Inno «Gesù che doni agli uomini» – «Salutis aeternae dator»

 

Gesù, che doni agli uomini

salvezza eterna, aiutaci!

Clemente Madre Vergine,

per noi chiedi ogni grazïa!

 

Beate schiere angeliche,

antichi Padri biblici,

Profeti dell’Altissimo,

pregate per noi miseri.

 

Battista, che a precedere

Gesù ne desti annuncïo,

san Pietro e santi apostoli,

per noi inalzate suppliche!

 

L’esercito dei martiri,

la schiera dei presbiteri,

il coro delle Vergini

da Dio pietà ci ottengano.

 

Chiunque di voi abita

nel regno dell’Altissimo

sostenga favorevole

le nostre ardenti suppliche.

 

Onore, lode e glorïa

al sommo Padre e al Figlïo

assieme al Santo Spirito

nei secoli dei secoli.

Amen.

 

 

Nella solennità di tutti i santi ho tradotto e adattato per il canto un inno del Breviarium Romanum, quello ad laudes, intitolato Salutis aeternae dator. Mi pare sia riuscito bene, anche perché lo abbiamo eseguito secondo un’armonizzazione polifonica molto efficace. Del resto, i tesori che restano celati ai più andrebbero riscoperti e riproposti. È una questione ancora perta quella della traduzione degli inni. C’è spazio, quindi, di manovra. In latino sono perlopiù in dimetri giambici e possono quindi essere resi agevolmente in settenari sdruccioli con accenti di II, IV e VI sillaba, come ho fatto io. I moduli esistono già, sono quelli che nella più che millenaria tradizione hanno esaltato la bellezza del testo latino, lingua non morta, come vuole qualcuno, bensì immortale. 

Riporto pure il testo dell’originale, gioiello dell’innodia.

 

 

Salutis æternæ dator,

Iésu, redemptis sùbveni:

Virgo parens clemèntiæ

Dona salutem servulis.

 

Vos Angelorum millia,

Patrumque cœtus, agmina

Canora Vatum: vos reis

Precamini indulgentiam.

 

Baptista Christi prævius,

Summique cœli Clàviger,

Cum cèteris Apostolis

Nexus resolvant crìminum.

 

Cohors triumphans Màrtyrum,

Almus Sacerdotum chòrus,

Et virginalis càstitas

Nostros reatus àbluant.

 

Quicumque in alta sìderum

Regnatis aula principes,

Favete votis supplicum,

Qui dona cœli flagitant.

 

Virtus, honor, laus, gloria

Deo Patri cum Filio,

Sancto simul Paràclito,

In sæculorum sæcula.

Amen.

 

 

Ho tradotto, come accennavo più sopra, ma ho anche riadattato, come ho detto, perché il canto ha bisogno di un testo rispettoso degli accenti grammaticali, in italiano, laddove in latino la prosodia si basa sull’alternanza di sillabe lunghe e brevi. Non m’interessano, in questa sede, discorsi troppo tecnici. Insomma, un discorso che andrebbe ripreso e affrontato senza vincoli ideologici. Il canto è canto e la preghiera cantata ne è una sublimazione. A ogni modo, propongo dell’inno pure una traduzione sempre ritmica, ma più fedele alla lettera dell’originale.

 

 

Gesù, che dai agli uomini

salvezza eterna, aiutali;

clemente Madre Vergine,

dona ai fedeli grazïa.

 

Beate schiere d’Angeli,

antichi Padri biblici,

Profeti dell’Altissimo,

pregate per i miseri.

 

Giovanni, il cui battesimo

di cristo fu preannuncïo,

Pietro e tutti gli Apostoli

le nostre colpe sciolgano.

 

L’esercito dei martiri,

la schiera dei presbiteri,

il coro delle Vergini

le nostre macchie lavino.

 

Chiunque di voi abita

nel regno dell’altissimo

sostenga favorevole

le suppliche degli uomini.

 

Onore, lode e glorïa

al sommo Padre e al Figlïo

assieme al santo Spirito

nei secoli dei secoli.

Amen.

 

 

Non dico che sarebbe da riprendere l’inno sacro di Manzoni dedicato a Ognissanti; però, un pensiero ce lo si dovrebbe fare seriamente, un pensiero alla traduzione degli inni intendo. Se ne è discusso tanto, a volte anche inutilmente. Chissà. Se mai avrò tempo, potrei provare anche a dedicarmici. Per il momento, mi metto in cammino con questo piccolo saggio.

 

 

 

© Federico Cinti

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Inno al beato Giovanni Fornasini

 

Al beato Giovanni eleviamo

con fiducia le nostre preghiere:

nel martirio egli effuse il suo sangue

per amore di Cristo Signore.

 

Fu ordinato ministro di Cristo

per servire in Gesù ogni fratello,

combattendo la buona battaglia

instancabile uomo di pace.

 

Curò il gregge affidato al suo zelo

come un padre ama e cura i suoi figli,

insegnando la via della vita,

la speranza, la fede, l’amore.

 

A chiunque donò il proprio aiuto,

perché vide in ognuno il Signore:

ogni gesto compì con l’amore

con cui Cristo lo avrebbe compiuto.

 

Nella notte più buia del mondo

annunciò con le opere il Regno,

senza alcuna paura donando

al signore e alla Chiesa la vita.

 

Continuò, come lampada viva

a vegliare sul gregge in cammino,

puro esempio di vera obbedienza,

d’umiltà, di solerzia, di gioia.

 

A te gloria, uno e trino Signore,

Padre buono, Unigenito Figlio,

Santo Spirito acceso d’amore,

per i secoli eterni dei secoli.

Amen.

 

 

Ero un ragazzo quando andai per la prima volta a Monte Sole. Il racconto degli eccidi nazisti mi turbò profondamente. Mi fermai sulla soglia di quella che era la chiesetta di Santa Maria assunta di Casaglia di Caprara, dove don Ubaldo Marchioni era stato barbaramente trucidato, ancora con i paramenti liturgici indosso, sulla predella dell’altare al termine della Messa. L’amico che mi accompagnava, Claudio Petinotti, mi ripeté più volte: «Questo è martirio!». Ecco, la parola «martirio» resta scolpita nella mia memoria. Altri parroci, don Ferdinando Casagrande e don Giovanni Fornasini, oltre a don Elia Comini salesiano e padre Martino Capelli dehoniano (uccisi a Pioppe di Salvaro), affrontarono la stessa sorte in odium fidei. Erano pastori che non avevano voluto abbandonare il gregge loro affidato.

In particolare, di don Giovanni Fornasini avrei sentito parlare ancora tanto. Quando andavo in vacanza alla Cà di Vidiciatico, qualche anno fa, il parroco di Lizzano in Belvedere, don Giacomo Stagni, organizzò una serata dedicata proprio a quel giovane prete, originario di Pianaccio, martirizzato perché aveva difeso usque ad effusionem sanguinis i fratelli affidati alla sua cura. Conoscerlo da vicino, così, nei luoghi in cui era nato, era vissuto e in cui aveva sentito la sua vocazione fu molto toccante. Alcuni giovani avevano ricostruito in un filmato ogni momento della sua vita e avevo l’impressione che davvero fosse lì, assieme a noi, a dimostrarci con serenità che ogni istante si deve lottare per un mondo migliore, in un modo veramente cristiano di essere tutto per tutti.

Don Giovanni Fornasini era vissuto nei luoghi in cui io ero capitato quasi per caso o, forse, in cui ero stato condotto perché io ne conoscessi le virtù eroiche. A Porretta io ho insegnato un anno e lì aveva celebrato la prima Messa solenne, nella chiesa parrocchiale di Santa Maddalena, il 5 luglio 1942, dopo essere stato ordinato dal cardinale di Bologna Nasalli Rocca il 28 giugno. Il mosaico, a poco a poco, si ricomponeva davanti a me: ho avuto l’impressione di ripercorrere, come in un ideale pellegrinaggio, le tappe di quella vita esemplare, anche se ero partito dal fondo, dalla fine. O forse dall’inizio, quando ogni gesto aveva assunto il vero valore di testimonianza del nome di Cristo. Perché il beato Giovanni ha speso ogni sua energia proprio come avrebbe fatto il suo Salvatore: era un vero alter Christus. Sapeva bene che la pace vera è quella che viene dall’uniformarsi interamente a Gesù, perché pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis; non quomodo mundus dat, ego do vobis (Gv 14,27). La pace del mondo è fallace, transitoria, ma quella di Cristo è infinita. E questo il nostro beato Giovanni lo aveva provato con mano, soprattutto durante gli anni più cupi della guerra.

Era stato nominato economo spirituale della parrocchia di Sperticano, dopo la morte del parroco, don Giovanni Roda, il 19 luglio 1942 e di lì a poco, il 27 settembre, ne avrebbe preso possesso. Quando la guerra cominciò a incrudelire, dopo i bombardamenti in città e soprattutto dopo l’8 settembre 1943, la sua canonica divenne faro di carità, aperta com’era a chiunque avesse bisogno. Con qualsiasi condizione climatica don Giovanni, in sella alla sua bicicletta, portava il suo conforto materiale e spirituale ai fratelli e alle sorelle in difficoltà oppure seppelliva i cadaveri contravvenendo agli ordini dei nazisti. Tutti lo chiamavano «l’angelo di Marzabotto». Il suo obiettivo era sempre lo stesso, ossia salvare il numero maggiore di vite umane, senza alcuna finalità politica o ideologica, ma nel nome di Cristo. Eppure, anzi credo proprio per questo, la mattina del 13 ottobre 1944 fu massacrato di botte e decapitato dal comando nazista presso cui si era recato per poter dare pietosa sepoltura ai caduti nel terribile eccidio di Marzabotto di quei giorni. Una vendetta, forse per aver protetto alcune ragazze, la sera prima, dai progetti malvagi di un ufficiale tedesco. I suoi resti mortali rimasero insepolti fino al 24 aprile 1945, quando suo fratello li tumulò nel cimitero di Sperticano. Un anno dopo, la salma sarebbe stata traslata nella chiesa di San Tommaso di Sperticano.

Con una certa meraviglia, lo confesso, a maggio scorso l’amico Renzo Zagnoni, docente di lettere come me a Porretta, mi ha chiesto di comporre un inno in onore del beato Giovanni Fornasini. Da quel lontano giorno di quando ero ragazzo, il giorno intendo in cui ne avevo sentito per la prima volta il nome, è come se egli avesse vegliato sul mio camino fino a chiedermi un testo che potesse cantare il suo amore per Gesù, per la Chiesa e gli uomini tutti. Ho fatto quel poco di cui sono capace. In questo modo, solo in questo, sono riuscito a dare il mio piccolo contributo alla storia di questo santo dei nostri giorni, delle nostre montagne. E quella parola, «martirio», assume un significato ancora più pieno, ancora più vero adesso per me, perché testimonia l’unica luce del mondo. Questo mi ha insegnato la vita esemplare del beato Giovanni Fornasini.

 

 

 

© Federico Cinti

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Inno a san Matteo Apostolo ed Evangelista

Eri un giusto tra gli ultimi,

Matteo; ti rese Apostolo

Gesù, dicendo: «Seguimi!»,

e lo seguisti subito.

Accogliesti il suo annuncio

con umile fiducia

e abbandonasti il tavolo

d’esattore a Cafarnao.

Fosti lo scriba autentico

del regno che, per scrivere,

prendesti dalle pagine

cose nuove e antichissime.

Tu raccontasti l’unica

salvezza al mondo naufrago,

Gesù, Figlio Unigenito

del Padre nella gloria.

Ispirò il Santo Spirito

il tuo Vangelo, autentica

testimonianza fervida

dell’amore salvifico.

Vedesti Gesù ascendere

in cielo tra le nuvole

insieme coi discepoli

nei pressi di Betania.

Portasti il lieto annuncio

dovunque, a tutti i popoli,

nel nome dell’Altissimo,

del Figlio e dello Spirito.

Santo Apostolo e martire,

Evangelista nobile,

con te fa’ che nei secoli

a Cristo diamo gloria.

Amen.

Nel giorno della memoria liturgica dell’Apostolo ed Evangelista Matteo, il 21 settembre appunto, propongo l’inno che ho scritto per cantarne le virtù eroiche, anche perché ne mancava uno ad hoc. O, per dirla tutta, c’era pure, ma in latino, e di nuova composizione, naturalmente sempre in dimetri giambici, come da tradizione. Questo il motivo per cui io ho scelto il settenario sdrucciolo, onde ricalcarne il ritmo nella lettura grammaticale e poter sovrapporre il testo italiano al modulo con cui si canta in gregoriano. Va da sé che il mio non è completamente avulso dall’originale latino, anche perché una traduzione vera e propria è impossibile. Sarebbe più corretto dire una trasposizione o una versione. Ma il dibattito sulla resa, tradere an vertere, per usare un dilemma antico come le parole usate per esporlo, resta un problema insolubile ed è, mea sententia, il suo fascino.

Di seguito riporto l’originale latino:

Praeclára qua tu glória,

Levi beáte, cíngeris,

laus est Dei cleméntiae,

spes nostra ad indulgéntiam.

Telóneo quando ássidens

nummis inhæres ánxius,

Matthaee, Christus ádvocans

opes tibi quas praeparat!

Iam cordis ardens ímpetu

curris, Magístrum súscipis,

sermóne factus ínclito

princeps in urbe caelica.

Tu verba vitæ cólligens

Davídque facta Fílii,

per scripta linquis áurea

caeléste mundo pábulum.

Christum per orbem núntians

conféssus atque sánguine,

dilectiónis vívidæ

suprémo honóras pígnore.

O martyr atque apóstole,

evangelísta nóbilis,

tecum fac omne in saeculum

Christo canámus glóriam.

Amen.

A rileggere questi due inni l’uno dopo l’altro, lo ammetto con umile orgoglio, non mi pare venuto male il mio. Insomma, ne sono soddisfatto: questo intendevo dire. Poi, si sa, il giorno odierno passerà, magari senza che alcuno si ponga il problema di un testo da cantare. Mala tempora currunt, nostraheu tempora! Diciamo pure così, stringendoci nelle spalle, come i personaggi di Pirandello.  

© Federico Cinti

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Inno al beato Olinto Marella

 

A te, beato Olinto,

si elevi il nostro canto:

la luce del tuo esempio

guidi la nostra vita.

 

presbitero, docente,

pietra d’inciampo viva,

splende ancora a Bologna

l’opera del tuo amore.

 

Nell’umile servizio

di Cristo sulle strade

hai dato una speranza

agli ultimi del mondo.

 

Nei poveri vedevi

il volto del Signore;

degli orfani eri il padre,

dei giovani il maestro.

 

Nella città degli uomini

hai seminato il seme

della città di Dio,

regno di pace in terra.

 

Per te va fatto il bene

finché si è ancora in vita:

è inutile lasciare

quanto non ci appartiene.

 

Con te possiamo, Olinto,

un giorno contemplare

la gloria di Dio Padre,

del figlio e dello Spirito.

Amen.

 

 

Il 4 ottobre 2020, giorno in cui a Bologna si celebra solennemente la festa di san Petronio, patrono della città, è stato proclamato beato Olinto Marella. Tutti a Bologna lo chiamavano semplicemente padre Marella, anche se non apparteneva a una famiglia religiosa, perché era un prete diocesano. Era in effetti il padre degli ultimi, dei poveri più poveri, degli orfani e dei giovani cui nessuno dava più speranze o credito. Per padre Marella, a anche se ora sarebbe più corretto dire beato Marella, in ogni persona umana è sempre integra la dignità originaria che lo rende a immagine e somiglianza del Creatore. Il resto erano solo chiacchiere ideologiche per chi aveva tempo da perdere. E il tempo è sempre poco per chi ha di mira il Cielo, il bene comune, ma il bene vero, non di parte. Per padre Marella tutti erano uguali, perché ognuno nella propria diversità sente lo stesso bisogno di dio, la stessa fame e sete di giustizia.

Aveva insegnato negli anni Trenta del Novecento pure al liceo ginnasio «Marco Minghetti». L’urgenza educativa lo animava, come tutti i veri formatori, anche se i più lo ricorderanno in rispettoso silenzio all’angolo di Orefici a chiedere l’elemosina per gli ultimi del mondo. Così ci è stato consegnato, come icona cittadina. Era e rimane l’emblema della carità, dell’amore vero, che viene solo da Cristo, ed è per gli uomini e per le donne di tutti i tempi e di tutti gli angoli del mondo. Quei soldi servivano, certo, per quella che era l’«Opera Marella», in via del fanciullo. Non era una semplice associazione assistenziale: padre Marella, svincolato da strette logiche politiche, cercava il bene delle persone, dei giovani in particolare, che altro non è se non la pace del Salvatore.

 

 

 

Per la proclamazione a beato anche io ho voluto scrivere un inno per il suo proprio, un inno che lo cantasse e lo celebrasse. Ora forse è troppo tardi, ora forse avranno già scelto altro per la liturgia che lo canta e lo onora. Eppure, il 6 settembre, giorno della sua memoria liturgica, mi dispiace non pubblicare questo mio testo per lui. In qualche modo ognuno di noi gli deve qualche cosa. I santi sono sempre modelli di vita cui ispirarsi, cui chiedere consiglio in tempo di difficoltà, da ringraziare nei momenti di gioia. Un inno ripercorre il grado di eroicità della vita di chi si è speso per la costruzione del Regno di Dio in terra, piantando il seme della Città di dio, della Gerusalemme celeste, nella città degli uomini. Bologna già ha le sue dodici porte, come l’antica città gerosolimitana. In questo perimetro ideale l’opera di Olinto Marella continua a generare buoni frutti nel giardino della Chiesa e non possiamo che essergliene grati.

 

 

© Federico Cinti

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Inno a santa Veronica Giuliani

 

Veronica, dolce sorella,

risuoni il tuo nome nel Cielo

e simile a incenso si elevi

il canto che adesso ti offriamo.

 

Vivesti in perfetta letizia

nell’umile nascondimento

e amasti, credesti, sperasti

nell’unico nome che salva.

 

Nel chiostro del cuore tu fosti

amabile figlia del Padre,

discepola saggia del Verbo

e sposa che amò il Santo Spirito.

 

Servisti in letizia il Signore

con animo puro, obbediente,

finché contemplasti il suo volto

in mistica unione con lui.

 

Gesù ti donò le sue piaghe,

le stimmate sante d’amore,

l’eterno sigillo che rende

visibile in chi ama il Mistero.

 

Tu fosti ogni istante di Dio,

a immagine sua e somiglianza,

soffrendo con lui e per lui

l’ingiusto dolore del mondo.

 

Veronica, sia gloria a Dio

che adesso contempli beata,

sia gloria al Signore che viene,

che era e che è eternamente.

Amen.

 

 

Nel giorno in cui si ricorda il felice transito al cielo di santa Veronica Giuliani, avvenuto il 9 luglio 1727, ricevo questa grazia singolare, che il mio inno a lei dedicato sia cantato nella solenne liturgia dalle Clarisse Cappuccine che oggi vivono in clausura proprio nella casa natale della santa. Un dono, questo, di immenso sollievo e di indicibile dolcezza, lo devo confessare. Non me lo sarei mai aspettato il giorno in cui ne ho conosciute alcune, sempre per grazia, certo. Ho avuto netta l’impressione che santa Veronica mi fosse venuta a cercare per farsi dedicare un inno. Ne avevo composti per lei altri, ma non erano all’altezza. Col consiglio e il sostegno di una Cappuccina questo piccolo miracolo si è compiuto e gliene rendo grazie davanti a chi ci ha guidati in questo compito non facile.

Già dai primi vespri, a Mercatello sul Metauro, dove santa Veronica vide la luce e che oggi è monastero, mentre le sue spoglie mortali riposano a Città di castello, si sono intonati questi miei versi. Per me è un’emozione forte. Perché a questo deve servire la poesia, alla letizia del cuore, al riconoscimento della verità e al compimento del disegno per cui si scrive. Poter condividere è uno dei sensi di quest’arte così sublime e così difficile, perché richiede l’umiltà di divenire voce di tutti, interpreti di un messaggio che trascende. La preghiera si eleva come incenso al cospetto dell’Eterno, in un incessante atto di ringraziamento.

 

 

 

Ecco, sapere che oggi è una solennità grande riempie il cuore di soddisfazione, oggi dico che a Mercatello si festeggia la santità della gloriosa santa Veronica, una sorella che si è donata interamente a Dio, che ha sofferto con lui anche nel corpo attraverso le stimmate della Passione di Gesù, che si è fatta discepola saggia del vangelo. Nulla valeva per lei se non stare per sempre con il Salvatore. Questa è la sua più grande eredità: aver lasciato un tesoro di virtù da imitare e seguire, senza stancarsi mai, senza venire mai meno alla fedeltà alla gioia, soprattutto oggi che tutto sembra chiamare altrove. Ecco, sono felice di poter partecipare nel mio piccolo a quest’immensa letizia che le sorelle di Mercatello mi comunicano ogni volta che posso parlare con loro, la letizia vera di chi ha scoperto che la croce sta immobile e tutto il mondo le ruota attorno. Grazie, santa Veronica, grazie, Clarisse Cappuccine che ne perpetuate la memoria e ne custodite il modello dell’autentica vita cristiana.

 

 

© Federico Cinti

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