Tanti auguri, Lorenzo!

 

Lieve l’azzurro tiepido: l’estate

bussa alle porte. Il tempo della scuola,

un ricordo tra cose ormai passate

senza volgersi indietro. L’ora vola

 

impalpabile. A liquide cascate

il sole si riversa. Una parola

risuona tra altre mille inascoltate,

eco sul punto di morire sola.

 

Incantesimo assorto: la distanza

cade tra la realtà e la fantasia

in questo giorno pieno d’esultanza.

 

Lorenzo s’abbandona all’armonia,

prima di cominciare la vacanza

già velata d’un po’ di nostalgia.

 

 

Un’altra ricorrenza, gioiosa questa volta: un compleanno, quello d’un mio studente, Lorenzo, cui non sottraggo la soddisfazione di scrivere qualche cosa. Intendiamoci, la soddisfazione è pure mia: non voglio negarlo. Anche a me piacerebbe se qualcuno mi dedicasse qualche verso, un paio di righe, un pensiero estemporaneo. Alle volte, difatti, ci penso io, faccio tutto da me e lascio correre le malinconie, soprattutto ora che è finita la scuola. Si aspetta tutto l’anno questo momento e poi, sulla soglia, si avverte un velo di tristezza. Per lo stesso motivo non mi piace uscire all’ultima ora il sabato: sentire che tutto si svuota intorno a me è una sensazione che mi fa un certo effetto.

Eppure, adesso siamo sulla soglia dell’estate: ci prepariamo ad altro, alla vacanza, al tempo libero, alle nostre più recondite passioni. Nulla ci è dato a caso, ma tutto va vissuto per quello che è, senza ossessioni per il passato o per il futuro. Tempo propizio, tempo opportuno, l’antico kairos, questo, in cui tutto si rende possibile, anche l’epifania di «qualche disturbata divinità» (E. Montale, I limoni, 36). Occorre solo essere pronti al «prodigio / che schiude alla divina indifferenza» (E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 5-6).

In questa infinita azzurrità m’adagio a galleggiare, come a morto, sul fluire dei miei «pensieri / che l’anima schiude / novella» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 26-28), in un’altra fusione panica tra il tutto e il nulla, io «una docile fibra / dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31). È questo il tempo delle fate, del ritorno di Titania e di Oberon, del mondo che si specchia nel suo specchio e si ritrova nella sua eterna volontà di non fermarsi al limite, sulla linea di confine che si sfrangia.

Siamo immersi nel tempo, flusso infinito della vita in cui galleggia ciò che non siamo più o che non siamo mai stati. È «la morta gora» (Inf. VIII 31) in cui riemerge ogni nostra ossessione, come sulla barca di flegiàs che non comprende e svolge, nonostante tutto, il suo compito eternamente, se non sappiamo uscire «del pelago» (Inf. I 23) di Ulisse e riappropriarci del bene più prezioso che ci è stato donato. Il tempo, certo, null’altro, noi piccoli segmenti sulla retta infinita dell’eternità, cui siamo vocati.

 

 

© Federico Cinti

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Arrivederci, Leonina

 

Un filo la memoria:

esile s’assottiglia nel ripetere

lo stesso gesto semplice,

Leonina, tra le dita che si torcono.

 

Tu voce nel silenzio,

adesso, non più rauca tra le pagine

pallide d’una storia

che non ha un prima e un poi, tu puro spirito.

 

E ti risento leggere,

con piglio inquisitore, ogni interstizio

del cuore, fino all’anima

di chi avevi di fronte in pura immagine.

 

Eri in grado di ridere

d’ogni cosa, ma non di questo vivere

nostro, nel desiderio

dell’assoluto in noi che mai si sazia.

 

Il tuo saluto, l’ultimo,

estremo insegnamento di quell’essere,

come è giusto, nell’attimo

che si fa eterno e appaga ogni inquietudine.

 

 

E non mi pare vero, a distanza ormai di nove anni, che Leonina ci abbia salutato nel silenzio del suo raccoglimento. Era l’Ascensione, una limpida domenica d’inizio giugno del 2011: un volo di farfalla che si libera e libra dal gravoso involucro nell’aria tiepida. 

La ricordo da sempre, Leonina: era la mamma di due miei cari amici. Io la chiamavo confidenzialmente «la Professoressa». La vedevo alta, solenne, dalla voce profonda e riflessiva. Ne avevo forse un timore reverenziale. Ma era la verità: insegnava italiano e storia.

Fumava molto, fumava sempre: le dava un che di cogitabondo. Chissà, una maschera, un modo di guardare al di là senza essere vista.

Solo crescendo ho imparato a conoscerla. Per me restò «la Professoressa» anche quando mi trovai, per uno strano gioco delle parti, a ricoprire il suo ruolo. Già, perché lei andava in pensione e io prendevo servizio. Lo devo ammettere: davvero un beffardo passaggio di testimone. Ne era contenta. O almeno credo.

Non lo sapeva, ma mi aiutò molto; nemmeno io lo sapevo, del resto, ma penso d’averla aiutata parecchio. Le parve quasi di tornare a scuola, mentre mi prendeva per mano e mi lasciava in eredità i suoi segreti, potrei dire i ferri del suo mestiere che non smetteva mai di affilare per vieta consuetudine o per piacere intrinseco, anche se questo proprio non l’ho mai capito. Era troppo ironica per lasciar trapelare qualche cosa di definito. In questo ci assomigliavamo. Trovai in lei il mio specchio: osservandola, capii molte cose di me. Fu come una palestra in cui ritrovarci e ritrovarsi.

Le avevo spiegato con rassegnazione che non era il mio sogno, quello, ma lei mi ripeteva con voce trasognata: «A me piaceva tanto». E si capiva fin troppo. Io lo capivo.

Oggi mi restano questi ricordi di lei, tanti affondi letterari: «Non sai quanto ho studiato», amava ripetermi. O forse lo ripeteva a se stessa.

Anche lei, credo, in qualche modo si rispecchiasse in me, perché mi confidò che di certe cose poteva parlare solo con me. Privilegio per pochi scivolare sulla china dei libri fino a perdersi. E ci perdevamo sul serio tra una lettura e una riflessione, tra una battuta e un caffè. Quanto le piaceva il caffè, ma non quello del bar, perché «era poco». Non ce la faceva a non chiudere con un graffio. Lei avrebbe detto così ed è espressione che faccio mia, forse perché in fondo è mia, mi appartiene, come i ricordi, come i suoi eterni ritardi. 

Eppure, il 5 giugno non giunse in ritardo all’appuntamento. Si era preparata a quel giorno con grande meticolosità, da tempo. Sapeva che era inevitabile, ma non era questo che l’assillava. Doveva arrivarci come a lezione, senza lasciare nulla al caso. In fondo i compiti le aveva già svolti da tempo.

L’avevo vista l’ultima volta il 15 dicembre e già non stava bene. Mostrava qualche cosa di inafferrabile: un velo la appannava. Eravamo nella sua cucina a sbrigare le solite incombenze della correzione, per me un flagello, per lei una delizia. Poi più nulla, un’eclissi ineluttabile. La rincontrai tra l’odore dei tigli solo il mesto giorno dell’addio, che ha in sé l’idea che tanto le stava a cuore, «a Dio». La sua meta era raggiunta: tutto era compiuto. 

E con questa certezza la saluto. Ti saluto, Leonina, un’altra volta.

 

 

© Federico Cinti

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