Intervallo

 

S’aprì un varco. Nell’anima un sorriso

esule. Sulla soglia uno spiraglio

infinito di sogno. All’improvviso

tutto mi si mostrò. Non fu per sbaglio.

 

Urgeva l’ora, languido travaglio

in cui ci si riflette. Viso a viso

l’ansia si sciolse. Nulla fu dettaglio,

minuzia malinconica. In quel riso

 

il senso delle cose. Le parole

orme di vita, tenue lontananza

sull’ampia luce chiara tutt’intorno.

 

Oscillavano i battiti del giorno,

lenti lenti, di timida speranza.

E io? Ero solo un’ombra, tu il mio sole.

 

 

Non avrei mai creduto che le cose potessero avvenire, come sentenziò qualcuno, per intervalla insaniae. Eppure, ci si deve ricredere, ogni tanto. Si va, come in mezzo alla folla brulicante di un luogo non nostro, finché non accade che si squarcia la notte e tutto a un tratto una luce chiara rivela il senso recondito. E, così, «Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, / Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan, / La douceur qui fascine et le plaisir qui tue. / Un éclair… puis la nuit!» (Ch. Baudelaire, À une passante, 6-9). In quel lampeggiare l’epifania estrema dell’essere e dell’esserci. Bere dagli occhi come alla fonte della vita e della conoscenza. In quei «mobili cristalli» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI, 9, 3) si riflette il Narciso innamorato di chi ancora non conosce.

Minuzie filologiche, certo, nulla più, nella vita che trova il suo senso proprio nell’intercapedine che assorbe la corsa inevitabile dell’ora. Fermarsi è un nulla sul ciglio che ci salva dall’oblio, mentre tutto sembra grigio languore intorno. E l’arte si riversa a liquide cascate dalle finestre aperte sul giardino e qualcuno ripete ancora tra sé, magari guardando annoiato, che «Ha forma […] questo non glielo si può negare; ma ha sentimento? Temo di no. Di fatto, è come la maggior parte degli artisti; è tutto stile senza nessuna sincerità» (O. Wilde, L’usignolo e la rosa). E così è ritrovarsi, forse per sbaglio o per necessità, quando tutto il resto scompare e si resta come «les enfants qui s’aiment» e di essi «Et c’est seulement leur ombre / Qui tremble dans la nuit» (J. Prèvert, Les enfants qui s’aiment, 4 e 6-7). Quelli sono attimi rari di felicità.

 

Tutto si trasfigura, anche se «trasumanar significar per verba / non si poria» (Par. I 70-71). Resta nel cuore, forse sulla pagina, tra parole che fluttuano nel vento, come nella memoria, quell’emozione inesprimibile. Non tutto si può comunicare, non tutto si fa oggettivo. La poesia mantiene in sé qualcosa di indecifrabile. È simile a un colloquio tra chi non ha bisogno di altro se non di un cenno, un dettaglio, un piccolo sussurro. Ecco, è un incontro sul limite del tempo e dello spazio, un atto di cosmica necessità. Dal varco che si apre si può accedere alla felicità, al carpere diem tanto sperato. Ci si trova davanti all’epifania dell’assoluto, come il cadetto di Guascogna che prega di «non ridere, ti prego, di queste mie parole: io sono solo un’ombra e tu, Rossana, il sole» (F. Guccini, Cirano). Anch’io mi sentii così, sospeso «verso l’ultima salute» (Par. XXXIII 27). Inutile insistere: chi ha provato quel che racconto ci si rispecchierà, vita vissuta, vita vera. Poesia insomma.

 

 

 

© Federico Cinti

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In te vidi la luce

 

Infine, ti trovai. Per sbaglio, forse.

Non so. Fu un grande dono inaspettato.

Ti trovai, di sfuggita, tra le corse

estenuanti del giorno, impreparato.

 

Vidi il sole. Un candore sussurrato

il senso delle cose già trascorse.

Distinsi nel futuro il mio passato

in quell’attimo. Il cuore mi rimorse.

 

L’immagine del vero, l’armonia

attesa, l’ala bianca di gabbiano

libera sulla soglia in fondo in fondo,

 

uscire, entrare. Eterno varco al mondo.

Chiara sentii la voce. Di lontano

era un’eco di un’eco di poesia.

 

 

nulla è invano, si sa. Lo si ripete forse con troppa sicumera a volte. Eppure, ci si deve credere sul serio, se è vero – come è vero – che le coincidenze non esistono. Nemmeno per assurdo nei trasporti, ambito in cui tutto è creato ad arte. Gestito non lo so. non mi pare per nulla, anzi; ma questa è un’altra storia. Un altro viaggio, davvero: «anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / IL mio dura tuttora, né più mi occorrono / le coincidenze» (E. Montale, Ho sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale, 3-5). O meglio mi servirebbero, per continuare il percorso già tracciato, la via intrapresa quello strano giorno in cui il sole fece capolino, quando In te vidi la luce. Sostanza e accidente, il kairòs nel chronos. Forse, è così che nasce la poesia, dalla parallela convergenza di vite che un giorno s’incontrano. Era il nero germe dell’aratore che «se pareba boves, / alba pratalia araba» (Indovinello veronese).

 

 

 

Era la soglia, tutto qui, attraverso cui esiste un’uscita e un’entrata. Invisibile, certo, come l’ombra che avvolge il senso delle cose e che, tutto a un tratto, all’improvviso, ci si svela davanti. È allora che ogni cosa si fa chiara. Si corre e si percorre infinite volte una strada, senza tuttavia vedere, senza tuttavia poter sentire. Ed ecco il raggio obliquo segnare la via giusta, non più smarrita «la diritta via» (Inf. I 3). E non se ne conoscono i motivi. Succede, nulla di più. Anzi no, il di più è l’accorgersi di quel tempo che si fa occasione, motivo e movente. Emozione e commozione, tra le pieghe dell’essere. Così nasce e rinasce la poesia, nella greve realtà in cui un rivolo azzurro d’inchiostro riga le pagine bianche. In quell’attimo ci si specchia. Ecco, è così che «M’affaccio alla finestra, e vedo il mare: / vanno le stelle, tremolano l’onde», è così che m’interrogo sull’infinito gettato tra il qui e l’altrove, mentre vedo un «ponte gettato sui laghi sereni» e anch’io mi chiedo «per chi dunque sei fatto e dove meni?» (G. Pascoli, Mare, 1-2 e 7-8). Ecco l’eco, era il senso della vita che mi si riaffacciava prepotentemente dinanzi.

In quella luce chiara è ritornato a splendere l’azzurro. È fuggito, è fuggito il temporale. l’occhio si è aperto e chiuso, «tra il nero un casolare: un’ala di gabbiano» (G. Pascoli, Temporale, 6-7), è tornato a vedere ciò che prima era impossibile anche solo immaginare. È forse questo l’atto creativo in sé, che tante volte ho creduto d’afferrare nell’attimo che scivola lontano, sempre più in là, dove l’artificio si fa arte, «che tutto fa, nulla si scopre» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI 9, 8). In quel guizzo luminoso ho cercato di fermarmi. Era il tempo in cui tutto sembra chiudersi all’orizzonte, in cui il libro si chiude dopo l’estasi della lettura. Un brano, un altro. E la voce continua a sussurrare nell’orecchio parole altrui divenute ormai nostre. Anche questo è creare e ricreare. Ecco, ancora, dove nasce l’atto creativo. È il mio rovello. Non so, non mi guardo indietro: mi fondo in questa tua luce chiara e comincio a volare, in alto, in alto, tra le scaglie rare di un cielo che si è fuso dentro il mare, che si è fatto mare, «lo gran mar de l’essere» (Par. I 115). E così si ritorna a essere io, si ritorna a essere tu in queste mani candide che formano un candido sole di poesia.

 

 

 

© Federico Cinti

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Il«the» delle befane

 

Tutto è compiuto. Il tavolo imbandito

ha il velluto addobbato della festa:

era la fuga verso l’infinito

dopo l’antica nostalgia molesta;

 

era ciò che si perde (o ciò che resta?)

l’ultimo giorno fragile del rito,

languore lieve in cui si manifesta

eterno il nostro ridere stupito.

 

Breve il tempo. Urge l’ora, vola via

esule tra il respiro delle cose.

Fu già e non fu. Domani uguale a ieri.

 

Anche noi, vecchi amici, amici veri

nell’istante caduco delle rose

eravamo e saremo epifania.

 

 

Non lo nego, certo, il ritardo; ma l’Ingegnere quest’anno non è riuscito a organizzare l’evento solito del the nel giorno dell’Epifania. Una scusa, intendiamoci, per consumare quel poco rimasto dalle appena trascorse feste natalizie. Ci si ritrova con gli amici di una vita: il tavolo è sempre quello, ovale come nelle migliori tradizioni, con un bel velluto verde e soffice sopra. Perlomeno io lo ricordo così. E voglio ricordarlo così, nonostante il frastuono del tempo che fugge. Già, perché i ricordi, quelli veri, sono silenziosi, quasi fossero sotto cristallo. Li si guarda e riguarda con una certa nostalgia. Credo che il gusto del rito sia che lo si vorrebbe sempre identico a se stesso, anche quando ci accorgiamo che è sempre diverso. Tensione all’eternità, chiamiamola pure così.

Chi organizza veramente, ammettiamolo pure, è Elena, la moglie dell’Ingegnere. Si sa, non si può dire, ma il senso è tutto qui. Prima di disfare l’albero e il presepe occorre che tutto si compia, ma proprio tutto. Io e il the non è che si vada molto d’accordo. Sì, mi piace; ma, non so perché, l’associo sempre all’influenza. Chissà, me lo ritrovavo sempre tra le mani, quando ero piccolo, per bere qualche cosa di caldo. Mi faceva bene o così sostenevano. E sarà pure vero, ma non ci sarà mai nulla migliore del caffè. Ah, per me al caffè non si comanda, un po’ come alla poesia del resto. Altroché al cuore! Ci sforziamo di non ammetterlo, ma è così. Faccio buon viso e tanto basta.

Anche noi ci troviamo su quella strana barca che chiamiamo tempo. Ci conduce dove vuole e come vuole. Opporsi è inutile, anche se tanti ci provano. Il belletto, il trucco, le tinture per capelli danno una mano. ma serve veramente a qualche cosa? Forse solo a illudersi un po’ che tutto sia sempre uguale. Non fa piacere, è ovvio, trovarsi ogni giorno diverso, ma pare sia inevitabile. Sarà pure per questo che il genio dell’ingegnere ha finito, col passare degli anni, per deformare l’incontro da the della Befana a the delle befane. Penso proprio nessuno se la prenda. Una constatazione amichevole, tutto qui, soprattutto se consideriamo che tra gli amici ci siamo pure noi. Noi che ascoltiamo e scriviamo tutto, tra l’altro, con la protervia di chi cerca di fissare tutto per sempre sul candore innevato della pagina intatta. Stavo quasi per scrivere ferocia, ma poi mi sono fermato a riflettere, quasi davanti a me ci fossero due pagine. Se non si è abituati, è sconsigliato pensare. Oh, parafraso solo Francesco Guccini, tanto amato dagli amici di domani, che hanno una casetta in quel di Pavana.

 

 

 

Insomma, l’ho tirata anche troppo per le lunghe, come si fa alle volte al telefono con le persone che non si vogliono salutare. Qualcuno lo fa di professione, io non ne sarei capace, se non fosse che alle volte ci sono persone con cui vorrei parlare all’infinito. Certe donne, ecco, dalle voci così suadenti in cui, come nella conchiglia, si sente il mare eternamente echeggiare. Romanticismo, forse, e di bassa lega. Ma tant’è, mi ci accoccolo un po’, come quando il giorno trapassa lentamente nella sera e il crepuscolo pare una palpebra che si chiude.

 

 

 

© Federico Cinti

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Confessione a un amico

 

Magmatico mosaico, ritrovarsi

a un tratto altrove, sulla via smarrita,

riscoperta per sbaglio tra gli sparsi

cocci senza più età di un’altra vita.

 

Era il fluttuare instabile del giorno

tra vane verità scritte nel vento

ubriaco di sole, era il ritorno

languido dopo l’ultimo tormento.

 

La pagina si fa di nuovo bianca

innanzi agli occhi increduli di neve:

ci si rivede, un altro ci si affianca,

immagine d’immagine più lieve.

 

Chi si è, chi non si è più? Nel nuovo il vecchio,

essere dentro l’essere lontano.

Rimane imperscrutabile lo specchio

oasi nel tempo, refrigerio vano.

 

 

tutto era pronto per andare in scena, oggi, 3 gennaio, a casa dell’Ingegnere. Anch’io ero pronto, da vecchio giullare, a rievocare il compleanno di Cicerone. Lo faccio non dico da sempre, ma dacché ci si conosce sì. Ed è trascorso ben più di un quarto di secolo. Me lo ha ricordato lui, l’Ingegnere intendo, la notte dell’anno. io inseguivo, come di consueto, le mie divagazioni letterarie. Quel ricordo mi ha fatto trasalire, simile all’incauto Morvàn che «un dì trasecolò nella boscaglia» (G. Pascoli, Breus, I 2). Il tempo si era annullato, d’un tratto, chissà. Oppure c’eravamo annullati noi nel tempo, capricciosa variabile come è. Iniziava il ventisettesimo anno, che è poi questo appena iniziato. Rimasi come sospeso, come Oreste i cui «occhi gli andavano lì, a quello strappo», quell’Oreste che «insomma, diventava Amleto» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Fissavo pure io «quel buco nel cielo di carta», senza pretese amletiche ovviamente, quasi incredulo.

 

 

 

Ero pronto a sedermi nel mio posticino, sul lato corto del tavolo, all’ingresso della cucina quadrata. di sicuro l’avrei ascoltato nelle sue divagazioni storiche, quasi centenarie. Il tono oracolare gli si confà particolarmente, nulla da eccepire. Eppure, è figlio del mondo del pressappoco anch’egli, come me, più che dell’universo della precisione. Perché siamo consapevoli entrambi che l’oggettività non esiste, checché ne dicano. Mi siede di fianco, a volte parlandomi sottovoce, come dovesse rivelarmi un grande segreto. Lo ascolto con reverenza filiale, anche se è poi nato qualche mese dopo di me. Non importa. Da tempo ormai ho compreso che solo chi riesce a vedersi da fuori ha qualche speranza di carpire un pur minimo brandello di senso. Altre volte, invece, conciona ex cathedra, consapevole di affermare il principio su cui poggia il panta rhei. Su quell’immaginario palcoscenico rimugino, tra me, il famoso verso: «Soffri e sii grande: il tuo destino è questo» (A. Manzoni, Adelchi, III, I,). Recitiamo, tutto qui, e in quel mentre mi capita di astrarmi da me, «come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata» (Inf. I 22-24), mi capita insomma di vedermi.

tutto era pronto, certo. O meglio sarebbe stato, perché ogni volta si finisce a recitare a soggetto. Perché si cambia, è innegabile, di volta in volta, di anno in anno. E succede pure di vedere le cose in modo diverso e, dovremmo pure ammetterlo, in quelle cose ci siamo pure noi. Sì, proprio così: ci pare di non essere più noi, quelli di prima, come se un giorno ci fossimo guardati allo specchio senza riconoscerci. Se mai ci siamo conosciuti veramente, è ovvio. Secondo la profezia, per giungere a venerabili età, non bisognerebbe conoscersi. Non bisognerebbe, in ultima analisi, avere il privilegio di vedersi, lungo la linea di demarcazione che genera il distacco, per cui si passa dal riso alla commozione, da fuori. È così che, pur restando sempre noi, siamo sempre diversi. E mi sento diverso io in primis, senza che altri vengano a dirmelo. Oddio, se devo essere sincero, l’Ingegnere lo trovo sempre uguale: del resto, lo vedo da fuori e – credo – lo conosco bene. So che attendeva il mio affondo su Cicerone, il genio incontrastato della parola. Resta pur sempre il suo compleanno, oggi, da quel lontano 106 a.C., quando nacque ad Arpino. Su tutto il resto si ritornerà, ne sono sicuro.

 

 

 

© Federico Cinti

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Interludio dopo Natale

 

Azzurro il cielo sopra le Moline

esala lento tra le luci accese,

un palpitare prima della fine

gocciola tra le tegole sospese.

 

Esile vacuità, trama d’attese

nascosta oltre le imposte tra le trine,

infinita città, dolce paese,

ansia di vita dentro le cucine.

 

L’anno va via, l’ennesimo ritorno

oscilla nell’asintoto perenne

del tempo inafferrabile alle mani.

 

In cammino, non ieri, non domani,

null’altro che il presente arduo, solenne,

incessante procedere del giorno.

 

 

Era a cena da un’amica, l’altra sera, l’Ingegnere: gli capita, ogni tanto, anzi spesso, di adire quel mondo senza età, senza contorni. Era quasi «l’ora che volge il disio / ai navicanti e’ntenerisce il core» (Purg. VIII 1-2), quando un guizzo di memoria mi ha sorpreso. Sulle Moline ci si era già soffermati, temporibus illis, a proposito di Gregorio, il libraio che non ti vendeva nulla se prima non l’aveva letto. Un miracolo, un genio, un intellettuale? Chissà, a Bologna si dà di tutto, nella sua fauna pittoresca e bizzarra. Si trova nella porzione cittadina tra Mascarella e Belle Arti, dove ha abitato cinquant’anni mia zia Pierina, il cuore della zona universitaria.

Gocciolava il cielo l’ultima azzurrità dalle tegole dei tetti spioventi, dai profili irregolari e lontani, in un ennesimo giorno di fine anno, quando per le strade fluttuava senza saperlo «il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente» (G. d’Annunzio, Il piacere). In quell’ansia di ricordi ho ripercorso il desiderio di ritorno, quella nostalgia che è forse tutta letteraria, ma che è l’unica cosa che resta al fondo dell’anima. Anche le parole hanno vita, brillano come fari accesi. La fatica maggiore pare sia riconoscerle nella loro nudità, senza che la retorica – per dirla con Pirandello – non muti la forma in imitazione.

 

 

 

Anch’io ero con l’Ingegnere, in qualche modo, oltre i portici, sui lastroni dissestati, eppure così familiari a chi trascorre tra quelle case quel po’ di vita che gli è dato di regalare al tempo. Dalle finestre emanava una luce, velata dalle trine e dai balconi, una luce interiore azzarderei quasi a scrivere, se non apparisse un che di antico e paludato nell’esprimersi così. Era pur sempre un interludio dopo Natale, quel giorno, nell’incantata sospensione di momenti che non tornano se non nella ciclicità in cui vive soltanto il presente. È per questo che non posso tacerne, non posso tacere di quella piccola serata bolognese in cui tutto resta sempre uguale a se stesso.

Prima o poi, come allora, prenderò un’altra volta quella via dal nome antico, Moline, sorta sui canali e sulle acque che oggi non si vedono più, sotterranee e intime, come i flussi vitali che sentiamo pulsare senza tregua. E in quelle acque sta lo specchio nascosto di ciò che siamo e di ciò che non possiamo, distacco e presa di coscienza nel medesimo punto. La superficie cela e svela ipso facto. Il più è accorgersene, distratti come si è dal transeunte, mentre «ciascuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera» (S. Quasimodo, Ed è subito sera). Oltre quel vetro, anch’io respiravo «non so che felicità nuova» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, 24).

 

 

 

© Federico Cinti

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Stefano, nel tuo giorno

 

Sussurra un viso, immagine sepolta

tra sogni irrealizzabili. Lontano

era il giorno. Null’altro, tutto è vano,

fantasia dentro l’anima. S’affolta

 

ancora il senso autentico. Una volta

naufragammo. Ricordo quella mano,

oggi perduta. Edulcora pian piano

ogni istante. Si ascolta e si riascolta.

 

Rauchi frammenti. Era la vita vera

la via seguita, l’ansia del ritorno

attorno al vuoto. Adesso l’ho imparato,

 

non prima, solo adesso che è passato

distrattamente, nel silenzio, un giorno

in cui cala impalpabile la sera.

 

 

Era il tuo giorno, ieri; lo so bene, Stefano. Un tarlo mi lavorava nel libro della memoria “e quel libro era antico. Eccolo: aperto / sembra che ascolti il tarlo che lavora» (G. Pascoli, Il libro, I 5-6). Eppure, non è più il tempo degli auguri. Credo te li aspettassi, anche se avresti giurato di no. E non certo per gli auguri in sé, bensì per il pensiero che ti era riservato, quasi tributato, come se poi in qualche modo non ti si pensasse comunque. Una volta mi chiamasti tu: eri in scommessa con tua figlia sulla pronuncia di una parola. Avresti preferito che io dessi ragione a te piuttosto che a lei. Ridesti come solo sapevi fare tu e quella risata l’ho ancora nelle orecchie.

Tante altre cose, naturalmente, avevamo in sospeso. Che vuoi mai? per vivere il presente occorre progettare il domani. Tu vivevi già il domani, come una sorta di veggente alla ricerca della quadratura: tu eri così, come il famoso Anselmo Paleari, che «dalle vette nuvolose delle sue astrazioni […] lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il nesso, l’opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Sarà per questo che tanti nostri sogni sono rimasti nel cassetto. Me li hai lasciati, tutto qui, una sorta di eredità d’affetti e di pensieri.

 

 

Era il tuo giorno, ieri, e molti si saranno ricordati di te. Ne ho la certezza, per non dire le prove. Dimenticarti è impossibile. Anche la mamma me lo ha ricordato e adesso che sono seduto sul divano, davanti alla televisione, proprio nel posto che ti piaceva tanto, ti confesso che mi fa un certo effetto. Ti scrivo, così, liberamente, come quando ti parlavo. Sembrava che tu non ascoltassi o facessi altro. Sembrava, appunto. Poi, te ne uscivi con la tessera mancante del mosaico e il sipario si chiudeva tra gli applausi. Anche tra i fischi, intendiamoci, qualche volta, perché non mancavano certo i detrattori. Non passavi inosservato, anche se qualcuno oggi fa finta di nulla. I compagni di viaggio, chiamiamoli pure così, non perdonano.

Eppure, la tua mano tesa resta. Io mi ci aggrappo ancora idealmente. Questo in fondo è quel che conta, per non perdere di nuovo o per sempre il senso delle cose. Conosciamo bene i versi che ti consacrano all’eternità, «sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna» (U. Foscolo, Dei sepolcri, 40-41). Mi fa strano pensarli riferiti a te, questo sì, perché tu sei ancora qui, nell’altra stanza, come si suole dire. Anche noi siamo in una stanza che non è la nostra, come tutti coloro che non si trovano a proprio agio in un mondo da rifare. Tu volevi rifarlo e, in qualche misura, ce l’hai fatta. Siamo qui sulle tue orme a compiere molti dei tuoi sogni, dei nostri sogni ormai. La tua mano resta tesa, te l’ho detto. Il resto non conta o conta veramente poco.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Sisi nel giorno del suo compleanno

 

Figlia del sole, nacqui nel suo giorno;

strali dorati, trama del mio trono,

la mia corona, intreccio di splendore,

la mia dimora, luce nella luce,

al cui tramonto anch’io cadrò nel buio.

 

 

 

Poesia liberamente tratta, ma poi nemmeno troppo, dai Winterlieder, i Canti d’inverno, di un’eccezionale autrice, l’imperatrice più famosa – e meno conosciuta – d’Austria, Sisi. Ha quasi cinquant’anni (siamo infatti nell’ottobre del 1887) quando, ironizzando sul giorno in cui è nata, il giorno del sole, in tedesco Sonntag, vede dall’esterno la sua sorte e il suo destino. Ricorda quel lontano e felice 24 dicembre 1837, quella domenica in cui l’astro più lucente, nel suo giorno, aveva rivolto i suoi strali d’oro sul suo trono, quando lo splendore le aveva intrecciato una corona inestricabile sul capo, quando la luce era divenuta dimora eterna della sua vita. e dire che in Baviera nascere la domenica, e per di più con un dente già spuntato, come era successo a lei, era considerato segno d’elezione. Nulla era per lei la fama, nulla la gloria dell’ostro e del manto: tutto era attesa del tramonto di quel fulgore in cui anch’ella si sarebbe eclissata per sempre dalla scena di questo mondo, senza far rumore.

Questo l’originale, questi i versi di Sisi:

 

 

Ich bin ein Sonntagskind, ein Kind der Sonne;

Die goldnen Strahlen wand sie mir zum Throne,

Mit ihrem Glanze flocht sie meine Krone,

In ihrem Lichte ist es, dass ich wohne,

Doch wenn sie je mir schwindet, muss ich sterben.

 

 

Nel suo Poetische Tagebuch, il suo Diario poetico, Sisi riflette, quasi si mettesse allo specchio, la vera essenza di quella luce, di quel sole di cui ella è figlia. Era soltanto un sogno la leggenda della sua vita che con scrupolo aveva contribuito a costruire, l’incomparabile bellezza regale di cui era circonfusa per grazia naturale, le trecce dorate di lunghissimi capelli che le incorniciavano il capo e l’esile figura, la gabbia d’oro della corte austriaca in cui era stata rinchiusa per amore e per forza fin da quella lontana domenica 19 agosto 1853, quando si era fidanzata con l’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo Lorena e aveva cominciato a ripetersi: «Se solo non fosse imperatore».

Poesia, solo poesia. nulla le resta se non il rimpianto di quella vita, se non il desiderio di liberarsi e librarsi, simile a Titania, la regina shakespeariana delle fate da lei tanto amata, simile al gabbiano che non ha patria, che non ha confini. In alto, lontano, oltre le convenzioni di un mondo che non le appartiene, che non le è mai appartenuto. Questo sarebbe stato essere vera figlia della domenica, di un giorno senza tramonto, perché tutto del sole. Di lei lascia immagini e ritratti, di lei lascia versi e parole di un diario fuori del tempo, come un cuore allagato d’infinito. E così vola ancora quel gabbiano, senza che alcuno possa raggiungerlo, senza che alcuno possa ingabbiarlo, nemmeno il sole.

 

 

 

© Federico Cinti

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Fuoco perpetuo d’amore – Amoris ignis perpetuus (Sambucus XL)

 

Guarda la torcia: di qua lenta consuma al suo fuoco,

di là in una fiammata rapida si dissolve.

Vede l’amante l’amata dolcissima e triste si strugge;

è colto, pure assente, da piaga insanabile.

 

 

Niente di eccezionale, convengo; ma, davanti agli emblemata, io non riesco a non fermarmi, almeno un attimo. Li leggo, li rileggo, mi ci specchio. Non mi so sottrarre al certame e gareggio, mi provo pure io. Togliere la polvere ai secoli è un attimo. Qualcuno mi direbbe, forse con qualche ragione, quieta non movere. Eppure, non ne posso fare a meno, soprattutto oggi che tutto si riduce a una forma nuova di trasfigurazione emblematica: titolo, immagine, didascalia. Semplice, no? Intuizione geniale di Andrea Alciato, più giurista che poeta, almeno nella sua vita. quando leggo questa produzione apparentemente così lontana da noi, mi viene sempre da chiedermi se nasca prima l’occasione o la poesia. la risposta è insita nella domanda, è chiaro; ma quanto più è breve il testo tanto più si fa legittima. Ci pensavo a proposito di Marziale e dei suoi quindici libri di epigrammi. E dire che mi avevano anche chiesto di tradurlo. All’epoca non ne sarei stato capace. Adesso? Chissà, adesso mi potrebbe pure venire l’uzzolo di cimentarmici.

Eppure, di che cosa si deve parlare se non dell’amore? Qui è rappresentato da una torcia, una fiaccola che arde perpetuamente, come dice il titulus. Si consuma interamente da una parte e dall’altra è un fuoco inestinguibile. Tutto nasce dal verso petrarchesco «che da lunge mi struggo et da presso ardo» (Rvf CXCV 14), come ricorda il commento a corredo del quarantesimo Emblema di Sambucus, Amoris ignis perpetuus. Nello stesso commento ci si rifà anche alla passione amorosa di Saffo per Attide, la giovane appartenente al tiaso gestito dalla decima Musa, e a Didone, la pulcherrima per eccellenza, che caeco carpitur igni (Aen. IV 60).

 

 

 

Era il mio mondo e lo capii al meglio proprio quando mi fu chiesto di collaborare a un’antologia sulla poesia petrarchista del Cinquecento. Una vita fa, lo ammetto. Io stesso ero ben altro da quel che sono, anche se non sarei mai ciò che sono diventato senza quel percorso così strano cui mi hanno condotto i miei interessi, scoperti un po’ per gioco e un po’ per caso. In quell’antologia famosa, Lirici europei del Cinquecento (Milano, Rizzoli,) 2004) mi immersi completamente in quel mondo e ne uscii diverso. C’era un po’ di tutto, c’era pure Iohannes Sambucus, strano personaggio anche nel nome, passato pure da Bologna, autore di poesie alle volte quasi al limite dell’oscurità. Questa sull’amore mi è piaciuta, anche se non la inserii nel novero. Ci sarebbe stata, certo ed era pure nel novero delle immagini petrarchiste. Ma so bene che sarebbe tutto da rifare, oggi che padroneggio meglio gli strumenti. All’epoca ero più sprovveduto di ora, anche se lo resto parecchio. Amo imparare, ecco, visto «ch’altro piacer che d’imparar non provo» (Petrarca, Triumphi, I, 21).

Sull’amore non so quanto io abbia imparato, forse niente di più di quel che si trova scritto nei libri. Ripeto a memoria che «amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione forme alterius sexus», come suggeriva Andrea Cappellano, e mi stupisco. Sì, mi stupisco sentirlo risuonare in me, come eco lontanissima, come nei versi baudelairiani della sconosciuta, apparizione e sparizione degna dei fedeli d’amore, che scorgevano l’amata passare «per via adorna e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute» (G. Guinizelli, Io voglio del ver la mia donna laudare, 9-10). Anche a me è capitato, non lo nego, ascoltando la voce celestiale di una figura eterea e di sentirmi annegare in quella luce senza tempo. Chissà, retaggi letterari. Tutto qui.

 

 

 

Quasi dimenticavo di riportare pure l’originale: sì, lo avevo aggiunto in nota, ma la pigrizia di molti che conosco è superiore a quella di Belacqua.

 

 

Amoris ignis perpetuus.

 

Hinc taedam ut suus ignis edat teretem, vide

Illinc ut rapido male liquitur a rogo.

Visae tabet amans miser igne puellulae:

Absens tabifico haud minùs ulcere carpitur.

 

 

© Federico Cinti

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A Maurizio il 10 dicembre

 

Muto il portico gelido di marmo

addobbato di festa,

una vetrina dopo l’altra. Resta

recondito un pensiero

indicibile, vivido un ricordo.

Zampilla un filo pallido di sole

in lontananza, il riso

opaco di quell’ultimo sorriso.

 

Mesta la via nell’ora

attardata nel giorno

nuovo nel tempo senza più ritorno.

Tutto fugge così, perso in un punto

evanescente al vertice in cui l’occhio

crede alla convergenza parallela.

Così fu. Sarà ancora.

Ha il tempo il rito dietro cui si vela

il senso. Un’illusione

non già. La vita giace

in quest’attimo fragile di pace.

 

 

Che vuoi mai, Ingegnere? S’annulla il tempo. Questo lo si impara a proprie spese e non perché non si voglia credere agli altri. A me è capitato così, almeno. Il tempo non è gratis per nessuno. Si prova a far finta di nulla: è umano, troppo umano. Poi, naturalmente, il pensiero ritorna sempre «colà dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 33-34), al tarlo che ci scava e ci divora. Ricordi, tutto qui, oggi soprattutto che siamo anestetizzati dalle memorie artificiali per non essere più padroni del nostro passato e del nostro futuro. Tutto si condensa nell’evanescenza rapida di un’immagine virtuale. Il reale è fuggitivo, come la vita che lo abbraccia. Ciò che è mio è con me: lo confessava candidamente Stilpone di Megara a Demetrio Poliorcete. Non c’è bisogno che io ti richiami alla mente il De constantia sapientis (V, 6 in particolare) di Seneca.

In un giorno come questo, di nebbia o poco più, resta solo la certezza di ciò che materialmente non si possiede più. Forse non è nemmeno così poco, a rifletterci bene. Mi rivedo, ormai non so più nemmeno quanti anni fa, sotto il pergolato della casa alla Venturina a discettare con te e con Maurizio dei massimi sistemi, una calda domenica di fine agosto. Ci si era tutti. Che strano effetto mi fanno, adesso, quel tepore e quel sapore, languidi come tutto ciò che si sa di avere avuto e di non avere più. E la sua voce acuta, sì, quella voce tutta particolare, soprattutto al telefono. «Prontoooo!». Non è solo per ridere che ce la si ripeteva e gliela si ripeteva. Oggi sa di dolcezza malinconica, come la cupa fine d’autunno, dal «tedio che dura infinito» (G. Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno, 60). Ma non è la noia «in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani» (G. Leopardi, Pensieri, LXVIII).

 

 

 

Anche al tè delle befane si metteva sempre di fronte a me, dal lato corto del tavolo ovale, tra il pianoforte e il presepe. Era là, a tenere banco, tra gli amici di una vita. ora la sua seggiola è vuota, come purtroppo tante altre. Solo il ricordo non muore mai, Ingegnere. La poesia ce lo rammenta da sempre: pulvis et umbra sumus (Orazio, carm. IV, 7, 16). Farsene una ragione è quasi impossibile, almeno per me. Il filo di sole che, a un tratto, s’apre tra le nuvole, ecco, questo sì mi dà speranza che questa condizione non sia vana, ma segno di qualche cosa di più grande. Non è retaggio antico, consegnataci da chissà chi e per chissà che motivo. Lo si impara, anche questo, a goccia a goccia, a volte per intuizione diretta.

Eppure, Ingegnere, non voglio annoiarti. Forse già l’ho fatto, ma la scrittura è così: o la si ama o la si schiva. Il domani già bussa alla porta. Fermarsi a pensare è pericoloso, nel logorio del silenzio interiore, mentre tutto all’esterno sembra indifferente. Potrebbe pure esserlo, se non ne facessimo parte. Oggi sarebbe uno di quei giorni da cancellare o da saltare. Invece, ci si sente buttati là, «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata» (G. Ungaretti, Natale, 9-13). Per sorridere un po’, come ogni tanto si fa, ripensiamo ancora alla domanda fatidica di Maurizio: «Ma che fine hanno fatto i farisei?». Me la ripetesti, in casa di Elena, precisamente nella cucina. Il tuo tono era perplesso. C’era pure l’amico tanto strano con noi, quell’amico che poi si è perso e non abbiamo capito nemmeno perché. Eppure, quella domanda così bizzarra adesso non mi pare più così particolare. È un pezzo del mosaico che è andato in frantumi il 10 dicembre dell’anno scorso e che faticosamente, diciamolo pure, si tenta di ricostruire, tassello dopo tassello, per farne parte di noi.

 

 

 

© Federico Cinti

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In memoria del disastro aereo del Salvemini – 6 dicembre 2021

 

Voragini di buio. Nei precordi

il silenzio infinito di quel giorno.

Paura, solitudine, i ricordi

orme di vita senza più ritorno.

 

Rabbia, impotenza, il nulla tutto intorno

tra i frantumi di cielo lungo i bordi.

Occhi muti di pianto. Ogni contorno

in pezzi in mezzo agli urli ciechi, sordi.

 

Nulla fu più, lungo l’impervia via,

come prima. Nell’anima l’attesa,

unica voce nel deserto immenso.

 

Ora il bisogno di trovare il senso,

ricerca d’inquietudine, sospesa

evanescenza, canto d’elegia.

 

 

Impossibile dimenticare quel giovedì mattina di trentun anni fa. Tornavo a casa a mezzogiorno dal Minghetti. Il traffico inconsueto mi faceva pensare che fosse successo qualche cosa di serio. Dal centro di Bologna a Casalecchio fu un percorso infinito. Il cielo era di un azzurro pallido, come solo a fine autunno riesce a essere, freddo e cristallino, come raramente ricordo d’averlo visto. La notizia l’ebbi solo a casa. Un disastro aereo, su una scuola di Casalecchio, la succursale del Salvemini, in via del Fanciullo. La televisione parlava senza che quasi più io l’ascoltassi: il disastro era avvenuto di là dal fiume, dopo l’ansa del Reno, vicino a casa nostra.

I nomi delle vittime si seppero più tardi, nel pomeriggio. Io almeno le imparai così, quasi senza volerlo sapere. Dodici ragazzi della mia età: avevano la mia età. Sara Baroncini ed Elisabetta Patrizi erano state a scuola con me, la prima alle elementari e la seconda alle medie. Non era vero, non potevo crederci. Altri li conoscevo, altri li avevo visti almeno una volta: Deborah, Laura, Laura, Tiziana, Antonella, Alessandra, Dario, Elena, Carmen, Alessandra. A un tratto quel cielo azzurro mi parve molto lontano, come se appartenesse a un altro mondo, a un’altra storia.

Dei giorni seguenti non conservo ricordi vividi: si mescolano per lo più ai racconti altrui e a quel poco che sono riuscito negli anni a leggere. Molti amici portano ancora addosso o nel cuore i segni di quel giorno. So che a molti il senso di quel disastro resta imperscrutabile. Eppure, chi ha il dono della fede ha la certezza che il senso non sta nella giustizia umana: è certo che quel grido nel deserto non è vano, non è contro quel cielo lontano, ma in vista di un bene maggiore. Nulla, ovviamente, è più come prima: quel 6 dicembre ha cambiato per sempre il cuore di tutti coloro che, a vario titolo, hanno partecipato a quel dolore.

Oggi è il giorno della memoria, del ricordo, della testimonianza. Il mio amico fraterno Stefano Orlandi, volontario quel giorno terribile assieme a tanti altri amministratori comunale e a cittadini privati, me lo ripeteva ogni volta: «Non possiamo dimenticare; altrimenti, tutto è stato invano, anche le lacrime versate, anche il dolore patito». oggi è proprio così, deve essere così, oggi che la presenza silenziosa alle celebrazioni è come una fiamma sempre accesa, un monito sempre vivo, una pianta che pretende di essere curata e alimentata nel giardino del cuore.

 

 

 

© Federico Cinti

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