletterebbe per sempre se stesso sulle acque della vanità. Meglio allora è continuare, dimentichi di sé. «Le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni» (E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, 5-6) servono a ingannare l’ineluttabilità dell’essere.

Quell’ultimo saluto che non è più rito, se mai lo è stato, sul confine dei mondi, interrompe la catena, spezza il quotidiano e diviene nostalgia, dolore di un ritorno impossibile. Va voltata la pagina: non si può trattenere. Altri mondi, altre realtà attendono l’ansia di conoscenza, l’antica nostra curiositas. Tutto ci parla di questo viaggio interminabile, chissà dove, chissà come. Solo noi ne siamo i protagonisti, a «scendere e […] salir per l’altrui scale» (Par. XVII 60). eppure, lo sappiamo, nulla è invano. Qualche cosa avrò rappresentato anch’io nel mio piccolo.

Con questo animo penso ai miei studenti, inconsapevoli compagni di un viaggio giunto a destinazione. Li vedo uscire, di spalle, a uno a uno. So che non torneranno, che il loro tempo al liceo è concluso, come l’ultima ora del sabato, quando ogni aula si svuota e a un tratto piomba un silenzio d’inquietudine. Il cuore si fa piccolo piccolo. Nello sforzo di renderli uomini e donne, li ho tramutati soltanto in ricordo. E io pure per loro, adesso, sono solo e per sempre ricordo.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Tanti auguri, Lorenzo!

 

Lieve l’azzurro tiepido: l’estate

bussa alle porte. Il tempo della scuola,

un ricordo tra cose ormai passate

senza volgersi indietro. L’ora vola

 

impalpabile. A liquide cascate

il sole si riversa. Una parola

risuona tra altre mille inascoltate,

eco sul punto di morire sola.

 

Incantesimo assorto: la distanza

cade tra la realtà e la fantasia

in questo giorno pieno d’esultanza.

 

Lorenzo s’abbandona all’armonia,

prima di cominciare la vacanza

già velata d’un po’ di nostalgia.

 

 

Un’altra ricorrenza, gioiosa questa volta: un compleanno, quello d’un mio studente, Lorenzo, cui non sottraggo la soddisfazione di scrivere qualche cosa. Intendiamoci, la soddisfazione è pure mia: non voglio negarlo. Anche a me piacerebbe se qualcuno mi dedicasse qualche verso, un paio di righe, un pensiero estemporaneo. Alle volte, difatti, ci penso io, faccio tutto da me e lascio correre le malinconie, soprattutto ora che è finita la scuola. Si aspetta tutto l’anno questo momento e poi, sulla soglia, si avverte un velo di tristezza. Per lo stesso motivo non mi piace uscire all’ultima ora il sabato: sentire che tutto si svuota intorno a me è una sensazione che mi fa un certo effetto.

Eppure, adesso siamo sulla soglia dell’estate: ci prepariamo ad altro, alla vacanza, al tempo libero, alle nostre più recondite passioni. Nulla ci è dato a caso, ma tutto va vissuto per quello che è, senza ossessioni per il passato o per il futuro. Tempo propizio, tempo opportuno, l’antico kairos, questo, in cui tutto si rende possibile, anche l’epifania di «qualche disturbata divinità» (E. Montale, I limoni, 36). Occorre solo essere pronti al «prodigio / che schiude alla divina indifferenza» (E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 5-6).

In questa infinita azzurrità m’adagio a galleggiare, come a morto, sul fluire dei miei «pensieri / che l’anima schiude / novella» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 26-28), in un’altra fusione panica tra il tutto e il nulla, io «una docile fibra / dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31). È questo il tempo delle fate, del ritorno di Titania e di Oberon, del mondo che si specchia nel suo specchio e si ritrova nella sua eterna volontà di non fermarsi al limite, sulla linea di confine che si sfrangia.

Siamo immersi nel tempo, flusso infinito della vita in cui galleggia ciò che non siamo più o che non siamo mai stati. È «la morta gora» (Inf. VIII 31) in cui riemerge ogni nostra ossessione, come sulla barca di flegiàs che non comprende e svolge, nonostante tutto, il suo compito eternamente, se non sappiamo uscire «del pelago» (Inf. I 23) di Ulisse e riappropriarci del bene più prezioso che ci è stato donato. Il tempo, certo, null’altro, noi piccoli segmenti sulla retta infinita dell’eternità, cui siamo vocati.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati