A Stefano Orlandi

 

Sogno di sogni, immagine lontana

tra le ombre. Tengo il filo di un ricordo,

ennesimo saluto. S’addipana

fra le dita. Rimasto qui, sul bordo,

 

attendo un segno. Nel silenzio sordo

nulla pare. La via diventa vana,

orma dopo orma. Eppure, non demordo:

odo un sibilo. Il tuo? L’ansia risana.

 

Ride il tuo riso il giorno. Esile un raggio

lambisce il vento fresco del mattino.

Apre l’occhio ceruleo all’infinito

 

nel prato il cielo. Nulla si è smarrito.

Dall’anima un singulto. Quel cammino

insieme non finì, prosegue il viaggio.

 

 

Tu rideresti, lo so. anzi, ti sento proprio prendermi in giro. Queste derive romantiche – così le definivi – non ti erano molto congeniali. Almeno a parole. Sì, perché in fondo ti facevano piacere: vellicavano il tuo amor proprio. Non che tu fossi un narcisista; anzi, tutt’altro. dico solo che sentirsi apprezzati è bello, anche se mette un po’ a disagio. Ma vuoi che non lo sappia? Anche a me succede, quando qualcuno per mia somma delizia e profondissima disgrazia mi fa qualche complimento. Non amavi esternare troppo. Non era un delitto. Chissà, forse era addirittura un pregio: dimostrare ciò che si prova non semplicemente a parole, ma con la vita, credimi, non è da tutti.

Anche avere la fortuna di averti come amico non è da tutti. Lo ammetto con umile orgoglio, soprattutto oggi che è il tuo giorno. Molte volte mi rispecchio in te, nel senso che mi ritrovo non solo in quel che mi dicevi, bensì soprattutto in quel che facevi. Ci sono arrivato dopo, da solo. Questo mi resta più di tante altre cose che pure, nei due anni dacché ci hai lasciato, ho tentato di non dimenticare. Non siamo in ciò che diciamo, bensì in quel che non diciamo, perché le parole hanno un’ombra. Solo chi riesce a vedere l’invisibile possiede il significato ultimo delle cose. Tu ci riuscivi benissimo. Io non lo so, ma mi avresti senza dubbio consigliato di svestire i panni cattedratici. Sai che mi dava fastidio e così affondavi il dito nella piaga. Ma tant’è: qualcuno lo doveva pur fare: era uno dei tuoi tanti sproni.

 

 

 

Adesso anch’io ripeto che «avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento» (E. Montale, Avevamo studiato per l’aldilà, 1-2). Ti ho sempre detto che i poeti parlano non solo di noi, ma per noi. Era un motto che avevi fatto tuo. Forse per rispetto a me, che tante volte provavo a dedicarti qualche poesia, come oggi, che è il tuo giorno. So che l’aspettavi. Ah, certo, non da te: amici me lo hanno detto. Alle volte strapparti una parola era arduo, soprattutto se si aveva bisogno di una risposta a un dubbio inestricabile. Lì per lì non capivo quasi mai il tuo ragionamento. Era come se rivelassi un segmento del tuo pensiero, senza il prima né il poi. Occorreva ricostruire la via tortuosa che portava, se portava, alla soluzione. Già, perché – e anche questo ci ho messo un po’ a comprenderlo – le risposte che cercavo le avevo già e tu mi aiutavi solo a farle riemergere.

Adesso è un po’ più faticoso, adesso intendo che sono io a tenere in mano il «filo» che «s’addipana» (E. Montale, La casa dei doganieri, 11). Siamo tutti in un labirinto: questa è la verità e la memoria non è sempre un filo attendibile. Saperti qui in alcuni momenti mi basta. O mi basterebbe, se ti sapessi ancora a Savigno, col gatto sulla poltrona e le starne che ripetono quel verso che tanto ti faceva trasalire, soprattutto quando la primavera era in rigoglio. Nel tuo giorno appunto, nel tuo mese, quando tutto ricomincia o mostra che non era finito nulla. Ecco, adesso è così, nella ciclicità del ricordo, dei tempi, delle stagioni. Il viaggio non finisce, finché qualcuno continua a ricordare. E, bada bene, non voglio sembrarti patetico: non lo sopporteresti.  

 

 

 

© Federico Cinti

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Confessione

 

Tutto era nulla. A un tratto azzurro un grido:

il senso, ora svelato all’improvviso,

aveva la tua voce, il tuo sorriso.

Mi ritrovai. Dolcissima, sul lido,

 

oasi di pace chiara, antico nido

la tua presenza eterea. Nel tuo viso

ombre di sogno, eterno paradiso,

sapevano di gioia. A te m’affido.

 

A te si schiuse l’anima, rinacque

il cuore. Tra le tenebre il respiro

breve del tempo diventò infinito.

 

Eri lì. Toccai il cielo con un dito.

Non ti lascerò più, lieve sospiro,

estasi d’un naufragio in auree acque.

 

 

il tutto e il nulla, fusione d’inizio e fine, mi stringono e costringono nella loro circolarità. Intorno tutto ruota sull’inconsistenza immateriale del punto sull’infinito spazio del piano. È lo stesso che pieno e vuoto. L’illusione si veste d’azzurra lontananza, grido che squarcia il silenzio in cui talvolta si rischia di cadere. Eppure, a un tratto, ci si ritrova, ci si trova di nuovo, anche noi «per una selva oscura» (Inf. I 2). Ritrovarsi così, nel buio, non nella luce chiara, miracoli e contraddizioni di ciò che ci circonda, appunto, in una ciclicità che è la cifra del nostro essere nel tempo. Forse anche nello spazio, in quel piano determinato dal punto in cui ci si trova e ci si ritrova. Veramente le parole sono nere, buie. E poi quel buio e quel nero divengono luce d’incredibile bellezza. Si fanno voce, si fanno riso, si fanno realtà tangibile e appassionante.

In quell’azzurro, «interminato / spazio» dove «il naufragar m’è dolce» in quanto «mare» (G. Leopardi, L’infinito, 4-5 e 15), ritrovai le «chiare, fresche et dolci acque» (Rvf CXXVI 1) su cui «scintilla, / in testo di scaglia / come l’antica / lorica» (G. d’Annunzio, L’onda, 2-5) il lampo d’una vertigine. Nulla più fu come prima. Tutto trasfigurò se stesso in una soavità chiara, limpida, quasi fuori del tempo. Era possibile, allora, incontrare l’assoluto? Dentro e fuori di me, certo, come vedendomi dall’esterno, con occhi altrui. Fu una gioia immensa, una grazia cercata e insperata. Era un porto tranquillo, voce di madreperla che mi chiamava a un altrove, tuttavia presente e immanente, perché «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Era sogno e realtà insieme, dolcezza che distilla, profezia di Sibilla che s’avverava su quell’onda.

 

 

 

Fu così che tutto mutò in me, che io mutai nel tutto. In alto, in alto, in un lontano cielo, mi sentivo librare e liberare. Il mio dito toccò l’immensa cupola celeste. Già Orazio mi aveva preceduto colassù, cantando «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36), nella più vasta felicità possibile, tra la poesia dei numi e delle Muse. E così cominciò la rincorsa per ritrovare quel primo istante, quella leggerezza senza fine del volo verso le stelle. «Mi ritrovai per una selva» chiara, ti ritrovai nel vortice delle ore, punto fermo dell’eterno fluire. Anch’io rimasi «col trasognato viso di chi sogna» (G. Gozzano, Un’altra risorta, 16) davanti a quel miracolo d’eterea leggerezza. E fu così che il tutto che era nulla divenne una pienezza senza fine.

 

 

 

© Federico Cinti

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A mio padre

 

Addio. Fu il giorno, questo, del saluto.

Mi sentii solo, per la prima volta,

in un silenzio gelido, assoluto.

 

Oggi è ancora così. Pallido il sole

preme tra i vetri. L’anima sepolta

attende tra le primule e le viole.

 

Dopo l’addio, papà, non ci scordare.

Restiamo qui ad attendere, a guardare,

esuli in terra, azzurri il cielo, il mare.

 

 

Noi siamo ancora in via, da quella domenica di ventiquattro anni fa. Non mi pare nemmeno vero, resistere tanti anni con questa spina nell’anima. È il ricordo di te, spina e redenzione. Appunto, noi restiamo qui a continuare il dialogo interrotto quella mattina, nel bianco di un ospedale. Stava per scoppiare la primavera, un po’ come oggi, immersi in questo aulire di fiori freschi. Il prorompere della vita s’affaccia alla finestra nel sole a tratti pallido, a tratti insistente. Ci perdonerai se siamo nella tristezza. Chissà, forse non dovremmo.

La tua seggiola è sempre lì, che ti aspetta da quel giorno. Nulla o quasi, per il resto, è mutato. Perché, vedi, nulla può cambiare. Siamo sempre noi, come in quella fine inverno così gelida. Avremmo voglia di raccontare ancora tutto quello che ci resta nel cuore. Un azzurro intenso ci travalica. Ti sappiamo in quella lontananza senza fine, grande come il mare, dove s’allaga ogni nostro sentire. Qualcuno avrebbe parlato di naufragio. Ecco, noi ci si sente un po’ così, come naufraghi in quel mare dove attendiamo una mano che ci salvi. È l’esilio, nell’al di qua.

 

 

Ti vorrei parlare di tante cose, di ciò che ho nel cuore. Tu l’avresti fatto, senz’altro. Una confidenza in questa luce chiara. Fu così anche per te, credo, all’epoca. Ogni tanto la mamma lo racconta. Una storia che si ripete, che deve ripetersi. Non mancherò di aggiornarti. Il viaggio, lo sai, continua. Tu sei nella stanza a fianco, come già ci ricorda sant’Agostino. È solo un difetto, mio intendiamoci, di percezione. Qualche cosa mi tocca il cuore. Appunto, è quel nostro intenderci nonostante tutto e sempre. mi perdonerai se ogni tanto ti sembro distratto.

Il resto già lo sai. non credo ci sia bisogno che io mi dilunghi troppo. Occorrerebbe divertirsi un po’, come all’epoca. Io continuo, la sera, a mangiare un pezzetto di cioccolata: ho mantenuto quell’insana abitudine che avevamo davanti al divano. Mi rimane quel gusto intenso, forte. Non è tanto, lo so, ma è già qualche cosa. Il viaggio, già te l’ho detto, deve pur continuare in qualche modo. Sul tuo esempio penso di potercela fare. Sappi che prima o poi ti disturberò ancora. Forse non vedi l’ora, ma qui, nel tempo e nello spazio, tutto è tirannico. Eppure, la tua mano tesa la sento. Non voglio lasciarla.

 

 

© Federico Cinti

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Favola di Amore e Psiche

 

Di quel momento fragile mi resta

il tuo sorriso. Il tempo si è fermato

a quel giorno indicibile. Fu festa,

miracolo nell’anima insperato.

 

Ora è in me la vertigine. Il passato

restava muta immagine molesta.

Emozione d’un attimo provato

Eternamente. In me fu la tempesta.

 

Poi il cuore rifiorì di gioia rara

sulla soglia dell’essere. Oltre il velo

invisibile un palpito d’azzurro.

 

Chiuso nella conchiglia il tuo sussurro

ha il vero senso limpido del cielo,

esilio in terra, dolce luce chiara.

 

 

In uno specchio mi ritrovo ancora a comprendere chi sono e chi non sono. È la bella fabella (Apuleio, Metam. VI 25) in cui si racconta il viaggio iniziatico di un’anima. Ha nome, certo, è figlia e sposa. Si chiama Psiche. Anima, appunto. A un certo punto trova sulla via ciò che più di tutto le corrisponde. Trova in sostanza la sua completezza, parte di un tutto scisso per invidia degli dèi. Anche a me è capitato così, non c’è che dire: è successo come a tutti, prima o poi, nella vita. niente di nuovo; eppure, eternamente unico. Tutto mutò in un attimo senza fine. tempo e spazio s’annullarono nella dolce luce chiara.

Una vertigine mi prese, ecco tutto. Avvertii in me la levità del fanciullo che fluttuando confessava a tutti coloro che incontrava: «Oh! Voi non siete il bosco, che s’afferra / con le radici, e non si getta in aria / se d’altrettanto non va su, sotterra!» (G. Pascoli, La vertigine, I 7-9). Uno stato di grazia singolare iniziò a mostrarmi le cose sotto una diversa luce, cambiando in me il modo s’ascoltare e percepire l’universo fuori e dentro di me. Anche i miei piccoli versi presero vita, vera vita in quella tenerezza che completa l’essere fino a trasfigurarlo. Era un candore, lungo quella soglia su cui mi muovevo ormai spinto dalla ricerca di non sapevo bene che cosa. In quel «non so che» trovai la giustificazione al mio travaglio interiore. Era questo, forse, come nel mito, il desiderio d’Amore che la bella Psiche vagheggiava ogni giorno, ogni notte, ogni istante.

 

 

 

Rinacque in me, come un fiore dalla roccia, il senso delle cose, il senso vero, quello che o si prova o non esiste. Molti vagano alla ricerca di ciò che non hanno, senza sapere che tutto è già scritto in loro, nelle eterne pagine di chi ci ha preceduto. È la voce della poesia a guidarci sul sentiero che porta all’assoluto, all’infinito. Un volto luminoso, certo, una voce dolcissima ci attrae. La s’incontra, presto o tardi, e non la s’abbandona più, «come in conchiglia murmure di mare» (G. Pascoli, Alexandros, IV 36). Così rivissi il mito, rivisse in me la bella fabella che narrava di un tempo fuori del tempo. Nulla fu invano. Attendo ancora sulla soglia immota il giorno in cui quest’anima, l’antica Psiche, potrà congiungersi per sempre con Amore. Sarà un giorno di festa senza fine. la mano è tesa, aperta a ricevere quella così amata. La poesia, come una corona, cingerà il capo della principessa. Una corona è pronta già nelle mie mani, dono estremo di questo altissimo sentire che mi ridonò la vita.

 

 

 

© Federico Cinti

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Dal primo giorno

 

Sorrisi. Il giorno naufragò all’incanto,

eternità dell’attimo sepolto

in quella sospensione. M’eri accanto:

tutto vanì alla luce del tuo volto.

 

Ultima linea, l’ansia dell’ascolto,

lontananza dell’anima in un pianto

antico di un piacere mai risolto.

Mareggiò il cuore, schianto dopo schianto.

 

Infinità dell’essere sul ciglio

ancestrale del tempo e dello spazio

la voce chiara tesa all’assoluto.

 

Urgenza d’una soglia, d’un saluto,

chiamò, mi richiamò, di te mai sazio.

Eri lì, rosa rossa, bianco giglio.

 

 

Non so, mi capitò proprio così, senza volerlo certo, senza cercarlo. Nelle situazioni ci si trova, tutto qui. Penso lo sappia bene pure tu. Non si è sempre nello stesso stato d’animo; eppure, a un tratto il velo si squarciò nel mezzo e m’apparve il tesoro prima nascosto. Impossibile prevederlo. Nemmeno tu, credo, lo immaginavi. Un tuffo in un mare inaccesso, immensità non più così lontana. Voci e colori si fusero insieme, inscindibile realtà ormai nel ricordo di quell’attimo. Eternità dell’attimo, «punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 17-18). Trovarti fu un dono insperato, l’improvviso sbocciare di una rosa.

 

Il cuore poi «rimareggiò rinfranto» (G. Pascoli, Il tuono, 5), scosso da un turbamento luminoso. Era la voce chiara, la tua voce chiara, di madreperla. La visualizzai così, tra il tumulto dell’anima. Di qualche cosa si parlò, forse di quella «felicità nuova», data dall’indistinto «non so che» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, 24) che mi s’agitava dentro. Non te ne accorgesti nemmeno. O forse sì? Prima o poi cercherò di scoprire l’arcano tra le pieghe di quell’indecifrabile mistero. E fu come la commozione, allora come adesso, immaginarti «sì che par tu pianga, / ma di piacere» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 98-99).

Dal primo giorno, vedi, sei la mia luce. La poesia crea e ricrea incessantemente ciò che la logica tende a distruggere o a ottundere. Sia qui o altrove, come eravamo quel giorno fuori del tempo, «chi sa dove, chi sa dove!» (G. d’annunzio, La pioggia nel pineto, 94), resta il fragile stupore di qualcosa che ci sopravanza e ci trascende. Tu lo sai, io lo so. una gioia leggera permea ancora ogni istante. Non si fugge dall’essere. Purezza incalcolabile è il tuo volto di una rara bellezza. In quel candore diafano tutto risplende, la stella diana, «nunzio del giorno» (G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 4), e la purezza limpida del giglio.

 

 

 

 

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Euridice e Orfeo

 

Eco di un’eco. Per le scale il vento,

urlo azzurro di nuvole lontane.

Restai solo. Nel tacito sgomento

invisibili addii, immagini vane.

 

Dov’eri? dove sei? Parole insane

in un sussurro al lume quasi spento.

Cantai struggenti melodie profane,

esilio di dolcezza e smarrimento.

 

Eri in me, sei nell’anima. Il tuo volto,

ombra di luce, chiara sinfonia,

rampolla al tempo sempre troppo breve.

 

Fummo e saremo, candidi di neve,

estasi eterea, limpida poesia,

oggi e in eterno. In me ti sento e ascolto.

 

 

Tu davvero così sparisti a un tratto, Euridice, o almeno mi sembrò che tu sparissi. Il tuo nome era un sospiro nell’aria azzurra del mattino. Una soglia invisibile, un sussurro. Non so se fu un addio. Fu il desiderio di rivederti presto, al di là dei frammenti di vita che si ricercano tra la ghiaia del cortile, simili ai mille pezzi di vetro dopo la sostituzione della veranda. A un tratto anch’io mi sentii «contento che questo fosse un lavoro di quelli che non possono mai essere finiti, perché, veramente, credo che sarebbe molto triste finirlo, e trovarsi con un’anima che possa stare tutta in una mano. Ho pensato che ogni parte dell’anima sia tutta l’anima intera, e che l’anima intera sia composta di una quantità infinita di parti, come i frantumi dei vetri, la ghiaia, la superficie del muro» (G. Mozzi, Vetri.). e così eri tu, Euridice, oltre la scala al margine del giorno. Eri lì, ti trovai, ti ritrovai. poi quasi il nulla, «nella notte nera» (G. Pascoli, Il lampo,).

Scesi in quel gorgo rapido che inghiottiva ogni cosa, per quella scala d’infiniti passi. M’accompagnava il canto che sgorgava come zampillo lucido fuori e dentro di me. Nulla più fu come prima, nulla più poteva esserlo. Eri tu il canto, Euridice, chiara luce nel pozzo senza fine in cui «cigola la carrucola del pozzo», in cui «l’acqua sale alla luce e vi si fonde» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1-2). Non era un sogno ritrovarti ancora, ma una necessità. Da te, dolce driade fuori del tempo, attinsi l’interminato flusso di parole, di pensieri, di passioni. Tutto fu luce, tutto fu risveglio, al suono melodioso della cetra. Anche il tuo volto riapparì come un miracolo tra le ombre. Non potei più essere quello che ero prima né lo potrò mai. sei tu la mia poesia, perché in quel porto di quiete «vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 1-2).

 

 

Tu e non altri, tu prima e io secondo, nell’infinita corsa delle ore. L’aria limpida, l’azzurro oltre le case, il senso d’ogni istante che oscilla tra l’essere stato e il non essere ancora: questo sarà in noi, questo intorno a noi. È il senso dello specchio, immagine riflessa e conosciuta, tra quei vetri infranti in mezzo alla ghiaia sulla metamorfica liquidità del tutto. È questa, forse, l’unica certezza nell’eterno «panta rhei». Euridice, chiara gioia è il tuo vivere oltre i secoli, nel canto che perpetua senza fine. e allora anch’io ripeterò senza stancarmi: «Che farò senz’Euridice? / Che farò senza il mio ben?» (R. de’ Calzabigi, Orfeo ed Euridice) sulle note dell’immortale Christoph Willibald Gluck. Non sei tra le ombre gelide, perché sei la vita stessa che continua per sempre, non come vorrebbe l’ombra ingannatrice di Pavese che, nel suo racconto, impassibile confessa: «Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. […] S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela» (L’inconsolabile) in Dialoghi con Leukò,. Tu, Euridice, sei la vita, non la morte.

È l’attesa di «riuscire a riveder le stelle» (In. XXXIV 139), insieme, noi, senza più il gravame che ci opprime. Anche questa è poesia, il ritmo delle pulsazioni che creano e ricreano costantemente ciò che siamo e che vogliamo essere. Attendo, sì, attendo quel giorno in cui al sommo di quella scala potremo andarcene liberi dai vincoli, dalle costrizioni, da colpe che non ci appartengono. In questo s’apre e chiude l’eco del vento, voce di madreperla nella conchiglia dell’anima. L’inverno termina ormai in una sottile primavera di colori. Il più bello sei tu, mia euridice, finissima dolcezza tra le nuvole, dove il cuore «’nverso ’l ciel più alto si dislaga» (Purg. III 15). In te la luce chiara è un sogno che diviene felicità reale.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Mauro in memoriam

 

Mi aspettavi, lo so. Non me ne accorsi.

Aspettavi di spalle. Lo imparai

un po’ per volta, dopo, tra i rimorsi,

ruggine ormai.

 

Osservavi la vita. Sulla via

vecchie maschere intrise di ricordi.

Era così che andava, l’ironia

nei tuoi precordi.

 

Tutto già fu, Nel portico l’azzurro

umbratile del giorno, fioco lume.

Rare le voci, timido sussurro

adesso il fiume.

 

 

entrai per sbaglio, sempre ammesso – è ovvio – che lo sbaglio esista, lo sbaglio di natura intendo. Eri di spalle, nel primo tavolino di sinistra. Tenevi circolo assieme agli avventori di una vita. chissà perché, poi, prima di allora non ci ero mai entrato al Caffè Margherita, all’incrocio tra la Porrettana nuova e la Porrettana vera. Era il 2009 o giù di lì. Ora che sei al di fuori del tempo non importa, ma a noi esseri cronici un po’ sì. In verità, credo non t’interessasse nemmeno allora, quando eri dei nostri. Dei nostri, insomma: eravamo noi piuttosto a essere dei tuoi. Io, almeno, mi sentivo così. Mi sentivo di conoscerti da sempre. anzi, no: eri tu che mi conoscevi da sempre, anche se la soglia la varcai per sbaglio quando ero grande. Già, ma grande rispetto a che? Forse, e tu lo sapevi bene, non sono mai cresciuto del tutto. Tu mi aspettavi per cominciare il dialogo che si è interrotto solo quando hai deciso, strano gioco del capocomico, di uscire di scena. sì, perché è tutto «una grande pupazzata», per dirla con Pirandello. E tu di maschere te ne intendevi, perché avevi la capacità di vedere al di sotto e al di là dei personaggi che entravano al bar. Chissà, il sommo capocomico eri tu, da dietro al bancone, in cui ti muovevi furtivo come un gatto sornione.

Mi dicesti qualcosa, ma non chiedermi che cosa. Il dialogo non è fatto sempre di cose che si dicono. Più spesso mi accorgo che è ciò che non si dice l’autentica corrispondenza di sensi. qualcuno scomoderebbe la visione del mondo, ma vedere o non vedere è solo una condizione estemporanea. Ti piaceva dissacrare, esercizio in cui del resto mi ritrovo benissimo pure io. Da dietro le ciglia si vede ciò che è invisibile agli occhi. Tu lo sapevi. Per questo, credo, mi aspettavi. Non potevamo non incontrarci. E infatti il varco era proprio lì, sotto il portico, luogo pubblico in spazio privato. Era la dimensione in cui si può scorgere ciò che si vuole celare. Perché, non neghiamocelo, anche inconsapevolmente molti celano ciò che non sanno. La tua ironia era un bisturi. Non faceva male; anzi, guariva, medicina dalle ansie, dalle corse, dallo sconforto. Insomma, non ci si poteva non fermare. Col tempo ho compreso che alcuni se la davano come una posa sedersi al tuo cospetto. Erano i tuoi bersagli preferiti, come lo sono i miei.

Ci fu un periodo in cui avevo preso l’abitudine di venire a prendere il caffè la domenica mattina presto, con Davide Monda, il mio amico virtuoso della viola. Ne parlaste a lungo: anche di quello sapevi tutto. Perché, quando entravamo, trovavi sempre il modo di sederti assieme a noi. Non ho divinato se lo facessi con tutti, anche se oggi sono persuaso di sì. Il tempo c’era, nel querulo brusio di tanti altri caduti dal letto come noi. Già, perché ogni orario aveva i suoi avventori e per ogni avventore tu avevi una parola. Non che cambiassi in funzione di chi entrasse, piuttosto era la tua capacità introspettiva a mutare l’angolo di prospettiva con cui scrutavi l’oggetto o il soggetto. Il resto erano dettagli del momento e della circostanza. Tant’è vero che pretendesti che venisse anche lui, anche Davide, il bel pomeriggio di maggio in cui presentammo il mio Bestiario. Ritratti veri di persone false. Correva l’anno 2013. Non ho fatto in tempo a chiederti perché tu abbia chiuso il libretto sul Caffè Margherita proprio con la foto di quel pomeriggio, un paio d’anni dopo. Ero molto soddisfatto di quella scelta e mi bastava. Tutto qui. Pensa che ho ancora cinque o sei copie del testo, in qualche parte della mia libreria dalle amicizie speciose.

Amavi tanto le foto: il Margherita ne è pieno. Sono presenze mute di un passaggio lontano. E pensare che ci sono pure io. E adesso ci sei pure tu, anima silente di quel luogo della memoria. Già, perché, anche quando ci si veniva con Stefano Orlandi, mi pareva di entrare in un’altra dimensione. Non so se anche per lui fosse così, ma non mi chiedeva dove andare: si veniva direttamente da te. Magari tu eri a casa, per riposare, e non ti si salutava nemmeno. Oppure, a un certo punto, uscivi non si sa da dove e così cominciava il siparietto. Ed era così pure con Gabriele Mignardi, il famoso giornalista, cui ogni tanto chiedo pure qualche fotografia del mondo circostante. Me ne manda tante e poi mi suggerisce di buttare qua e là l’occhio, un po’ come facevi tu quando mi dicevi che non ti capacitavi del fatto che io non avessi visto il tavolino che era lì anche prima. Ma ci sta, che vuoi che sia? C’è stato un giorno in cui l’ombra è diventata luce e allora ho cominciato a vederci davvero. Penso sia successo così anche a te, soprattutto adesso che ridendo mi starai guardando scrivere un ricordo di te, come se ce ne fosse veramente bisogno.

 

 

 

© Federico Cinti

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Rosa dolcissima

 

Ridesti, rosso fragile d’un giorno

ormai sfiorito; eppure, la fragranza

si spande più che mai chiara dintorno

all’aleggiare fragile di danza.

 

Dono inatteso, nella lontananza

oscilla ancora tremulo il contorno

lungo la soglia: nella buia stanza

colsi dal mio crepuscolo il ritorno.

 

In me sentii rinascere qualcosa,

simile a un dolce sibilo d’azzurro:

sentii che ero rinato a nuova vita.

 

In quell’istante, sulla via infinita,

mi fermai al tuo profumo, al tuo sussurro,

ai tuoi soavi petali di rosa.

 

 

Uno specchio, una rosa, due anime: nulla di più. Il resto mi pare superfluo o forse è ricordo, eco di un’eco che si perpetua. Nei racconti e nel canto tutto è possibile, «fior da fiore», diciamo pure così. E in quei fiori sta tutta la riflessione, chissà se pure quella dello specchio, riguardo alla soavità e alla caducità. Perché è vero, «la verginella è simile alla rosa, / ch’in bel giardin su la nativa spina / mentre sola e sicura si riposa, / né gregge né pastor le s’avvicina» (L. Ariosto, Orlando furioso, I 42, 1-4), a cui risponde il pappagallo lusinghiero che canta «Deh mira […] spuntar la rosa / dal verde suo modesta e verginella, / che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa / quanto si mostra men, tanto è più bella» (T. tasso, Gerusalemme liberata, XVI 14, 1-4).

Tanti altri si sono cimentati nell’elogio di questo fiore, da Chiabrera a Marino, da Gozzano a Moretti, anche se oggi non voglio vestire i panni dell’amico pedante. Eppure, tutto si perpetua, in un copione che non ha mai fine, sempre nuovo com’è. Forse letteratura, forse vita. è che mi ci metto pure io a ragionarci su e mi rivedo, in qualche modo, agire in un sogno, in uno specchio appunto in cui tutto si fa possibile, perché tutto lo è veramente. La realtà è fantasia e in noi diventa rappresentazione. Il confine non è più così certo né vuole esserlo. Resta il sogno di quella rosa, di un fiore eterno di dolcezza senza fine. e il rosso, poi, vita che fluttua e fluisce nelle vene. Non so, ci nutriamo di simboli; anzi, siamo noi stessi simboli di qualcosa di più grande e di più significativo.

Non di più e non di altro vorrei parlare, quest’oggi, mentre ripasso la «rosa della grammatica latina» (M. Moretti, Rosa della grammatica latina, 1), l’unica certo che non sfiorisce mai. si declina così il tempo e la vita. mi è rimasta addosso, mi è rimasta dentro, come il profumo di quel giorno in cui sulla soglia incontrai quel fiore senza tempo. Un ricordo, intendo, un sogno di cui mi resta il distillare tenue senza tempo. Penso che nulla valga l’immagine inafferrabile di quel fiore. Forse, non è sempre vero che si amano solo le rose che non si colgono. Ma questa è un’altra storia.

 

 

© Federico Cinti

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Voce di voci

 

Voce di voci, sibilo infinito

oltre il blu della notte, un fil di lama

rade l’anima, subito sopito;

resta l’impronta in noi di chi ci chiama.

 

Eterno labirinto, esile trama

in cui si cerca il bandolo smarrito,

plumbea malinconia, il «m’ama non m’ama»,

antico gioco divenuto rito.

 

Risveglia nel silenzio, oltre le porte,

l’ombra silente. Tutto intorno è vano,

Ancora e sempre, al sibilo di vento.

 

Rimbombano i ventricoli, sgomento

tra l’estasi dell’attimo lontano,

in cui intravidi chiara la mia sorte.

 

 

Improvviso quel suono, «nella notte nera come il nulla» (G. Pascoli, Il tuono, 1). Mi svegliai, richiamato da una voce di voci, quella «del rovaio che a notte urta le porte» (G. Pascoli, I gattici, 11), di un vento che sembrava chiamarmi a chissà che misteri. Rimasi incerto in quel silenzio oscuro a decifrare quel groviglio confuso di parole. A tratti solo i sibili invisibili, simili ai miei pensieri. Eppure, mi parve di conoscere l’antico richiamo, fattosi quasi rito nell’eterno trascorrere del tempo. Non più io, «docile fibra / dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31), sospeso in quell’istante infinito. E poi «il languore / / di un circo / prima o dopo lo spettacolo» (G. Ungaretti, I fiumi, 3-5) di cui mi parlasti quel giorno, il primo giorno.

 

 

 

Davanti agli occhi muti una lama di luce chiara, un abbaglio nella notte. E di nuovo quella voce di voci, come gli antichi «fili di metallo» che «a quando a quando / squillano, immensa arpa sonora, al vento» (G. Pascoli, La via ferrata, 9-10). Ed era il vento, credo, era ciò che nel vento dileguava, ciò che forse speravo di sentire in lontananza, fuori e dentro di me, al rito eterno della margherita. E mi ritorna in mente quel contare, «Trenta quaranta, / tutto il mondo canta canta lo gallo / risponde la gallina» (G. Gozzano, La via del rifugio, 1-4). Il rito eterno, eterno tra le dita di quella margherita per cui «m’ama non m’ama». Non so, quasi te l’avrei chiesto in quello spazio in cui si impara che esiste il buio solo perché si è vista la luce, se è vero, per dirla con Pirandello, «che il bujo era immaginario» (Il fu Mattia Pascal).

 

 

 

In questo nostro dialogo, se si poteva chiamare così, tutto mi si rese possibile. non ci crederai. Eppure, in quel vento c’era anche la mia voce. La tua l’avevo già sentita risuonare nei miei precordi, al ritmo di sistole e diastole, tra i ventricoli dell’anima. Perché, vedi, tutto sarebbe più facile se mi fosse dato un momento in cui mettere in scena le mie parole. Ascoltavo quelle altrui, nel momento in cui «e cielo e terra si mostrò qual era» (G. Pascoli, Il lampo, 1). Nella lama chiara di luce, spalancata sul mondo, tutto si rivelò, voce e immagine, tempo e spazio. e in quell’attimo infinito c’eravamo tu e io, voce di voci appunto che si rincorrevano nel labirinto dei nostri corridoi. Nessuna paura, però. Solo la consapevolezza di un essere e di un esserci. In lontananza il fruscio sonnolento degli alberi che raccontavano antiche nenie, miti di miti in cui smarrirsi e ritrovarsi insieme.

 

 

 

© Federico Cinti

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Oblio di sogno

 

Eterea levità, fu il tuo sorriso

Smarrimento d’un attimo infinito.

Tutto successe a un tratto: all’improvviso

una dolcezza sul sentiero trito.

 

Sfiorai il cielo sublime con un dito:

tutto mutò, tutto fu gioia e riso;

ubriaco ormai, mi ritrovai stupito

percorrendo le vie del paradiso.

 

Oblio di sogno, attesa sulla vana

rarefazione al palpito del giorno,

m’incamminai di nuovo oltre la soglia.

 

Eri di luce chiara, eri la voglia

urgente d’un sospiro, d’un ritorno

senza il filo che attorto s’addipana.

 

 

[Sonetto classificatosi al secondo posto al concorso Amore… parole dal cuore 2022 nella sezione metrica]

 

 

Incredibile, forse; eppure, mi è capitato proprio così, come canta Alfredo alla sua trasognata Violetta: «Un dì, felice, eterea, / mi balenaste innante, / e da quel dì tremante / vissi d’ignoto amor. // Di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero, / misterioso, altero / croce e delizia al cor». Non so se sia l’arte a ispirarsi alla vita o la vita all’arte. Qualcuno, dall’alto del suo genio, scrisse che «di natura arte par, che per diletto / l’imitatrice sua scherzando imiti» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI 10, 3-4). È specchio, tutto qui, in cui ci si smarrisce e ci si ritrova a un certo punto. Mi fa sempre sobbalzare il verbo «ritrovarsi», come ci racconta il massimo tra tutti i pellegrini della storia che, «nel mezzo del cammin di nostra vita / si ritrovò per una selva oscura» (Inf. I 1-2). Ecco, così, si ritrovò, come successe a me, davanti a quella luce chiara. Fu un ritrovare me stesso. L’ho capito attraverso i versi di Piave.

È specchio, certo, è soglia che impercettibilmente si supera, senza accorgercene. La realtà ci si mostra per quella che veramente è. Ci si mostra o ci appare, in quell’eterno gioco di deformazioni che chiamano vista, udito, tatto, olfatto, forse pure gusto. Tutto si trascolora, tutto assume un senso diverso e divergente nell’aura in cui ci immergiamo. E si giunge a toccare il cielo con un dito, come confessò Orazio al suo Mecenate, per ringraziarlo di avergli concesso di essere quel che desiderava: «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36). Era davvero l’anima mundi, «di quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero». A quella voce chiara trasalii d’un tratto, come quel Morvàn che «viveva con sua madre in Cornovaglia: / un dì trasecolò nella boscaglia» (G. Pascoli, Breùs, I 1-2). I sogni ci si palesano davanti e noi cominciamo a inseguirli. Così nasce l’amore.

 

 

A volte me lo domando e non posso che rivolgere lo stesso quesito a quella donna meravigliosa: che fu quel giorno? Chiara nell’orecchio ho la tua voce, luce nei ricordi in cui spesso mi specchio e mi rispecchio. Fu il primo giorno, certo, quella prima volta in cui tutto cominciò, quasi per sbaglio. Ecco, appunto, quasi, perché sbaglio non fu, fu certamente segno da decifrare, simbolo da riconoscere, un po’ come il famoso filo che legava Arianna e Teseo. Ora noi diciamo che è la memoria, perché abbiamo nell’orecchio che «un filo s’addipana» (E. Montale, La casa dei doganieri, 11). Sul limite a strapiombo, sulla frontiera che più non si vede, la memoria è un filo che non può non legare. Nel mio caso, almeno, è così, voglio che sia così. Eri «felice, eterea» e «mi balenasti innante»: me lo canto e me lo ricanto. Il più è avere il coraggio di farlo davanti a quell’eterna luce chiara. Ma verrà il giorno: ne sono sicuro.

 

 

© Federico Cinti

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