Prorompe il giorno. Un alito di vita
illumina il tepore nell’immenso
cielo di vetro. Tra le ceree dita
concava un’armonia ridona un senso
al tutto. Un filo pallido d’incenso
riga l’intatta azzurrità infinita:
dove nulla appariva, ride intenso,
adesso, un volto d’anima stupita.
Dono caduco docile d’ancella,
offerta di se stessa sotto il velo
nel cuore, sulla via di santa Chiara,
attesta in un’eterea voce rara
tutto ciò che fu in lei, che sarà in cielo:
«I’ fui nel mondo vergine sorella».
Tra le tante «facce a parlar pronte» (Par. III 16), apparse al sommo pellegrino «per vetri trasparenti e tersi / o ver per l’acque nitide e tranquille» (Par. III 11-12), una gli s’impone per vaghezza di desiderio. Nel diafano pallore del Paradiso tutto si fa possibile, anche credere di trovarsi davanti allo specchio al punto di cadere «dentro a l’error contrario […] / a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte» (Par. III 17-18). Un Narciso, intendiamoci, molto particolare, sui generis. Già gli era successo, nel momento in cui non era riuscito a reggere lo sguardo di Beatrice e «li occhi li cadder giù nel chiaro fonte; / ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, / tanta vergogna li gravò la fronte» (Purg. XXX 76-78), e ancora gli sarebbe accaduto, davanti alla seconda persona della Trinità, quando ammette che «mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Quell’anima è Piccarda Donati, sorella di quel «Bicci vocato Forese» (Dante, Chi udisse tossir la malfatata, 1), contro cui aveva lanciato gli strali del primo sonetto della tenzone più famosa di fine Duecento in Firenze.
una clarissa, la luminosa Piccarda, che «uomini poi, a mal più ch’a bene usi , / fuor la rapiron de la dolce chiostra» (Par. III 106-107). Ella è il primo personaggio che Dante incontra, nel cielo della Luna, nel pallido splendore della sua beatitudine. Ci prende quasi per mano, ci racconta le sue vicissitudini, un fatto ormai lontano, ora che ella si trova a faccia a faccia col Mistero. Già ha perdonato quegli uomini, come la Pia del Purgatorio, che contempla ancora e solo «la sua gemma» (Purg. V 136) nella dissolvenza che la contraddistingue per sempre. nulla a che fare con Francesca, bella e dannata, innamorata e perduta, pronta anche a maledire: «Caina attende chi a vita ci spense» (Inf. V 108). Sarebbe quasi un Dante al femminile, se non fossero storie sublimi e tragiche. Ma Piccarda è con santa Chiara, che «perfetta vita e alto merto inciela» (Par. III 97).
Chissà poi perché il buon Pascoli, nel rappresentare le sorelle di Alexandros, attinge proprio alla luuminosa trascendenza di questo personaggio. Il grande condottiero, conquistatore del mondo, era giunto al «Fine. O sacro araldo, squilla!» (G. Pascoli, Alexandros, I 1), mentre «nell’Epiro aspra e montana, / filano le sue vergini sorelle» (Alexandros, VI 51-52). In quella casa, in quel nido perduto, la ripetizione ossessiva del gesto virginale, come tante Parche intente a filare il destino, rende quelle presenze dalle «ceree dita» (Alexandros, VI 55) il sogno cui non si appartiene più. L’oscillazione tra impossibilità d’un futuro e certezza di un presente senza fine segna la distanza tra il vate dei vati e l’ultimo figlio di Virgilio. Dante giunge all’autentica meta, «quale colui che, forse di croazia, / viene a veder la veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia» (Par. XXXI 103-105). Vede Dio, il «fine di tutt’i disii» (46). Ora resta solo la scelta, se rimanere al di qua o al di là del vetro.
© Federico Cinti
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