S’aprì un varco. Nell’anima un sorriso
esule. Sulla soglia uno spiraglio
infinito di sogno. All’improvviso
tutto mi si mostrò. Non fu per sbaglio.
Urgeva l’ora, languido travaglio
in cui ci si riflette. Viso a viso
l’ansia si sciolse. Nulla fu dettaglio,
minuzia malinconica. In quel riso
il senso delle cose. Le parole
orme di vita, tenue lontananza
sull’ampia luce chiara tutt’intorno.
Oscillavano i battiti del giorno,
lenti lenti, di timida speranza.
E io? Ero solo un’ombra, tu il mio sole.
Non avrei mai creduto che le cose potessero avvenire, come sentenziò qualcuno, per intervalla insaniae. Eppure, ci si deve ricredere, ogni tanto. Si va, come in mezzo alla folla brulicante di un luogo non nostro, finché non accade che si squarcia la notte e tutto a un tratto una luce chiara rivela il senso recondito. E, così, «Moi, je buvais, crispé comme un extravagant, / Dans son oeil, ciel livide où germe l’ouragan, / La douceur qui fascine et le plaisir qui tue. / Un éclair… puis la nuit!» (Ch. Baudelaire, À une passante, 6-9). In quel lampeggiare l’epifania estrema dell’essere e dell’esserci. Bere dagli occhi come alla fonte della vita e della conoscenza. In quei «mobili cristalli» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XVI, 9, 3) si riflette il Narciso innamorato di chi ancora non conosce.
Minuzie filologiche, certo, nulla più, nella vita che trova il suo senso proprio nell’intercapedine che assorbe la corsa inevitabile dell’ora. Fermarsi è un nulla sul ciglio che ci salva dall’oblio, mentre tutto sembra grigio languore intorno. E l’arte si riversa a liquide cascate dalle finestre aperte sul giardino e qualcuno ripete ancora tra sé, magari guardando annoiato, che «Ha forma […] questo non glielo si può negare; ma ha sentimento? Temo di no. Di fatto, è come la maggior parte degli artisti; è tutto stile senza nessuna sincerità» (O. Wilde, L’usignolo e la rosa). E così è ritrovarsi, forse per sbaglio o per necessità, quando tutto il resto scompare e si resta come «les enfants qui s’aiment» e di essi «Et c’est seulement leur ombre / Qui tremble dans la nuit» (J. Prèvert, Les enfants qui s’aiment, 4 e 6-7). Quelli sono attimi rari di felicità.
Tutto si trasfigura, anche se «trasumanar significar per verba / non si poria» (Par. I 70-71). Resta nel cuore, forse sulla pagina, tra parole che fluttuano nel vento, come nella memoria, quell’emozione inesprimibile. Non tutto si può comunicare, non tutto si fa oggettivo. La poesia mantiene in sé qualcosa di indecifrabile. È simile a un colloquio tra chi non ha bisogno di altro se non di un cenno, un dettaglio, un piccolo sussurro. Ecco, è un incontro sul limite del tempo e dello spazio, un atto di cosmica necessità. Dal varco che si apre si può accedere alla felicità, al carpere diem tanto sperato. Ci si trova davanti all’epifania dell’assoluto, come il cadetto di Guascogna che prega di «non ridere, ti prego, di queste mie parole: io sono solo un’ombra e tu, Rossana, il sole» (F. Guccini, Cirano). Anch’io mi sentii così, sospeso «verso l’ultima salute» (Par. XXXIII 27). Inutile insistere: chi ha provato quel che racconto ci si rispecchierà, vita vissuta, vita vera. Poesia insomma.
© Federico Cinti
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