Di fine estate – Premio del presidente alla IV edizione del premio «I colori delle parole»

 

Con grande gioia e soddisfazione, e non senza un poco di stupore, una mia lirica, di fine estate, ha ricevuto il premio del presidente al IV Premio Letterario «I colori delle parole», consistente in una coppa e in un diploma di merito. Ringrazio la giuria tutta e in particolare il presidente, la dott.ssa Cinzia Baldazzi, dalle cui mani ho ricevuto l’ambito riconoscimento. Meglio di tante mie divagazioni parlerà per me il testo poetico vincitore, che riporto di seguito.

 

 

Madreperla di nuvole, l’incanto

si sciolse in calde lacrime all’estate

sul punto del non essere. Era il pianto

 

lustrale sulle foglie accartocciate

nel respiro dell’attimo, perplesso

rincorrersi di mille antiche fate.

 

Ebbra la soglia, un palpito sommesso

la carezza tenace in cui s’imbeve

il cuore oltre ogni vincolo, ogni eccesso.

 

Fu un profumo dolcissimo, una neve

posata su ogni dove, fu l’essenza

fuori del tempo, il tuo sospiro lieve,

 

il mio sospiro, un brivido d’assenza

in cui smarrirsi per un sogno insano

e ritrovarsi poi alla tua presenza.

 

Così mi sentii prendere per mano

lungo la via. Tra il pallido vapore

la certezza che nulla era più invano.

 

Sogno di quasi autunno, tra il torpore

dei giorni, in cui la palpebra del cielo

caduca insegue il correre delle ore.

 

Una spada di luce squarciò il velo

tetro di nubi, zampillò un sussurro

tiepido e rise un fiore sullo stelo

 

 

Era un giorno di pioggia, d’inizio settembre: il cielo di color madreperla si sciolse a un certo punto in calde lacrime di pioggia. Ritrovai quell’«incartocciarsi delle foglie / riarse» di cui canta il buon Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato, 3-4), nell’incantesimo shakespeariano delle fate di Titania nella foresta onirica dell’amore. Si era sulle soglie del bosco, su cui il vate chiedeva a Ermione in procinto di metamorfosi di tacere, perché non udiva «parole / che dici / umane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-4). E ritrovai il candore d’un profumo simile a neve, in un dolcissimo sospirare di donna. Fu un sogno in cui mi smarrii e in cui mi ritrovai. Ma qualcuno mi prese per mano e i nostri ombrelli si fusero per sempre assieme in un abbraccio, simile a quello di Filemone e Bauci. Il resto fu poesia, solo poesia: la donna a cui la dedico lo sa.

 

 

© Federico Cinti

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Sulla tomba di Dante

 

Eri lì, a un soffio. L’anima mi tacque,

tenue nel turbamento. Nulla intorno,

solo il cristallo attonito delle acque.

 

Profondai dentro i secoli. Il contorno

una pietra scavata, assorto gelo

di vanità. Impossibile il ritorno.

 

Apparve e sparve nella nebbia un velo

d’inconsistenza, assorta nostalgia

scritta nel cuore, anelito di cielo.

 

Riposava il sospiro. La poesia

risuonava, eco antica, onda di mare

nella conchiglia tremula. Per via

 

il senso del perenne limitare.

su quella soglia meditai. Ti vidi

e non ti vidi più. Dolce sognare

 

quel tempo, quell’età. Pallidi gridi

oltre l’ultimo segno. Un’ombra vana

aleggiava insensibile tra i lidi.

 

L’ora fuggiva. A un tocco di campana

trasalii. Tu eri lì, ermo miraggio

d’inciampo: eri l’immagine lontana

 

dell’incessante fremere del viaggio.

Ero lì, dove adesso è il tuo tesoro

più autentico. Fu un raggio dentro un raggio,

 

fu l’immortale gloria dell’alloro.

 

 

Tutto è ancora così, com’era allora, tra l’azzurro di quel cielo e di quel mare, perché «Ravenna sta come stata è molt’anni», e così resterà in Aeternum, anche se «l’aguglia da Polenta» più non «la si cova» e «Cervia» più non «cuopre co’ suoi vanni» (Inf. XXVII 40-42). Tutto è ancora così, come tra il 13 e il 14 settembre 1321, quando il divin poeta, di ritorno da una missione in quel di Venezia, infermava di malaria e passava a miglior vita, anche se già allora era leggenda la fine tragica di Francesca la cui «bella persona / le fu tolta» con tanta ferocia e «il modo» per sempre «l’offende» (Inf. V 101-102). Tutto è ancora così, come nelle parole del cesare Giustiniano, nel cui ricordo l’azione folgorante dell’aquila imperiale, «il sacrosanto segno» (Par. VI 32), «poi ch’elli uscì di Ravenna / e saltò Rubicon, fu di tal volo, / che nol seguiteria lingua né penna» (Par. VI 61-63), anche se oggi non è più così in rigoglio «la pineta in su ’l lito di Chiassi» (Purg. XXVIII 20) da assomigliare al Paradiso terrestre di Matelda.

Eppure, la tomba del «ghibellin fuggiasco» (U. Foscolo, Dei sepolcri, 174), su cui mai fu inciso l’epitaffio di Giovanni del Virgilio, «Theologus Dantes nullius dogmatis expers» etc., oggi, oltre all’abbraccio dei secoli, aggiunge quello dell’acqua dell’Adriatico e in esso «si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire» (Par. I 8-9). Su quella soglia mi fermai a contemplare il sogno dell’immortalità, quel Non omnis moriar (Orazio, carm. III 30 6) che riecheggia «nel cor, presente / come in conchiglia murmure di mare» (G. Pascoli, alexandros, 35-36). Nell’acqua, l’elemento primordiale, sta l’arca del padre della lingua, il vate dell’eternità. Un silenzio sovrumano attinge l’orecchio in quell’attimo assoluto. Davvero nulla è invano, nemmeno la morte. Nel procedere querulo del giorno non pensai ad altro. dante era lì, a un soffio da me, in quella rarefatta «corrispondenza d’amorosi sensi» (U. Foscolo, Dei sepolcri, 30). Tutto mi fu più chiaro, all’apparire del vero. Indugiai, certo, forse come mai più e in alcun altro luogo.

Era, credo, la gloria dei poeti, come la rivide il buon Guido nel solaio di Villa Amarena, quasi verso il tramonto d’un memorabile giorno autunnale, così, «tre ceste, un canterano dell’impero, / la brutta effigie incorniciata in nero / e sotto il nome di Torquato Tasso» (G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità, IV 34-36). Era, credo, lo stesso grido di disperato orgoglio di chi mai, pur meritandolo più di mille altri, avrebbe meritato l’alloro, per cui «sì rade volte, Padre, se ne coglie / per trîunfare o cesare o poeta, / colpa e vergogna de l’umane voglie, // che parturir letizia in su la lieta / delfica deîtà dovria la fronda / peneia, quando alcun di sé asseta» (Par. I 28-33). Non l’amato alloro, non l’epitaffio d’un amico, bensì solo l’ombra d’un nome nell’infinita azzurrità del mare, a un passo da dove «il ponte di legno / mette a Porto Corsini sul mare alto / e rari uomini, quasi immoti, affondano / o salvano le reti» (E. Montale, Dora Markus, 1-4). Fui lì, certo, a un soffio, con in testa l’alloro di Dante.

 

 

 

© Federico Cinti

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«Pier Paolo Pasolini e Bologna»: II posto al Premio Letterario Nazionale Città di Livorno – sez. D

 

Avrei voluto presenziare, sabato 23 luglio 2022, alla cerimonia di premiazione della XVI edizione del Premio letterario nazionale di poesia e racconto breve “Città di Livorno”, organizzato dall’Associazione Culturale Pietro Napoli, ma le contingenze non me lo hanno permesso. Già, perché è stato assegnato alla mia lirica Pier Paolo Pasolini e Bologna il secondo posto nella sezione D, dedicata per l’appunto al centenario della nascita (5 marzo 1922 a Bologna) di Pier Paolo Pasolini, come risulta dalla graduatoria. Di seguito il testo della poesia.

 

 

Per i portici un’ombra, esile raggio

Invisibile agli occhi, la riapparsa

Ebrezza di un’idea, sogno e miraggio,

 

Rompe il silenzio: il cuore di Casarsa

Parla a Bologna. Un grido senza fine

Al tempo che già fu, foglia riarsa,

 

Ossessione del margine, confine

Lontano per combattere. Sul viso

Ossuto i segni d’infinite spine.

 

Parole e libertà, gesto improvviso

Al torbido crepuscolo del mondo

Scruta tra le macerie il paradiso.

 

Oggi è polvere il gioco furibondo,

La lotta per la lotta. Aveva un senso

In quest’assurdo, trito girotondo?

 

Nulla sarà, solo aspro fumo denso

In bilico. Rimane la poesia,

Esilio d’un altrove, d’un immenso

 

Brivido di chi resta sulla via,

Orma di un’orma in cerca di giustizia,

Lassù, quaggiù, una smorfia d’ironia.

 

Oscillano le ceneri, riinizia

Greve il cammino tra cattivi e buoni.

Non agire, l’autentica malizia,

 

Atroce vanità d’ardue illusioni.

 

 

Questo il giudizio sulla lirica in terzine dantesche acrosticate di cui ringrazio la giuria:

«Testo di ottimo ritmo, quasi ad essere musicale, con notevole rotondità delle rime utilizzate.

Grazie alle parole scritte su carta come pennellate, emerge in maniera evidente la figura di Pier Paolo Pasolini in riferimento al periodo bolognese».

 

Ringrazio la giuria di avermi insignito del prestigioso riconoscimento. Un grazie tutto particolare al signor Roberto Napoli.

Ringrazio la giuria di avermi insignito del prestigioso riconoscimento. Un grazie tutto particolare al signor Roberto Napoli.

 

 

© Federico Cinti

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Oblio di sogno

 

Eterea levità, fu il tuo sorriso

Smarrimento d’un attimo infinito.

Tutto successe a un tratto: all’improvviso

una dolcezza sul sentiero trito.

 

Sfiorai il cielo sublime con un dito:

tutto mutò, tutto fu gioia e riso;

ubriaco ormai, mi ritrovai stupito

percorrendo le vie del paradiso.

 

Oblio di sogno, attesa sulla vana

rarefazione al palpito del giorno,

m’incamminai di nuovo oltre la soglia.

 

Eri di luce chiara, eri la voglia

urgente d’un sospiro, d’un ritorno

senza il filo che attorto s’addipana.

 

 

[Sonetto classificatosi al secondo posto al concorso Amore… parole dal cuore 2022 nella sezione metrica]

 

 

Incredibile, forse; eppure, mi è capitato proprio così, come canta Alfredo alla sua trasognata Violetta: «Un dì, felice, eterea, / mi balenaste innante, / e da quel dì tremante / vissi d’ignoto amor. // Di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero, / misterioso, altero / croce e delizia al cor». Non so se sia l’arte a ispirarsi alla vita o la vita all’arte. Qualcuno, dall’alto del suo genio, scrisse che «di natura arte par, che per diletto / l’imitatrice sua scherzando imiti» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI 10, 3-4). È specchio, tutto qui, in cui ci si smarrisce e ci si ritrova a un certo punto. Mi fa sempre sobbalzare il verbo «ritrovarsi», come ci racconta il massimo tra tutti i pellegrini della storia che, «nel mezzo del cammin di nostra vita / si ritrovò per una selva oscura» (Inf. I 1-2). Ecco, così, si ritrovò, come successe a me, davanti a quella luce chiara. Fu un ritrovare me stesso. L’ho capito attraverso i versi di Piave.

È specchio, certo, è soglia che impercettibilmente si supera, senza accorgercene. La realtà ci si mostra per quella che veramente è. Ci si mostra o ci appare, in quell’eterno gioco di deformazioni che chiamano vista, udito, tatto, olfatto, forse pure gusto. Tutto si trascolora, tutto assume un senso diverso e divergente nell’aura in cui ci immergiamo. E si giunge a toccare il cielo con un dito, come confessò Orazio al suo Mecenate, per ringraziarlo di avergli concesso di essere quel che desiderava: «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36). Era davvero l’anima mundi, «di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero». A quella voce chiara trasalii d’un tratto, come quel Morvàn che «viveva con sua madre in Cornovaglia: / un dì trasecolò nella boscaglia» (G. Pascoli, Breùs, I 1-2). I sogni ci si palesano davanti e noi cominciamo a inseguirli. Così nasce l’amore.

 

 

A volte me lo domando e non posso che rivolgere lo stesso quesito a quella donna meravigliosa: che fu quel giorno? Chiara nell’orecchio ho la tua voce, luce nei ricordi in cui spesso mi specchio e mi rispecchio. Fu il primo giorno, certo, quella prima volta in cui tutto cominciò, quasi per sbaglio. Ecco, appunto, quasi, perché sbaglio non fu, fu certamente segno da decifrare, simbolo da riconoscere, un po’ come il famoso filo che legava Arianna e Teseo. Ora noi diciamo che è la memoria, perché abbiamo nell’orecchio che «un filo s’addipana» (E. Montale, La casa dei doganieri, 11). Sul limite a strapiombo, sulla frontiera che più non si vede, la memoria è un filo che non può non legare. Nel mio caso, almeno, è così, voglio che sia così. Eri «felice, eterea» e «mi balenasti innante»: me lo canto e me lo ricanto. Il più è avere il coraggio di farlo davanti a quell’eterna luce chiara. Ma verrà il giorno: ne sono sicuro.

 

 

© Federico Cinti

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Omaggio a Dante – I posto sez. a3 “Nicola Rizzi” al XV Premio Letterario Internazionale “Voci – Città di Roma”

Ho appena appreso, con grande piacere misto a stupore, che è stato assegnato il primo posto, nella sezione a3 – Metrica “Nicola Rizzi”, al XV Premio Letterario Internazionale “Voci – Città di Roma”, alla mia lirica Omaggio a Dante. Il premio consiste in un contratto d’edizione per i tipi della Fuorilinea di Roma. Nell’anno in cui si celebra il settimo centenario della dipartita del sommo poeta, non posso negarlo, la notizia mi riempie di soddisfazione. Ringrazio la prestigiosa giuria per questo riconoscimento.

Di seguito riporto la lirica cui, come da verbale, è stato assegnato il premio.

Omaggio a Dante

I.

Addio, Firenze, antica nostalgia

sulla soglia del cuore! Tutto è vano,

se si smarrisce la diritta via.

L’ansia del giorno, un palpito lontano

d’eternità. L’azzurro trascolora

il nostro incerto incespicare umano.

Non sarò più chi fui. Vivo nell’ora

che volge al desiderio, nell’esilio

di questo viaggio per tornare ancora

a casa sulla scorta di Virgilio.

II.

Voragine del nulla, l’occhio fissa

il delirio dell’uomo e il suo destino

dentro l’oscurità che s’inabissa.

Adesso mi ritrovo pellegrino

fuori e dentro di me, dove discerno

ciò che non vede l’animo meschino.

Immensa solitudine, l’inferno

mi si scopre davanti, squarcia il velo

del suo tetro trascorrere in eterno.

Così si perde chi ha perduto il cielo.

III.

Sussulto d’infinito all’orizzonte

rivedere le stelle e in mezzo al mare

l’azzurra solitudine del monte!

In questa libertà tutto m’appare

veramente com’è, l’ardua salita,

la stanchezza, la gioia nell’andare.

In me sento rinascere la vita

tra gli amici di un’epoca felice,

si risveglia in me l’anima assopita

a scorgere il sorriso di Beatrice.

IV.

Corre acque inaccessibili il mio legno

per lo gran mar dell’essere in cui io

rendo reale il sogno del mio ingegno.

Tra le potenze angeliche m’avvio

a contemplare le sostanze sante

e il mistero ineffabile di Dio.

Maria prega per me, piccolo Dante,

perché io pregusti quelle cose belle,

mentre con moto sempre a sé costante

l’amore muove il sole e le altre stelle.

Di seguito riporto il giudizio per cui mi è stato assegnato il primo posto e ringrazio Lidia Guerrieri:

Eccezionale padronanza della metrica e un contenuto eccellente in questo lavoro di Federico Cinti:
quattro “capitoli” ciascuno di tre terzine dantesche più un verso di chiusura in rima alternata col
penultimo della terzina di sopra. Basterebbe solo questo a dimostrarci le non comuni capacità di
questo poeta che ha saputo coniugare cultura, destrezza e umanità. Quattro parti per ripercorrere
il viaggio del Vate: dall’incontro con Virgilio nella selva oscura, all’Inferno, “voragine del nulla,
delirio dell’uomo”, all’azzurra solitudine del monte del Purgatorio con la gioia dell’andare, fino
allo splendore del Paradiso e al “mistero ineffabile di Dio”. Novello, “piccolo Dante”, Cinti compie
in questa poesia un viaggio più breve ma identico a quello del Poeta ricavandone la medesima
speranza di salvezza. Noterei come i versi isolati, a conclusione di ogni parte, puntualizzino gli
elementi essenziali dell’opera dantesca: Virgilio-il cielo-Beatrice e, in conclusione il verso che
chiude questa “piccola Commedia” riecheggiando quello conclusivo dell’opera dantesca. Omaggio
di grande bellezza all’eccelso fra i poeti da parte di Federico Cinti, esperto nella metrica italiana e
barbara e poeta raffinatissimo.
Lidia Guerrieri

© Federico Cinti

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«Alla mia donna»” – quinto posto al VIII premio Pascoli “L’ora di Barga”

 

Mi è stata consegnata una bella targa con l’effigie di Giovanni Pascoli, che non esito a definire il mio poeta. La soddisfazione è tanta, soprattutto perché mi sono avvicinato idealmente ai luoghi dove ha vissuto molti anni il poeta-fanciullino. La competizione, infatti, portava il titolo di una lirica famosissima dei Canti di Castelvecchio, ossia L’ora di Barga. Avevo visitato ai tempi dell’università anche la Casa-Museo di Barga, immersa in una pace tutta toscana e soprattutto poetica. Il mio componimento, come i Primi e i Nuovi poemetti, riprendevano le terzine. Essere tra i vincitori ha suggellato, in qualche misura, la mia vicinanza a quel sentire così malinconico, eppure così eterno, di Pascoli. In questo, forse, si gioca tutta la mia soddisfazione di questo riconoscimento.

 

 

Ti cercai dentro l’anima. La vita

è a volte avara. Limpido sorriso

alle porte del buio. Tra le dita

 

tenni un sogno: giungesti all’improvviso

tra la pioggia (o le lacrime?). Non ero

pronto; eppure, trovai il mio paradiso.

 

Quanto eri bella non so dire: il vero

si trasfigura all’ombra del reale.

Il tuo viso era semplice, sincero.

 

Nel cuore la tempesta: un fortunale

mi travolse. Un naufragio senza fine

mi sconvolse. Poi nulla fu più uguale.

 

Amai, oltre ogni cosa, oltre il confine

del lecito o possibile: ti amai,

mia dolce rosa nata in dure spine.

 

Feci per te quel che non feci mai

da quel giorno di pioggia a fine estate:

tutto per te cambiai, tutto imparai.

 

Contai gli attimi, le ore, le giornate,

fiore di primavera. Una dolcezza

mi s’agitava in cuore a lievi ondate.

 

Mi smarrii in te, mia sola, unica ebrezza:

nel tuo profumo il languido sospiro

dell’universo. Nella tua bellezza

 

la verità dell’intimo respiro

che unisce indissolubile. Da allora

mi specchio in te, in te vivo, ti rimiro

 

all’infinito, amore che innamora.

 

 

Questo il testo della lirica, questo il tributo alla grandezza dell’ultimo figlio di Virgilio, come ebbe a dire d’Annunzio di Pascoli, e a ragione aggiungo io. Molto è ancora da dire e da scoprire di lui, ma è discorso che vale per tutti i geni della letteratura e del pensiero. Mi accontento di accostarmi a lui con quella reverenza «che più non dee a padre alcun figliuolo» (Purg. I 33), per riprendere lo stato d’animo descritto dal «ghibellin fuggiasco», per fare mia la definizione che Foscolo dà di Dante nei Sepolcri (v. 174), nel momento in cui incontra inaspettatamente Catone l’Uticense.

 

 

 

© Federico Cinti

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Secondo posto sezione A al III Premio internazionale “Modernità in metrica”

 

Con grande felicità e soddisfazione ho ricevuto la comunicazione che una delle mie poesie, Dialogo con mio padre, inviata alla III edizione del concorso poetico internazionale «Modernità in metrica», ha ricevuto il secondo posto nella sezione A, poesia in lingua e metrica italiana.

 

 

DIALOGO CON MIO PADRE

 

Tutto è ancora così, come lo avevi

lasciato tu. La polvere dei giorni

volati via, momenti troppo brevi

 

per sentire davvero la distanza

incolmabile, annulla i tuoi ritorni:

per noi sei ancora qui, nell’altra stanza.

 

La tua casa, lo sai, non è cambiata:

ha sempre quell’odore tanto buono

di pulito di quando l’hai lasciata,

 

le tende alle finestre, qualche fiore

in terrazza, quel senso d’abbandono

alla felicità che riempie il cuore.

 

Eppure manchi, sai? Ci manchi tanto,

papà: il tempo non sana la ferita

ancora aperta. Ti sentiamo accanto,

 

ma la tua sedia è vuota, sospensione

di ciò che non c’è più, sogno di vita

vera, ombra d’eterna commozione.

 

Tu sei sempre con noi, presenza assente

tra questi quattro muri, senza volto

o voce. Ti vediamo sorridente,

 

come l’ultima volta. Ci hai voluto

vicino. Già sapevi. Ci hai raccolto

intorno a te per l’ultimo saluto.

 

Ricordarti ci aiuta, non consola,

oggi che servirebbe il tuo consiglio,

la tua serenità, la tua parola

 

amica. Tutto è ancora come allora

per la mamma e per me, che ti somiglio,

in casa nostra, nella tua dimora.

 

Si parla, si ricorda, si racconta,

nulla di più, seduti sul divano,

dove rimane sempre la tua impronta,

 

ad attenderti. Sopra il tavolino

il vaso dove stendere la mano

per prendere anche noi il cioccolatino,

 

come facevi tu prima d’andare

a sdraiarti, papà, per riposare.

 

 

Riporto di seguito la motivazione del presidente di giuria, il prof. Orazio Antonio Bologna:

 

“Dialogo con mio padre”

L’intensa lirica, venata di malinconia e pregna di struggenti ricordi, rimembra con vivo dolore la perdita del padre, saldo punto di riferimento per tutta la famiglia. La ferita, ancora viva e sanguinante, stenta a rimarginarsi. L’accurata rievocazione dei momenti passati col padre, pur finiti per sempre, rinnova il cocente dolore provocato dall’assenza. Il vuoto lasciato riaccende intorno alla sua figura strazianti ricordi, che affiorano nella memoria sempre vivi e palpitanti. L’inalterato moto affettivo rievoca, con immagini di rara bellezza e suggestione, l’esistenza dell’uomo svanito nel nulla e presente nella memoria e nel calore delle persone a lui legate. «Sol chi non lascia eredità d’affetti / poca speme ha nell’urna» scrive a ragione Foscolo nel Carme I sepolcri. Nel nostro poeta la figura del padre si può, e a ragione, riallacciare con maggior adesione a quanto scrive Dante nel ricordo di Brunetto Latini: «… ne la mente m’è fitta, e or m’accora, /la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna». Alle vive suggestioni suscitate dalla lettura dei classici, nel nostro autore subentra l’immagine dell’uomo, che trascorre la vita d’ogni giorno nella ripetitività dei gesti e delle parole. Ed è proprio questo, che, unito al sapiente utilizzo della versificazione, rende la lirica umana, toccante, d’impareggiabile bellezza.

 Orazio Antonio Bologna

 

 

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Primo premio sezione B al Concorso poetico Versi d’oro al SS. Crocifisso

 

Con grande soddisfazione e gioia ho ricevuto la comunicazione che una delle mie poesie, La passione del Signore, inviata al concorso poetico «Versi d’oro al SS. Crocifisso», indetto dalla Venerabile Confraternita di Misericordia di Castagneto Carducci per le Feste triennali del SS. Crocifisso, ha ricevuto il primo posto nella sezione B, lauda.

Di seguito riporto il testo vincitore:

 

 

La Passione del Signore

 

Ti presero, Gesù, pur Innocente,

per ucciderti in croce ingiustamente.

 

Dopo l’ultima cena assieme ai tuoi,

sudasti sangue in fervida orazione

sul Monte degli Olivi, dove poi

ti circondò una turba di persone.

 

Un uomo ti baciò, senza emozione,

un amico, stringendoti al suo seno:

consegnava in tal modo il Nazareno,

il Messia, Gesù Cristo, a quella gente.

 

Ti presero, Gesù, pur Innocente,

per ucciderti in croce ingiustamente.

 

Ti condussero al sommo sacerdote

perché da lui venissi interrogato

con false prove, con parole ignote,

finché un capo d’accusa fu trovato.

 

Ti condussero in seguito a Pilato

per decretare l’ultima tua sorte:

essere messo in croce, messo a morte

per aver bestemmiato il Dio vivente.

 

Ti presero, Gesù, pur Innocente,

per ucciderti in croce ingiustamente.

 

Non proferisti verbo di dolore

alle percosse ignobili, al flagello:

ti mostrasti del mondo il Salvatore

nella dolce umiltà di mite Agnello.

 

Silente ti condussero al macello,

verso il Calvario, con il peso atroce

sulle tue spalle dell’iniqua croce,

davanti agli occhi di Maria dolente.

 

Ti presero, Gesù, pur Innocente,

per ucciderti in croce ingiustamente.

 

 

Ringrazio la giuria del prestigioso premio.

Dal «Verbale di Giuria»:
1° premio per la Sez. B – Lauda
La passione del Signore
composta da Federico Cinti
con la seguente menzione d’onore:
«Componimento rispettoso della metrica, dall’andamento descrittivo, evoca significativamente lo snodarsi di una Via Crucis il cui senso è la donazione dell’Agnello per la vita del mondo».

 

 

© Federico Cinti

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A inizio estate

 

Ci tengo a ringraziare Patrizia Stefanelli, la prestigiosa giuria del XXIII Premio Nazionale Mimesis 2020 e tutti gli organizzatori per l’undicesimo posto assegnato alla mia lirica A inizio estate, tra i testi vincitori del concorso letterario.

Di seguito il testo.

 

 

Traslucida armonia nel cielo il raggio

dell’eterno: si perde azzurro il limite

tra mille scaglie d’oro

sull’ultima vertigine.

 

Voce che sa di sale, antiche favole

raccolte chissà dove sulla sabbia,

all’ombra della vita

dal cuore di conchiglia.

 

Il tempo corre immoto, muta immagine

ripetutasi uguale, arcana inerzia

della clessidra. Tutto

è e non è dentro l’anima.

 

Ride un volto dolcissimo. Per l’aria

il senso della festa. Si rincorrono

momenti senza fine,

gioie d’un desiderio.

 

S’avvera il sogno. Scioglie il cuore l’ansia

dell’attesa. Nell’essere e nell’esserci

cade il velo, sospiro

d’un già noto tripudio.

 

 

Vedere riconosciuto il frutto della propria creazione è una gioia indescrivibile. Solo in questo modo, divenendo pubblica, la poesia si fa bene condiviso, senso comune.

 

 

© Federico Cinti

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Sogno di una notte di mezza estate

 

Ho appreso con molta soddisfazione dalla dott.ssa Valeria Di Felice che una mia poesia ha ottenuto il terzo posto nella sezione B, poesia in metrica, al XII Premio letterario Internazionale “Città di Martinsicuro” 2020. Questa la comunicazione ufficiale:

«Gentil.mo autore Federico Cinti,

la Di Felice Edizioni è lieta di comunicarLe che, per la sezione POESIA IN METRICA della XII edizione del Premio Letterario Internazionale “Città di Martinsicuro” 2020, la giuria ha deciso di assegnare il Terzo Premio all’opera: Sogno d’una notte di mezza estate».

 

 

S’intravide la luna: in un pallore

di perla sgranò lieve il suo rosario

di stelle e fiorì lieve lo stupore.

 

Un canto lontanava solitario

lungo la via, per gli orti inargentati,

tra noi sciogliendo l’ultimo divario.

 

Indugiammo nell’ombra trasognati

un tempo indefinito: in quell’istante

fummo come perduti e ritrovati.

 

Si fondeva in noi il mondo circostante

annullandosi: l’ora ci sorprese

simile al volto di un’ignota amante.

 

Le anime nostre incredule, sospese,

rincorsero il fluire della vita

oltre gli eterni secoli protese.

 

Il cuore mareggiò. Dita tra dita

fissammo nella volta ardua del cielo

la sommità dell’essere infinita.

 

Tutto fu un’eco già sentita: il velo

notturno ci coperse, quell’estate

incipiente, col suo sussurro anelo.

 

Un sogno ci rapì, parole alate,

languida ebrezza, etereo stordimento,

antico sortilegio delle fate.

 

Stormivano le fronde agili al vento

spinto verso l’asintoto e tra noi

la vertigine solo e il suo spavento.

 

Non esistette più il prima né il poi.

Tra le palpebre un dolce lacrimare

tu dentro gli occhi miei, io dentro i tuoi.

 

Chissà dove, laggiù, sentimmo il mare,

ombra di un’ombra, immagine del vero,

e quasi ci sembrò di naufragare.

 

Era l’ansia del vivere, pensiero

che ci fondeva indissolubilmente,

e attingemmo alla fonte del mistero.

 

La luna procedette indifferente

nel suo peregrinare senza fine,

oltre i monti, perdendosi silente.

 

Poi l’aurora, in un abito di trine

dal fulgore di rosa, annunciò il giorno

nascente, fino all’ultimo confine

 

della terra, in un ciclico ritorno.

 

 

Riporto di seguito il giudizio della giuria:

 

Motivazione a cura di Vittorio Verducci

 

Sogni e magie in una notte d’estate. Sotto lo sguardo compiaciuto della luna e il ridere delle stelle si fondono gli occhi degli amanti, in una percezione panica della natura che li porta a naufragare nell’oscurità della notte, tra lo stormire delle foglie e i palpiti del mare, in un tempo che si dilata all’infinito. In questa cornice di mistero che avvolge le cose e in cui batte il cuore segreto dell’universo, si snodano le terzine dantesche del poeta, perfette sul piano formale e stilistico, cui egli affida i moti più reconditi dell’anima.

 

 

All’incantesimo del solstizio estivo fa eco la pièce di Shakespeare, di cui ho mutuato il titolo: dimensione onirica e finzione reale s’incontrano e si fondono dentro la notte fulgida del cielo. Splendida metafora, forse, dell’amore, per cui tutto è possibile. Si alza il sipario al tremulo  raggio della luna, che passa nel vento assieme alle stelle. Palpita il mondo tra le case e tra gli alberi. Vicende che s’annodano e si snodano, speciosi intrecci dal sorriso ironico. È il regno delle fate, di Titania e di Oberon, che si rincorrono in un eterno gioco delle parti.

Nel Sogno di una notte di mezza estate un’altra Titania, presenza inquieta in terra europea, non trovò pace, Elisabetta, infelice imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria. Anch’io l’inseguita in quel suo viaggio senza meta, fantasia che ancora non ha raggiunto il suo compimento. Volava di sponda in sponda, simile a gabbiano senza patria. Anche questa è una storia che prima o poi racconterò. Poesia, solo poesia, specchi ad angoli deformi che si riflettono l’uno nell’altro a costruire ciò che è e che non è, metamorfosi d’irrequietudine.

 

 

© Federico Cinti

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