Di fine agosto, premio speciale del presidente

 

 

Con grande piacere apprendo oggi di essere stato insignito del «Premio speciale del Presidente» alla III edizione del premio letterario «Dino Sarti» per la poesia Di fine agosto, indetto in seno al al Centro Foscherara di Bologna. Ringrazio di cuore Sante Serra dell’attenzione riservata a questi miei versi.

 

 

Obliquo il sole stanco nel meriggio

sapeva già d’autunno, declinando

tra le strade deserte. Nel silenzio

il senso vano di una vita amica.

 

Eri al cancello. Dritta nell’attendermi

gettavi un’ombra di malinconia

sui quattro sassi e l’erba. In un pulviscolo

dorato si spandeva il tuo profumo.

 

Salimmo. In cielo qualche lieve nuvola

per l’azzurro, sui tetti, tra le case

squadrate e l’orizzonte. Tra le ciglia

socchiuse un dolce abbraccio di penombra.

 

Moriva agosto. Sull’estate tremule

lacrimavano in coro le cicale.

Non te lo dissi allora, ma eri splendida.

Già lo sapevi. In quell’istante vano

 

era ogni dire, ogni discorso inutile

profanazione. Il tempo s’annullava

in un istante eterno. Sogno, immagine,

realtà, tutto si fonde nel ricordo.

 

Esile il tuo sorridere. Nell’anima

è come il mormorio nella conchiglia

che torna all’infinito fino a perdersi

dentro un sussurro. Nulla si cancella.

 

Dolce fu stare lì. Nei brevi battiti

d’una lancetta il tempo fuggì via.

Avevo addosso il tuo profumo, languida

vertigine così consolatrice.

 

Poi la soglia sconnessa, il lento stridere

del cancello, il lunghissimo saluto.

Non so se te lo dissi che eri splendida,

ma lo sapevi già. Voltai le spalle.

 

Moriva allora agosto. Nell’immobile

vacuità di quel giorno il nome caro

di quelle case, dei palazzi, il Fossolo,

varco all’eterno, dove ha casa il cuore,

 

mi restò dentro. E mi rimane, pallido

volto di un giorno. Ancora mille e mille

ci attendevano e attendono, miracolo

che si perpetua, favola d’amore.

 

 

Di seguito la motivazione del premio speciale del Presidente:

Un tardo pomeriggio di agosto avvolge il quartiere della immediata periferia  bolognese e accende l’animo del Poeta, gli restituisce l’eco di ricordi, di immagini care, famigliari e lontane, profumate, sospese in atmosfera sognante.

Citando il Poeta «Sogno, immagine, realtà”, tutto si fonde nel ricordo».

Nella seconda parte della soave e pregevole lirica, i versi si fanno più intimi ed meditativi, rivolti alla propria anima e allo stupore per quei luoghi «dove ha casa il cuore» dominati dai ricordi che sembrano inseguire le parabole inquiete della mente.

 

Sante Serra

 

Bologna, 10 luglio 2020

 

 

Ricordo dell’estate in declino sul finire d’agosto, quando già tutto sa d’autunno: l’incontro nella città ancora assorta nel pallido meriggio obliquo. Null’altro intorno se non ombre che s’inseguono sulla via della felicità. La cupola azzurra del cielo adagiata su ogni cosa, anche su di noi. Lontane le Torri, laggiù, testimoni di ciò che eravamo. Nel palazzo di fronte aveva abitato Dino Sarti, antico presagio.

 

 

© Federico Cinti

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Da Gregorio in via delle Moline

 

Gregorio non c’è più. Nelle Moline

il buco sotto il portico dei libri

è in abbandono. Il labile confine

degli equilibri

 

impossibili è in ombra adesso. Vola

il tempo a luoghi senza più contorni

ripetendo ogni singola parola

silente, a giorni

 

senza più età. Nel tacito segreto

la memoria oggi ha un vivido colore

dietro gli occhiali spessi, ha un volto lieto

tra il grigio odore

 

di sigaretta. Tutto, aveva letto

tutto ciò che vendeva. Un buco appena

quel che rimane, ciò che resta stretto

simile a scena

 

vuota. La libreria forse c’è ancora,

ma non ci passo più, retaggio antico

di chi non sono più, di chi ero allora,

d’un Federico

 

già lontano, chissà. L’ombra di un nome,

Gregorio non c’è più. Passa la vita

distratta sotto il portico ed è come

sabbia tra dita.

 

 

Era il mio ultimo esame, storia greca, e non trovavo il manuale. Farsi risme di fotocopie non mi procurava la stessa soddisfazione, tanto più se il libro era ancora in commercio. ne ero sicuro: i cataloghi lo davano ancora disponibile. Nelle librerie dove andavo sempre mi rispondevano che era ormai esaurito. Mi consultai allora con Luca, un amico che già l’aveva dato quell’esame: era pronto a prestarmelo, ma io lo volevo comprare. Mi guardò serafico, credo con comprensione. Anche lui era come me.

«Va’ dal greco», mi suggerì.

«E chi è il greco?», gli chiesi io. In quattro anni di studio matto e disperatissimo non lo avevo mai sentito nominare.

«È il libraio di via delle Moline, Gregorio: se non lo ha lui, non lo ha nessuno. Non ti vende un libro se prima non lo ha letto», mi spiegò compunto.

Avevo ben presente il posto, anche se non ci ero mai andato: mi era un po’ scomodo. Non sapevo che si chiamasse così. Era all’angolo con via Mentana, sotto un buio portichetto sconnesso. Ci andai subito.

entrai, come tanti facevano e avevano fatto prima di me.

«Sto cercando il Musti», gli confidai quasi in segreto, quando fu il mio turno. Gli tacqui che avevo girato inutilmente mezza Bologna: già lo sapeva. 

«Sì, storia greca», replicò Gregorio da dietro le sue spesse lenti da miope, tirando una boccata di sigaretta. Poi si inoltrò in non so quale anfratto.

Tornò con il grosso manuale dalla copertina bianca della Laterza. Naturalmente non gli chiesi se lo avesse letto: era più che evidente la sua familiarità col volume. Luca non si era sbagliato nemmeno quella volta.

Ci ritornai ancora, anche solo per il gusto di parlare un po’ con lui. Ascoltava spesso musica barocca e questo mi alleviava la fila che si doveva fare. Fuori della vetrina il mondo scorreva indifferente, ma nella libreria di Gregorio il caos si ricomponeva in un ordine perfetto.

Per molto tempo non passai più di là: la vita a volte porta altrove. Ebbi un  colpo al cuore quando seppi che Gregorio, Gregorio Kapsomenos, nel 2011, era mancato. Non era venuta meno solo una parte di me, dei miei ricordi,ma di un mondo e di un’epoca. Compresi che Bologna non sarebbe più stata la stessa. Nemmeno io, del resto, sono più quel Federico. 

 

 

© Federico Cinti

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Omaggio a Martin Mesnart

 

Lo ammetto: per me ha un fascino tutto particolare l’acrostico, quel nascondimento misterioso che impreziosisce taluni componimenti poetici. Per qualcuno altro non sono che esercizi di stile; io, per me, credo sia l’espressione di una complessità che si svela solo ai lettori più acuti, una sorta di dialogo segreto tra poeta ed esegeta. È un tocco di raffinatezza artistica o parte della personalità.

Conoscendo questa mia passione, un amico, Francesco Pieri, mi ha segnalato il prologo – vogliamo chiamarlo così? – dell’edizione parigina, risalente al 1545, di Tertulliano a cura di Martin Mesnart. Un nome noto, questo, non c’è che dire. campeggiava latinizzato, mi suggeriva l’amico, sul frontespizio, come se io non fossi in grado di accorgermene da solo.

Mesnart lo avevo incontrato parecchie volte durante gli anni di dottorato, quando mi occupavo dell’Adversus Marcionem di Tertulliano. Ed ecco che un giorno proprio Mesnart mi è venuto a cercare, mi ha tirato per il braccio e mi ha detto: «E adesso che facciamo?».

Chissà, voleva che io lo traducessi, quasi io dovessi riportarlo in vita. Il testo è in trimetri giambici puri: lo dico per i puntigliosi, ma significa poco o nulla per i più. Mi sono sentito in obbligo di abbozzarne una versione, un po’ come riuscivo. In qualche modo, pensavo, glielo dovevo.

 

 

Molto oggi ti è di pro, lettore candido,

Ardente mio lettore, e mi pare utile

Ridirtelo: è di pro senza alcun dubbio.

Tertulliano ti ho offerto in un libro unico,

Io, senza errori, senza alcuna macchia:

Non dico, sai, l’autore, ma la sua opera,

Voluta e avuta dai più dotti in pregio,

Sempre in mano a Cipriano per lo studio,

Misconosciuta e in grande parte persasi

E per te viva adesso oltre ogni lapide.

Se leggi, ti stupisci. Tra le pagine

Notare puoi quanto gli altri teologi

Anteceda in sentenze e in fiori e in varia

Raffinatezza nello stile nobile.

Tu godine: è il mio dono. Stammi al meglio.

 

 

A proposito, sarà meglio che io riporti pure l’originale: questi studiosi sanno essere alle volte alquanto permalosi. Io almeno lo sarei parecchio se qualcuno citasse un mio testo senza poi riportarlo.

 

 

Multum dies haec ipsa (lector candide

Ardensque lector) commodi tibi attulit

Rursusque dico commodi multum attulit.

Tertullianum tandem tibi habes integrum

Ipsumque cunctis expiatum sordibus:

Non dico ego authorem sed authoris opera

Viris disertis habita summo in pondere

Subtili ad unguem Cypriano cognita,

Magnoque magna ex parte lapsa tempore

Et consepulta nunc reviviscunt tibi.

Si legeris, mirabere. poteris interim

Notasse quantum caeteris theographis

Antestet et sententiis et floribus

Rerumque varietate quam gratissima:

Tu fruere lector munere, et faustus vale

 

 

Qualcuno, ovviamente lo stesso amico che mi ha segnalato l’acrostico, ha detto che la mia resa ha superato l’originale. Può darsi, ma non oso nemmeno ripeterlo. Ne prendo atto con un certo compiacimento. Mesnart si è dileguato, come i sogni della mattina, vividi eppure evanescenti. Il lettore, ogni lettore, ha spesso più responsabilità dell’autore. Io mi limito a fare il mio lavoro. Sono in fondo un mero esecutore.

 

 

© Federico Cinti

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“Nevicata”, I premio al concorso “Lampi di poesia”

 

Non so come, ma una mia poesia si è classificata prima alla 5^ Edizione (2020) del Premio Letterario Nazionale “LAMPI DI POESIA | SLUSSI ‘D POESÌA”,nella sezione A.1 | Poesie brevi in Lingua italiana, indetto dall’Associazione “Monginevro cultura” di Torino.
Ne ripropongo il testo, non perché sia stato premiato, bensì perché mi suscita ancora tante emozioni a rileggerlo.

 

 

NEVICATA

 

Grigio il giorno. Per l’aria un tetro gelo.
Inizia a nevicare senza fine.
Non un suono. Su tutto un bianco velo,
equilibrio di mille antiche trine.

 

Vaga un’ombra di pace per il cielo.
Ride il cuore. Sull’ultimo confine
abita una speranza, come in stelo
fiore sbocciato appena tra le spine.

 

Aria di festa. Tutto trascolora
rapido allo spettacolo. La neve
oggi è visione che stupisce ancora.

 

La sospensione scende lieve lieve
fra di noi, ci sostiene, ci rincuora,
in questo tempo che si è fatto breve.

 

 

Di seguito il giudizio della giuria, che ha decretato Nevicata come miglior sonetto in competizione:

Sonetto metricamente perfetto, tra il pascoliano e il crepuscolare, i cui versi trasmettono speranza, come un fiore appena sbocciato tra le spine.

 

L’unico giorno in cui ha nevicato, l’anno scorso. Un’atmosfera incantata ha cominciato ad ammantare ogni cosa. Lungo la via un silenzio senza fine, come se tutto si fosse fermato. Era venerdì, il 13 dicembre, il giorno di Santa Lucia. A un tratto mi pareva d’essere tornato bambino: il sogno s’avverava di nuovo. Bologna vestiva un abito di trine per la festa.
Ne ho fatto versi per i miei studenti: la mattina a scuola avevamo parlato di sonetti e di acrostici. Piacque molto, un dono inaspettato per tutti, in primis per me. La madreperla del cielo riluceva nel lieve candore dei fiocchi in una sospensione fuori del tempo.
Anche agli amici piacque molto. Un giorno come gli altri, ma diverso. Non allegria, ma un vago senso di nostalgia per la purezza che andava ricostituendosi, come se i frammenti del mosaico ritrovassero la loro primordiale collocazione. Eppure, tutto era così semplice.
Il premio dovrebbe essere dato allo spettacolo che la neve è riuscita a suscitare in noi. Ogni volta è così, una nenia che si riascolta e che commuove una parte di noi forse dimenticata. Dico forse, se riaffiora con placida meraviglia. Lo specchio appannato a un certo punto restituisce il suo tesoro di sospensione e così è possibile smarrirsi nella fantasia e nella poesia che permea il reale.

 

 

© Federico Cinti
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Saluto finale

 

L’ultima campanella, suono vano

smarritosi nel cuore. Corre l’ora

con noi. Passa ogni istante. Piano piano

il volto dei ricordi trascolora

 

più d’una vecchia foto. È ormai lontano

il liceo, ansia del giorno che divora

inesorabilmente. Eppure, è strano

volgersi indietro adesso, in quest’aurora

 

di luce nuova. Il dado è stato tratto:

ogni evento procede con o senza

rimorsi. Tutto quanto è stato fatto

 

nel migliore dei modi. Altra partenza,

altro arrivo, chissà, sogno distratto

di questa troppo breve adolescenza.

 

 

Un saluto, l’ultimo forse, simile alla lunga, infinita ombra nera della sera, un ricordo che si fa malinconia del tempo che trascorre. Ecco, un tempo non che è trascorso, ma che continua a trascorrere, quasi indifferente, come se ogni istante fosse simile al precedente. Una linea separa i giorni, distingue i momenti. Un passo ancora e tutto trasfigura, eterna metamorfosi del presente. Tutto si fa memoria, ricordo impercettibile: le voci, i volti, i riti di un’età che non tornerà mai più. Non mi è mai parso così vero ciò che canta il buon Orazio: «dum loquimur, fugerit invida / aetas» (carm. I 11, 7-8).

Il tempo si sconta istante per istante: «la morte / si sconta / vivendo» (G. Ungaretti, Sono una creatura, 11-13). Ogni giorno muore, ogni istante: il viaggio comincia col suo carico d’attese. Poi, impercettibilmente, si giunge a destinazione e tutto s’annulla in un «punto acerbo / che di vita ebbe nome» (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Volgersi indietro non è possibile: Orfeo perderebbe di nuovo Euridice, Narciso rifletterebbe per sempre se stesso sulle acque della vanità. Meglio allora è continuare, dimentichi di sé. «Le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni» (E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, 5-6) servono a ingannare l’ineluttabilità dell’essere.

Quell’ultimo saluto che non è più rito, se mai lo è stato, sul confine dei mondi, interrompe la catena, spezza il quotidiano e diviene nostalgia, dolore di un ritorno impossibile. Va voltata la pagina: non si può trattenere. Altri mondi, altre realtà attendono l’ansia di conoscenza, l’antica nostra curiositas. Tutto ci parla di questo viaggio interminabile, chissà dove, chissà come. Solo noi ne siamo i protagonisti, a «scendere e […] salir per l’altrui scale» (Par. XVII 60). eppure, lo sappiamo, nulla è invano. Qualche cosa avrò rappresentato anch’io nel mio piccolo.

Con questo animo penso ai miei studenti, inconsapevoli compagni di un viaggio giunto a destinazione. Li vedo uscire, di spalle, a uno a uno. So che non torneranno, che il loro tempo al liceo è concluso, come l’ultima ora del sabato, quando ogni aula si svuota e a un tratto piomba un silenzio d’inquietudine. Il cuore si fa piccolo piccolo. Nello sforzo di renderli uomini e donne, li ho tramutati soltanto in ricordo. E io pure per loro, adesso, sono solo e per sempre ricordo.

 

 

© Federico Cinti

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Nel vecchio asilo

 

Aleggia il giallo tenue. Una vertigine

mi sorprende, stupita meraviglia

di quella prima volta.

Tutto già fu. In un alito

 

dilegua la memoria. Lungo il ciglio

del prato i miei ricordi si rincorrono

come bimbi. Una bici

cigola impercettibile

 

scivolando veloce fino a perdersi

alla vista. Al sussurro di Filèmone

Bauci echeggia stupita,

mentre intorno è silenzio.

 

Il languore del giallo mi s’insinua

in ogni fibra. L’anima s’inebria

di vita. Intenso esala

dovunque, alito fragile

 

oltre la rete. Freme un desiderio

d’eternità. L’azzurro si ritaglia

in me il suo spazio. È l’oro

dolcissimo del tiglio.

 

 

Non vi è giugno in cui io non mi sorprenda al giallo dei tigli. Ogni volta mi stupisco di quell’ebrezza così impalpabile: circonda il mio piccolo angolo di cielo, costeggia i miei ricordi, mi stringe in un appagato stordimento. E mi sembra di tornare bambino, quando mi fermai per la prima volta a quel soffio leggero. Memorie antiche, così fresche, sempre così attuali. Nella ciclicità del tempo tutto si fa possibile, anche un istante di felicità.

Nel mio vecchio asilo dietro casa gli alberi sussurrano ancora antiche favole, eterni miti conosciuti da sempre e di cui non intendo mai veramente il mistero: li ascoltavo echeggiare dopo i giochi d’allora. Eppure, lo stupore rimane intatto. Tutto resta immutabile, fitto in un reliquiario fuori del tempo, in un groviglio senza età.

Oggi, che il vecchio asilo sotto casa non c’è più, riscopro quel richiamo, eco di un’eco nella memoria che cerca di conservare se stessa per difendersi dagli specchi della riflessione involontaria. Un’immagine ride. Nel silenzio degli anni resta fisso lo sguardo a quel perché delle cose. Fissare, non guardare, per non perdersi: il senso non ci è dato e non ci è tolto, ma si trasfigura in una dimensione d’ombra verso cui tendere le mani inconsapevoli.

Forse è nel giallo dei tigli che continua a vivere quell’io che ormai non sono più. Un segno lieve, una carezza involontaria mi risveglia dal torpore, non per volgermi indietro, bensì per guardare una realtà a rettangoli oltre la rete, oltre il limite di ciò che mi è dato sapere. 

 

 

© Federico Cinti

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Rosa rosae

 

Ti ricordi quel piovere?
Anche ieri pioveva. In quel prodigio
la tua presenza eterea,
così consolatrice, così unica.

 

Un alone di grazia
ti circondava, simile a una nebbia
aurea. Un sorriso tenue
dietro quel velo timido, impalpabile.

 

Dopo, un pallido raggio,
filo sull’infinito a cui appendersi
ancora per non perdersi
mai più, rosa dolcissima di maggio.

 

 

Ha un che di malinconico la pioggia. Non so perché, ma ne avverto tutto il fascino, come se mi si impregnasse nell’anima. Chissà, anche a te piace, memoria ancestrale di un giorno lontano. Anche a te dico, piccola rosa di maggio, dal soave profumo inafferrabile. Mi sento addosso il suo fascino, un’ebbrezza estatica, come il sorriso del crepuscolo che muore, come canta il poeta «M’è lontano dalle ricciute chiome, quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore, / come il sole: bello, ma bello come / sole che muore» (G. Pascoli, solon, 49-53).

Ecco, forse è quel senso di precarietà a renderla così suggestiva, così fuggevole, proprio come la tua bellezza effimera, rosa, sempre sul punto di sfiorire. Vana consapevolezza, questa, di camminare su una sottile ombra, in bilico tra il tutto e il nulla.

Era madreperla il cielo pure quel giorno, anche se tu non ricorderai, quel giorno in cui ti vidi per la prima volta. Pioveva. Sembrava non dovesse finire mai. Noi lì sotto ad attendere, sotto un piccolo ombrello in attesa dell’asciutto. E pioveva anche quando ti ho rivisto, eterno fiore di maggio, quando spandevi il tuo soave profumo tutto intorno, pochi giorni or sono.

Hai un che di malinconico, sai, rosa? Non a caso ti studiamo declinare a poco a poco, fin da ragazzi, quando impariamo a parlare una lingua immortale, la tua lingua. Perché in te, lo sappiamo, c’è la bellezza vera, rosa di maggio, rosa che non dici se non la verità delle cose e di noi: «rosa della grammatica latina / che forse odori ancor nel mio pensiero / tu sei come l’immagine del vero / alterata dal vetro che s’incrina» (M. Moretti, Elogio di una rosa, 1-4). Ti ho cercata, senza mai smettere di sperare, e infine ti ho trovata. Tu sei così speciale. Non so dirti il perché: non c’è un perché. La tua essenza è la bellezza nella caducità. Forse questo è l’amore, è l’attimo che si fa eterno, mentre distilla l’anima tra il fluire che diluvia e salva.

Ora che ti ho trovato, rosa, credimi, non ti lascio più. 

 

 

© Federico Cinti

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Arrivederci, Leonina

 

Un filo la memoria:

esile s’assottiglia nel ripetere

lo stesso gesto semplice,

Leonina, tra le dita che si torcono.

 

Tu voce nel silenzio,

adesso, non più rauca tra le pagine

pallide d’una storia

che non ha un prima e un poi, tu puro spirito.

 

E ti risento leggere,

con piglio inquisitore, ogni interstizio

del cuore, fino all’anima

di chi avevi di fronte in pura immagine.

 

Eri in grado di ridere

d’ogni cosa, ma non di questo vivere

nostro, nel desiderio

dell’assoluto in noi che mai si sazia.

 

Il tuo saluto, l’ultimo,

estremo insegnamento di quell’essere,

come è giusto, nell’attimo

che si fa eterno e appaga ogni inquietudine.

 

 

E non mi pare vero, a distanza ormai di nove anni, che Leonina ci abbia salutato nel silenzio del suo raccoglimento. Era l’Ascensione, una limpida domenica d’inizio giugno del 2011: un volo di farfalla che si libera e libra dal gravoso involucro nell’aria tiepida. 

La ricordo da sempre, Leonina: era la mamma di due miei cari amici. Io la chiamavo confidenzialmente «la Professoressa». La vedevo alta, solenne, dalla voce profonda e riflessiva. Ne avevo forse un timore reverenziale. Ma era la verità: insegnava italiano e storia.

Fumava molto, fumava sempre: le dava un che di cogitabondo. Chissà, una maschera, un modo di guardare al di là senza essere vista.

Solo crescendo ho imparato a conoscerla. Per me restò «la Professoressa» anche quando mi trovai, per uno strano gioco delle parti, a ricoprire il suo ruolo. Già, perché lei andava in pensione e io prendevo servizio. Lo devo ammettere: davvero un beffardo passaggio di testimone. Ne era contenta. O almeno credo.

Non lo sapeva, ma mi aiutò molto; nemmeno io lo sapevo, del resto, ma penso d’averla aiutata parecchio. Le parve quasi di tornare a scuola, mentre mi prendeva per mano e mi lasciava in eredità i suoi segreti, potrei dire i ferri del suo mestiere che non smetteva mai di affilare per vieta consuetudine o per piacere intrinseco, anche se questo proprio non l’ho mai capito. Era troppo ironica per lasciar trapelare qualche cosa di definito. In questo ci assomigliavamo. Trovai in lei il mio specchio: osservandola, capii molte cose di me. Fu come una palestra in cui ritrovarci e ritrovarsi.

Le avevo spiegato con rassegnazione che non era il mio sogno, quello, ma lei mi ripeteva con voce trasognata: «A me piaceva tanto». E si capiva fin troppo. Io lo capivo.

Oggi mi restano questi ricordi di lei, tanti affondi letterari: «Non sai quanto ho studiato», amava ripetermi. O forse lo ripeteva a se stessa.

Anche lei, credo, in qualche modo si rispecchiasse in me, perché mi confidò che di certe cose poteva parlare solo con me. Privilegio per pochi scivolare sulla china dei libri fino a perdersi. E ci perdevamo sul serio tra una lettura e una riflessione, tra una battuta e un caffè. Quanto le piaceva il caffè, ma non quello del bar, perché «era poco». Non ce la faceva a non chiudere con un graffio. Lei avrebbe detto così ed è espressione che faccio mia, forse perché in fondo è mia, mi appartiene, come i ricordi, come i suoi eterni ritardi. 

Eppure, il 5 giugno non giunse in ritardo all’appuntamento. Si era preparata a quel giorno con grande meticolosità, da tempo. Sapeva che era inevitabile, ma non era questo che l’assillava. Doveva arrivarci come a lezione, senza lasciare nulla al caso. In fondo i compiti le aveva già svolti da tempo.

L’avevo vista l’ultima volta il 15 dicembre e già non stava bene. Mostrava qualche cosa di inafferrabile: un velo la appannava. Eravamo nella sua cucina a sbrigare le solite incombenze della correzione, per me un flagello, per lei una delizia. Poi più nulla, un’eclissi ineluttabile. La rincontrai tra l’odore dei tigli solo il mesto giorno dell’addio, che ha in sé l’idea che tanto le stava a cuore, «a Dio». La sua meta era raggiunta: tutto era compiuto. 

E con questa certezza la saluto. Ti saluto, Leonina, un’altra volta.

 

 

© Federico Cinti

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