A me stesso nel giorno dei miei anni

 

Fu uno scorrere rapido, fui io

e non altri. Sarò. Sul promontorio

dei secoli impassibile m’avvio.

 

Equilibrio impossibile. Aleatorio

resistere. Proseguo sul cammino

iniziato, oltre Inferno e Purgatorio.

 

Contemplo ciò che sono, pellegrino

onirico di un’epoca imperfetta:

chiamo il mio nome, avverto il mio destino.

 

Io, fui io, non sarò. Per la via stretta

non indugio in inutili fermate.

Tengo un capo del filo. Sulla vetta

 

il suo viso, la lirica d’un vate.

 

 

Mi trovo anch’io sul «promontorio dei secoli» (Manifesto del futurismo, 8), come il vecchio Marinetti. Chissà, volgersi indietro a volte è pericoloso: non ci si riconosce più. anche le foto tradiscono nel loro nitore. Un sorriso, sì, una smorfia o una posa plastica. Nulla più, nemmeno una parola. Eppure, il pensiero fluttua, informe, al di là della gravità che porta con sé. L’etimologia di solito rovina, senza pietà. E così è volgersi indietro, alla ricerca d’un senso, quando lo abbiamo davanti a noi, nel riflesso degli istanti che viviamo. Giorno per giorno, certo, inconsciamente. Meglio non accorgersene: si fa meno fatica a liberarsi di «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, 12). Siamo così, come crediamo d’essere, in una sorta di eterna proiezione di noi e del tutto. Il paradosso sta nello scoprirsi pensabili, ma non conoscibili, apparire e non essere. O, meglio, essere senza sapere chi si sia veramente. A un certo punto ci se ne rende pure conte. E forse è troppo tardi per qualsiasi rivalsa. Prendere o lasciare: tutto qui. Noi avanziamo verso la vetta, su quel promontorio tra rottami e macerie. Finché viene il giorno, benedetto giorno, in cui crolla un filo di vento e tutto ci appare come deve essere.

Ecco, per me l’anno comincia oggi. Va bene, lo concedo, ricomincia. Il moto circolare ci si addice perfettamente, se è vero che ci si ritrova sempre allo stesso punto. Non che mi dispiaccia, intendiamoci: siamo e qui e vogliamo pure restarci. Ma il fatto è che ci si sente addosso una responsabilità sempre maggiore, soprattutto adesso che i grandi siamo noi. Un tempo era diverso: si demandava, al riparo di non si sa nemmeno chi. Non sembrava difficile: era sempre stato così e così sempre sarebbe stato. Adesso decidiamo noi l’an e il quantum. Ci si augura vada bene. Abbiamo di che essere preoccupati, pur nella consapevolezza che possiamo attingere solo alla rappresentazione. Altri ci conforteranno se la scelta sia stata quella giusta. Si sale, ecco, «da l’infima lacuna / de l’universo» (Par. XXXIII 22-23) fino al punto più sublime. Nemmeno da lì vale la pena di volgersi indietro, che varrebbe poi volgersi indietro. Così almeno mi pare.

 

 

 

Preferisco darmi qualche piccolo proposito, magari buono, per il tempo a venire, che tra un anno mi riporterà sempre a questo punto, a fare bilanci. Non mi lamento, no. Avrebbe potuto essere più proficuo, ma tutto è sempre perfettibile: lo sappiamo. Mi sento fiducioso, questo sì: ho come la sensazione che certi nodi debbano sciogliersi. Tra tanta lirica, immagino, il viso amato emergerà tra mille, infiniti altri. Allora sì che sarà il giorno della festa. Fino ad allora navighiamo in questa sospensione. Una pagina, una voce, una parola. Ci si può pure accontentare di poco per dare vita a quadri di una notevole sensibilità. Non occorre tanto per accorgersi di quanto sia semplice cogliere il frutto a portata di mano. non lo si vuole ammettere, ecco. E l’anno corre, il tempo va, anche se sappiamo essere immobile. Sì, ammettiamolo una buona volta: siamo noi a correre. Che poi, questo me lo devono ancora spiegare, dove si corra, beh… nessuno lo sa. Si va, spinti in avanti o indietro.

Oggi resto qui, senza altro fare che dedicarmi un poco, non tanto, ma solo un poco a me stesso. Scrivo di me, di quel che vorrei fare e non vorrei fare. La poesia mi piace, questo è ovvio. La prosa mi spaventa alquanto: difficile da governare. Tutti affermano il contrario. Io vado controcorrente. Chi se ne importa. Andate, andate pure: solo chi si dedica alla poesia, ne sono convinto, può azzardare a mettere mano alla prosa. Chissà, forse quest’anno lo farò. Non che io non lo abbia già sperimentato; ma così, tanto per fare, per provarmici. Sarò più sistematico, a tavolino, come i grandi scrittori che in altro non s’ingegnano. Qualcosa verrà pur fuori. Qui, «sul promontorio dei secoli», ci si spingerà ancora più in là, a contemplare l’infinito e ignoto mare. tutto è navigazione, ce lo hanno ripetuto fino allo sfinimento. Me lo ripeto pure io, in questo specchio in cui pian piano mi sto calando, riflettendo me stesso e su me stesso. È pure sempre l’attimo in cui cerco di fermarmi su di me, quel nulla che è stato e che sarà. Sul presente non posso mai garantire. Posso dire solo che l’anno prossimo, di questo giorno, festeggerò il successo.

 

 

© Federico Cinti

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Il the delle befane

Io fui. So che sarò. Non so se sono.

La retta si sdipana. Il punto oscilla

tra l’essere e il non essere. Un frastuono

ho dintorno. Un silenzio di tranquilla

eternità si scopre a mano a mano

davanti e dietro. Scocca una scintilla.

Eco di giorni, il limite lontano

l’ombra del tempo. Il vertice divide

l’incidenza prospettica pian piano.

Esile il filo tra le trame stride,

breve brivido all’attimo improvviso:

esterrefatto l’occhio più non vide.

Fu e più non fu, nulla di tutto intriso

ancora, sempre. Il circolo si chiude

nello specchio. L’immagine d’un viso

era ciò che m’illuse, che m’illude.

«Mi sa proprio che se ne siano accorti, quando è arrivato», m’accennò distratto l’Ingegnere, forse per saggiare la mia reazione. Ogni tanto lo fa, quasi per gioco, di cogliermi all’improvviso nel bel mezzo di un’amena chiacchierata, in una di quelle intercapedini in cui l’argomento ha tutta l’apparenza di essere sul punto di finire.

«E quindi farà parte dell’inclita accolita pure lui?», sussurrai tutto d’un fiato, come quando ci si deve togliere un peso di dosso e si cerca di fare il più velocemente possibile.

«È ovvio», s’affrettò a rassicurarmi in un sorriso. «Sai che non può mancare». E, dopo un attimo di calcolata pausa, soggiunse: «E nemmeno tu».

«Eh già, nemmeno io», gli feci eco. «Ma perché», tentai di continuare, «tutte le volte mi si pone a fianco? Il tavolone ovale col velluto verde è molto grande. Proprio lì deve fare il suo nido?».

«Illogiche dinamiche spaziali», sentenziò, «una sorta di contrappeso cosmico, in modo da riequilibrare le concave convessità siderali».

Non faceva una piega, naturalmente, il suo ragionamento, anche se non ho mai capito perché al rituale the delle befane io non dovessi mancare. E non manco, va da sé: ci tengo a non fare torto a chicchessia. Per chiudere le feste, come si sa, per consumare le briciole ancora rimaste dai fasti gastronomici della fine e del principio.

«Il fatto è che è un fiume in piena», provai a spiegargli, «e, quando poi inizia a bere un po’, è pure peggio». Guardai nel mio bicchiere: lo tenevo gelosamente in mano, temendo me lo potesse chiedere indietro.

«Ma tu non devi fare nulla: ti accomodi lì, ascolti, abbozzi, ogni tanto un piccolo colpo di fioretto. Suvvia, non devo insegnarti il mestiere», mi suggerì sornione, alzandosi in piedi e cominciando a camminare e a mimare con le mani un’arte consumata.

Poi, voltandosi di scatto, mi fissò e intravide un’espressione umbratile sul mio viso: «Quel posto è tuo, lo hai ricevuto dalla storia».

«Quel posto è mio», ripetei meccanicamente.

«Per chiudere l’anno vecchio e iniziare quello nuovo un piccolo sacrificio è d’uopo: è sempre stato così», mi ricordò, appoggiandosi alla sedia di fianco alla mia. «Assecondalo, che t’importa? Ci penserai poi l’anno prossimo».

Già, anche l’anno prossimo mi ritroverò su quello scranno storico. Il mio riscatto sembra proprio impossibile. Tra tante persone il fato s’accanisce contro il povero derelitto solito. E pensare che viene addirittura da non so dove, dalle nebbie oltramontane, per incontrare parenti e amici, per trascorrere qualche giorno a Bologna. io mi ci ritrovai per caso, forse quasi per sbaglio, quando appunto un invito sibillino recitò pressappoco così: “Facciamo il the della befana: la tua presenza è molto gradita”. Accettai, vellicato nell’intimo, ma poi il messaggio fu rettificato subito così: “Ah, scusa, è poi il the delle befane”. E quella specie d’intruglio felino finì per acciambellarsi sulla sedia accanto alla mia per ore e ore.

«Il tempo è dalla nostra, Tranquillo», rettificò a voce l’Ingegnere, «è per un’opera di bene: Dio perdona tante cose…». Sospese studiatamente l’allusione.

«Lasciamo stare Manzoni, dai», lo implorai. Eppure, penso che sia vero. Penso, intendo, che la provvida sventura in qualche modo aiuti i più intrepidi. Per questo me lo sobbarcherò pure quest’anno, mentre la seggiola scricchiolerà e il bicchiere continuerà a svuotarsi e a riempirsi. Mi mangerò un po’ di cioccolato, fondente ça va sans dire, per dare l’impressione di fare qualche cosa.

So che, quando uscirà di casa, tutti tireranno un sospiro di sollievo. No, non è cattivo: è semplicemente ingombrante, come certi pensieri che non ti lasciano mai. chissà, forse altro non è se non il tempo che passa, che incombe. Ce lo si sente addosso, di fianco, ma non lo si afferra mai. a me pare non esistere, il tempo dico, eppure si materializza così, nei riti e nella ciclicità del tempo: una casa, una tavola, un dolce d’occasione, un ospite che non si incontra se non lì, in quell’interstizio.

L’Ingegnere lo sa, lo sa benissimo: sa sempre tutto, lui. Per questo me lo mette accanto, perché è lui che lo fa, scientemente. Crede io non lo abbia capito, ma è il gioco delle parti: ognuno interpreta il suo ruolo finché, come oggi, non mi metto a scriverne, senza capo né coda. Ma il cerchio non ha né inizio né fine, come le cose che facciamo da sempre, come le feste natalizie che aspettiamo per poi farci rattristare tutte le volte. La mia mamma passa sempre Natale in lacrime, ricordando la sua mamma, poi suo marito, poi sua sorella. Insomma, sono più presenti le assenze che altro.

E va bene, anche quest’anno mi siederò vicino a… a… a pensarci bene non ne so neppure il nome. Mi siederò accanto a lui, il cui soprannome è meglio io taccia per verecondia, e attenderò che s’aprano le danze, mentre l’Ingegnere locupleterà doviziosamente il mio piattino sempre in lacrime per i minuti edaci della compagnia. Penso sia questo il senso del the delle befane cui davvero, non posso non ammetterlo, non posso mancare.

E va bene, anche quest’anno mi siederò vicino a… a… a pensarci bene non ne so neppure il nome. Mi siederò accanto a lui, il cui soprannome è meglio io taccia per verecondia, e attenderò che s’aprano le danze, mentre l’Ingegnere locupleterà doviziosamente il mio piattino sempre in lacrime per i minuti edaci della compagnia. Penso sia questo il senso del the delle befane cui davvero, non posso non ammetterlo, non posso mancare.

 

 

© Federico Cinti

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Pensiero a un amico

 

Alba di perla pallida, il pensiero

disegna sogni nuovi. Nei precordi

cupo il rimbombo assiduo del mistero.

 

Inizio e fine, il ciclo dei ricordi

chiude e riapre. In fondo scorre il fiume,

eco lontana di mille echi sordi.

 

Ride un raggio. Nel labile barlume

ombre non viste mai, qualche rovina

nuda tra le macerie, tra le brume.

 

Esule in terra, l’anima sconfina

memore di che fu. Nulla dintorno,

non altro oltre la fragile mattina.

 

Arcana vanità, solo il ritorno

tenue di ciò che dicono sepolto,

un tempo senza età, l’orma d’un giorno

 

mirabile, il sorridere d’un volto.

 

 

Rito d’un giorno eterno che ritorna, nel tempo che in fondo altro non è se non memoria. Inutile volgersi avanti, ovviamente, se non ci si volge indietro. Perché conoscere è riconoscere. Triti pensieri, certo, già detti e già sentiti; eppure, come il sole, si riaffacciano prepotenti, memorie di memorie. sul piccolo nostro segmento l’idea della retta infinita, del prima e del poi. Si torna sempre a quel presente che non c’è, fuggitivo nel riso beffardo di quei soles che occidere et redire possunt (Catullo, carm. V 4). Mi sento il don Camillo che cammina all’infinito sul cerchio e se la prende con i numeri (G. Guareschi, Le lampade e la luce). Disegni della mente, non credo siano più che questo, un fatto di linguaggio, per non dire di rappresentazione. Un punto, ecco che cos’è, soltanto un punto che vaga. E noi lo seguiamo, come s’insegue tutto ciò che si desidera, ma non si può afferrare.

Ora, perché nel giorno del compleanno di Cicerone, questo benedetto 3 gennaio, io mi metta a parlare di qualche cosa che non esiste, il tempo esattamente, proprio non lo so. ne parlo, tutto qui, come di certe nostre fantasticherie sull’orlo del giorno, quando un filo di sole pare un miracolo dopo le tenebre d’una notte intera. Sogno anche quello, forse, anche quel raggio multiforme. Chissà, forse il volto di quel Marco Tullio che tanta parte ebbe dal ginnasio in poi nel mio breve torno d’anni. Ha qualche cosa in sé che altri non hanno. Lo leggo e lo rileggo, ma non arrivo mai al fondo, sempre che ci si possa arrivare. Si affermerà pure di tanti altri, ma Cicerone… ecco, Cicerone ha un quid pluris inarrivabile.  

Non so quante volte l’ho ripetuto al mio amico Ingegnere. Lui inclina verso altri ricordi, verso altri lidi memoriali: ognuno ha le proprie derive è inevitabile. Anche questo è divenuto rito. Oggi verrà ad limina, così da inaugurare l’anno nuovo. Io ricorderò dei miei, lui dei suoi. La sua sarà una concione in piena regola, il mio un tinnulo sorridere di bimbo. Eppure, i due avvenimenti sono in qualche modo collegati, stretti da un filo che oserei chiamare logico. Alle volte, per uno strano gioco combinatorio, ci si trova complementari, nel solito similes cum similibus facillime congregantur.

«Non poteva che essere così», tuonerà veemente, col suo piglio oratorio.

«Non poteva, di certo, non poteva», gli farò eco io, come già tante altre volte, appoggiandomi sullo schienale a guardare in alto.

«Nei corsi e nei ricorsi storici», chioserà vichianamente, «il senso si attua solo nel ciclico ritorno». Lo fisserò incredulo, pensando più a Nietzsche che al povero secentista napoletano. Eppure, le fusioni mi piacciono, anche se non azzarderò l’aggiunta del tassello virgiliano della IV Ecloga.

«Non credi che, se posto su assi cartesiani, questo strano geoide», continuerà mimando con le mani una sfera imperfetta, «assumerebbe la valenza paradigmatica di un corpuscolo metamorfico in perenne movimento su se stesso e attorno all’universo intero?», per chiudere nel compiacimento d’un sorriso.

«È ovvio che io lo creda», lo rassicurerò, pur vedendo davanti a me solo un foglietto bianco con una croce macchiata da una goccia di caffè. Anche perché, il motivo vero per cui viene con Elena, la pazientissima moglie, è poi collaudare la nuova moca, presa nel negozietto di fiducia sotto casa pietendo un po’ di sconto.

 

 

 

Con la tazzina in mano penserò al buon Cicerone, senza farne parola con nessuno. Anch’egli, come è noto, vagò per gli spazi siderali, se è suo il somnium Scipionis. Per me non lo è: non è il suo stile. Provai a suggerirlo anche a una collega, un giorno, e mi rispose risentita: «Ah, no, anche questo adesso!». Ecco, impossibile pensare da soli, al di là di quel che libri compilati da qualche ignoto estensore propalano agli ignari banditori del sapere. Sì, così, io penserò a Cicerone, mentre si consumerà qualche fetta di crostata o la torta di riso, cui anche io – non so come – ho collaborato a realizzare. Mi resterà, come già mi restò, davanti agli occhi il volto di quel genio della parola. Chissà, un inconsapevole gioco di specchi in cui l’uno è nel tutto e tutto nell’uno.

 

 

 

© Federico Cinti

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Buon Natale!

 

Buio nel cuore, buio in tutto il mondo.

Una luce rifulse in un vagito,

orma d’eternità, nel più profondo.

 

Nell’anima un sorridere inaudito,

nella notte un chiarore, oltre la siepe

attorno uno stupore d’infinito.

 

Tremule le auree stelle, tra le crepe

azzurre schiere angeliche, una culla,

la paglia della stalla nel presepe,

 

eterea nel silenzio una fanciulla.

 

 

 

Tutto già è stato raccontato, ma mai veramente il ripetersi di quello stupito miracolo di cui oggi si fa memoria. Buio in tutto il mondo e a un tratto un vagito. Il nuovo fiat lux a rigenerare il mondo. Il senso scava lento dentro il cuore, distilla a goccia a goccia. Eppure, resta qualche cosa. In questo giorno è già una luce nuova, non c’è dubbio. In noi si chiude e s’apre qualche cosa d’indefinibile. Non dobbiamo essere noi a capire: occorre solo farsi trasportare da quell’indecifrabile mistero. Incute timore, certo: ci si spaventa davanti a ciò che non si conosce.

È la forza del presepe, di un luogo fuori del tempo e dello spazio. realtà e contemporaneamente simbolo. Per noi pure vale lo stesso. Fermarci su quella soglia implica il nostro accettare il limite, ma anche la nostra ragione può affermare che «coi piè ristetti e con gli occhi passai / di là» (Purg. XXVIII 34-35). Di nuovo il roveto ardente si fa visibile nel volto che «mi parve pinto de la nostra effige» (Par. XXXIII 131). Uno specchio, nulla di più, lo specchio in cui vediamo le realtà ultime, i novissimi, così come sono, perché in esso «vedi le cose contingenti / anzi che sieno in sé, mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 16-18).

Ecco, anch’io stamattina mi sono fermato su quella soglia, sul piccolo presepe della nostra parrocchia e mi sono ritrovato nel silenzio pensoso di chi non ha bisogno di altro per appagare la propria sete, non tanto diversa poi dalla «sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia» (Purg. XXI 1-3). Non ci si può non soffermare a riflettere, come allo specchio appunto, nella penombra d’un giorno in cui il sole invitto fa mostra di sé nel suo bagliore più autentico, di bimbo appena nato, a ricordarci chi siamo e per che cosa siamo fatti.

 

 

© Federico Cinti

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Sisi, «Abschied von Ithaka» – «Addio a Itaca» (Winterlieder))

 

«Azzurro il cielo, azzurre le montagne,

ma più di tutto quanto azzurro è il mare»;

E Itaca, cui il sole fa corona,

dalle onde azzurre adesso mi saluta.

 

Già il Grifone mi porta via lontano

dal rosso intenso della tua scogliera;

e mi accompagna sempre il tuo profumo,

in altre isole ignoto, solo tuo.

 

In un soffio sfuggisti alla mia vista

nascosta da altre isole dintorno;

eppure, nel profondo del mio cuore

s’impresse la tua immagine di sole.

 

Così voglio portarmela con cura

nel freddo Nord lontano, via lontano.

Tu, nei nevosi giorni deprimenti,

col sole sii il conforto del mio cuore.

 

 

Nulla vale il silenzio d’un addio. Sisi lo sapeva bene, nel suo instancabile vagabondaggio di gabbiano senza patria, senza nido. In questo giorno di vigilia natalizia, in questo 24 dicembre, in cui avrebbe spesso preferito celebrare il suo compleanno lontano dai fastigi della corte viennese e dal suo rigido cerimoniale spagnolo, provo a renderle un piccolo omaggio. un’ulisside anch’ella, in perenne fuga da se stessa e dal mondo, sospinta altrove, sempre altrove: il senso del viaggio, lo sapeva bene, è nel viaggio stesso, non nella meta. Per lei valeva il sogno, non la sua realizzazione. Andare, tutto qui: questo contava per lei e questo fece da un certo punto della sua vita in poi, quando tutto cominciò a pesarle, da cui la lirica da me tradotta èpresa. Anch’ella, come il figlio di Laerte,  «baciò quella petrosa Itaca» (U. foscolo, A Zainto, 12), ma senza fare ritorno ad alcun luogo.

Amò il distacco, l’abbandono, il nascondimento. Tutto sfioriva all’ombra dei ricordi, colori, odori, sensazioni, per rinascere ed eternarsi in poesie d’una struggente malinconia. Alle spalle si lasciava un’isola e assieme a essa tutto l’universo. Un suono, una carezza, l’azzurro del mare, il rosso della scogliera, l’oro del sole, tutto diveniva un crogiuolo d’indefinibile nettezza. In quell’addio la consolazione in un tempo di gelo e inerzia. Con un animo tale compose i Winterlieder, i Canti d’inverno, il secondo libro del suo Poetische Tagebuch. Con un animo tale guardò l’ultima volta Itaca, rossa nelle sue scogliere, uscire dall’azzurro del cielo, dei monti, del mare.

Anche per lei fu così, un’altra volta, eternamente, «che dolci sogni mi spirò la vista / di quel lontano mar, quei monti azzurri / che di qua scopro, e che varcare un giorno / io mi pensava» (G. Leopardi, Ricordanze, 21-24), anche se quelle montagne, «dopo varcate, / sì grande spazio di su voi non pare, / che maggior prima non lo invidïate» (G. Pascoli, Alexandros, II 16-18). Nulla sarà di ciò che non è stato: il sogno vive di per sé, comunque, oltre la linea tremula del mare. questa, forse, la consolazione nei giorni candidi di neve, nell’inerzia cristallina del non essere o de non essere più. questo, forse, l’addio, l’ultimo addio dal mito per entrare nella storia.

Per i cultori della lingua tedesca riporto, more solito, l’originale, perché il significante restituisca all’orecchio la sostanza fonica che nella resa si è talvolta plasticamente mutata in altro suono, in altra voce, in altro sguardo. Il mio sguardo, la mia voce, il mio suono, distanti nel tempo e nello spazio, ma non nel cuore, ancora su quel panfilo, su quel Grifone o Grief che solcava silente il Mediterraneo. Così di nuovo, «per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno» (Purg. I 1-2), verso un’altra isola, verso un’altra poesia.

 

Abschied von Ithaka.

 

«Blau ist die Luft, blau sind die Berge,

Am blausten aber ist das Meer»;

Und Ithaka, die sonnbekränzte,

Winkt aus den blauen Wellen her.

 

Schon trägt der Greif mich weit und weiter

Von deinem roten Felsgestad;

Und immer noch ist mein Begleiter

Der Duft, den nur dein Eiland hat.

 

Bald bist du meinem Blick entschwunden,

Durch neue Inselreih’n verdeckt;

Doch tief in meinem Herzen unten

Hat sich dein sonnig Bild versteckt.

 

So will ich’s sorgsam weiter tragen

Weit in den kalten Norden fort.

Sei dann in schneebedrückten Tagen

Mein Herzenssonnentrost auch dort!

 

 

© Federico Cinti

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Nel bosco di Valentina

 

Nulla. Il treno fischiò. La ferrovia

emerse tra le tenebre. Una scena,

la vita, la ragione, la follia.

 

Brevi brividi. Lacrime di pena,

occhi aperti laggiù. D’un tratto un grumo

si sciolse: il volto, il bosco, l’altalena.

 

Cadde il velo dall’anima. Oltre il fumo

onirico sbocciò la primavera

dimenticata, un labile profumo.

 

Il cuore vide. Nella notte nera

vacillò il senso. Sulla via smarrita

attinse alla sua immagine non vera.

 

Lontano il giorno, il cranio tra le dita

esitò nello specchio: restò intriso

nell’incrinarsi, un segno di matita.

 

Tutto già fu. Tutto era già deciso,

impossibile sogno che declina

nel tempo, in noi, nell’ultimo sorriso

 

assorto, senza età, di valentina.

 

 

Delle mie divagazioni in ambito teatrale, se si possono chiamare così, ho già raccontato altrove. Poca cosa, intendiamoci, rispetto al magmatico impeto che spinge alla creatività poetica a meno che, e questo è più che ovvio, non s’intenda tutto ciò che ha a che fare con la creatività una sorta di poesia infinita. E questo potrebbe pure essere, se è impossibile trovare il famoso centro di gravità permanente o quel moto uniforme pensabile sì, ma non realizzabile. O almeno credo, per quel poco che mi è dato sapere. Anzi, non sapere: conoscere. Perché sapienza e conoscenza non coincidono o non dovrebbero coincidere. La lingua alle volte ci offre strumenti instabili di definizione di un concetto. Lo si sa, lo si vede, esperienza insomma quotidiana. Me ne meraviglio ancora, lo ammetto candidamente; ma è più forte di me. E forse è pure giusto così. mi meraviglio e così, come affermerebbe qualcuno, mi vedo da fuori, dall’esterno, come i pazzi pirandelliani. Ecco, questo è il senso dello spettacolo cui, mio malgrado, sono stato coinvolto. Il titolo è proprio quello di cui ho provato a parlare nel mio testo poetico, Il bosco di Valentina.

Penso scrivendo e, quindi, vado un po’ a ruota libera, currenti calamo. Nulla di più che un bosco, se volete la famosa «selva oscura» (Inf. I 2), il cui corrispondente primigenio era «la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2) la scena della nostra vita. già, perché ognuno di noi ha il suo ruolo, come a teatro: a volte decide d’impersonare la maschera che si è scelto, altre la riceve senza accorgersene. Resta così, nel limbo della propria indifferenza, finché un giorno le bevute devono tornare pari, simili ai nodi al pettine. Meglio è prepararsi a poco a poco, come ci consiglierebbe il buon Seneca, in una sorta di cottidie mori. A poco a poco, quindi, senza fatica apparente alcuna, in modo che, quando ci si ritrovi davanti allo specchio, non ci si prenda troppa paura. La nostra immagine rischia di incrinare non certo la superficie, bensì la profondità di quel che si specchia. E lì nasce il dramma o lì muore, se ci si accorge che dall’altra parte tutto resta intero.  Noi parliamo allo specchio, ma non sempre lo specchio parla di noi. Solo Alice è riuscita a trascorrere la linea invisibile che separa i mondi. Il resto è letteratura.

In questo gioco teatrale proviamo a mettere a nudo la follia della ragione. Anzi no, la pazzia. Uno degli attori mi ha fatto notare che follia e pazzia non sono la stessa cosa. Ed è vero, ho pensato, perché la sinonimia non esiste. Ne abbiamo coscienza, certo, della nostra follia, in una sorta di lucidità umoristica, ma non possiamo averne della pazzia, che ci relega al di fuori non solo di noi, bensì pure del consorzio umano. Dentro e fori, ecco: di nuovo il concetto di specchio o di tempio o di spazio. non se ne esce e, quando se ne esce, ci si ritrova in un altro specchio, in un altro tempio, in un altro spazio. negli infiniti mondi possibili anche noi possiamo vestire gli infiniti panni dei secoli ed essere felici, se mai qualcuno lo è stato veramente. Anche i nostri progenitori non lo saranno stati fino in fondo, se hanno avuto bisogno di cogliere di quel frutto proibito. A parole, certo, proibito, ma nei fatti coglibilissimo. E ci si volge indietro, al bel tempo andato, quando magari si stava molto peggio in un sogno di felicità che non sappiamo raggiungere oggi. Il problema è, forse, non ciò che siamo, bensì ciò che non siamo. Né possiamo essere, intendiamoci.

Ecco, questo l’ho capito, o penso d’averlo capito, solo facendo un po’ di teatro con il mio amico Luigi, che ha deciso di mandarmi in scena così come sono. In fondo, noi rappresentiamo sempre noi stessi, nel travaglio creativo d’ogni giornata. Siamo in una chiesa, il 15, il 16 e il 17 dicembre, una chiesina di Bologna, chiusa perlopiù gli altri giorni dell’anno. Io stesso non ci ero mai stato prima d’averci fatto un po’ di teatro. È tra via Begatto e via Quadri, nel pieno centro di Bologna, nella zona che più mi piace e non ne so dire il motivo. Quando penso a un luogo bello della mia città, chissà perché, torno con la memoria proprio a quegli incroci, a quei palazzi, a quei portici che mi hanno visto vivere. Ecco, mi hanno visto, senza che io mi vedessi. E adesso che non mi vedo più, vedo io quei luoghi senza di me, in una dimensione metafisica. Sì, perché valgono di per sé, senza che io li agisca necessariamente. È nel dopo, nella riflessione, che tutto acquisisce senso. È così pure nel nostro Bosco di Valentina, dove una mamma, valentina appunto, ripercorre le sue tragedie assieme ad altri malcapitati come lei in una clinica psichiatrica. La vita, ecco, questa è la clinica psichiatrica, dove ognuno prende il suo treno col suo fardello e lo condivide, alle volte non sa con chi, altre con coloro che si impara a conoscere. Io resto lì, resto a guardare e a imparare, perché «altro diletto che ’mparar non provo» (Petrarca, Triumphus Cupidinis, I 21).

 

 

 

© Federico Cinti

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Salvemini 1990-2022

 

Il tempo s’arrestò. Tutto fu perso

in quell’attimo eterno: un fumo denso

di sé intrise per sempre il cielo terso.

 

Il velo si squarciò. Nel vuoto immenso

un silenzio indicibile, assoluto:

si smarrì in quell’abisso orrido il senso.

 

Fu un pianto senza lacrime nel muto

urlo lontano, sempre più lontano:

l’occhio fissò quell’ultimo saluto.

 

Pezzi d’azzurro inerte. Il cuore insano

vagò in cerca sull’arida ferita

d’un perché. Quel procedere fu vano.

 

Rimase la memoria, mai tradita,

mai più, rimase un grumo di dolore

al cielo, una speranza d’altra vita.

 

Dal buio di quel seme nacque un fiore

luminoso. Nell’anima non tace

il grido del ricordo, antico ardore

 

di chi ancora desidera la pace.

 

 

non ci si può non fermare, ogni anno, il 6 dicembre. da quel lontano 1990 una ferita continua a sanguinare. Ognuno di noi, con gli strumenti a sua disposizione, rende omaggio a chi quel limpido giovedì di dicembre ha portato a compimento il proprio cammino. Noi restiamo al di qua, sulla soglia invisibile dei mondi. Non è difficile capire: è impossibile. Uno sforzo vano, tutto qui, se cerchiamo una giustificazione a ciò che non ci è dato sapere. Chi non è in grado di volare più alto, rischia di fissare soltanto «la campana fioca / del cielo» (G. Ungaretti, Solitudine, 4-5) con l’urlo muto di Munch. Qualche cosa è cambiato, certo: è cambiato tutto. Quel 6 dicembre è divenuto il paradigma, la pietra di paragone, la radice su cui misurare ogni parola, ogni gesto, ogni desiderio.

Erano i miei amici, erano tanti miei ex-compagni di scuola, silenziosi testimoni di una ragione che ancora non comprendo. La comprenderò, certo, un giorno, per illuminazione, quando il dolore si farà strumento di catarsi mia e collettiva. Per ora non mi resta che apportare il mio insulso contributo a una memoria che tiene ancorati a una responsabilità. Dopo quel giorno nulla è stato più come prima, nulla può più essere come prima. Questo il senso del ricordo. Al funerale, lunedì 10 dicembre, un funerale di Stato, lessi un cartello: «Se l’amore è vita, voi non morirete mai». non so chi lo abbia scritto e forse non ha nemmeno importanza saperlo. Era vero, è ancora vero.

Io conoscevo in particolare Sara Baroncini, mia compagna delle elementari, ed Elisabetta Patrizi, delle medie. Con loro avevo condiviso un percorso di vita lungo: a quell’età, quindici anni, la scuola era tutto per noi. Ne ho parlato poi con tanti amici, Enrico, un amico che ogni tanto mi scarrozza in giro col suo taxi, con Elisa, un’altra compagna divenuta medico, con Stefano Orlandi, ex-vicesindaco di Casalecchio che in quel triste frangente si diede molto da fare e che ora è quasi dimenticato, con Roberto Mignani, altro ex-vicesindaco. In tutti resta il senso d’impotenza davanti a qualche cosa di più grande, d’incommensurabile. A noi è stato chiesto di collaborare alla costruzione d’un mondo di pace, attraverso il doloroso lavacro della testimonianza. Il nostro cammino non si è ancora concluso, non è ancora stato portato a perfezione. Fino a quel giorno il 6 dicembre sarà un giorno in cui ricordiamo la traumatica presa di coscienza che ci ha resi nuovi costruttori di pace.

Eppure, con buona pace del Recanatese, non può finire così, in quell’«abisso orrido, immenso, / ov’ei, precipitando, il tutto oblia» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 35-36). Siamo qui a pretendere che quel sacrificio, se veramente è santo e inviolabile, non sia stato vano. La mano di quei nostri amici non ci è stata tolta, ma ci è stata mutata, lungo la sponda invisibile, al di là di quello specchio dove siamo già visti come siamo veramente.

 

 

 

© Federico Cinti

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All’Ingegnere

 

Antichità dell’attimo, ritorni

lento, eppure affrettandoti, sul muto

limitare dei secoli e dei giorni.

 

In questo, non in altro, è l’assoluto,

nello scorrere rapido d’un fiume

giunto placido all’ultimo saluto.

 

Eterno è il tempo. Al lampo d’un barlume

galleggia il senso naufrago ormai sazio:

nulla si perde, tutto si riassume.

 

Era un pallido sogno anche lo spazio

raffigurato, un piano cartesiano

emerso tra le trame d’uno strazio.

 

L’occhio discerne un universo vano,

un’ombra in mezzo alle ombre sulla via;

cala il silenzio al cenno d’una mano

 

assorta: resta solo la poesia.

 

 

inesausto il dialogo continua, anche a distanza, seppure virtuale. Ci si è pian piano abituati a guardare al di là dello specchio, d’acqua o di vetro poco importa, oltre i cristalli liquidi, tanto che non sappiamo più «chi va o chi resta» (E. Montale, La casa dei doganieri, 22). Esserci è tutto. Il tempo s’è fatta pia illusione di un «Oceano senz’onda» (G. Pascoli, Alexandros, I 7), immobile nello scorrere frenetico. Solo così può attuarsi il festina lente, scelto non a caso da Aldo Manuzio (il delfino per il primo e l’ancora per il secondo), come emblema per le sue edizioni che resistono ai secoli più del fragile cascame tipografico quotidianamente gettato nei maceri. La realtà è più ossimorica della rappresentazione verbale che s’affanna a sanarne le contraddizioni, spesso apparenti. Il mio amico Ingegnere ne è più consapevole di me, o almeno lo dà a intendere, sempre con gli occhi al cielo a fissare gli aerei, una delle sue irrefrenabili passioni.

Il tempo non esiste. È un ritaglio più o meno riuscito dell’infinita serie dei secoli. Non nascondiamocelo. È una rappresentazione del mondo. Oggi si tende a obliterarlo, ricercandone la radice. Sarà la velocità della luce a determinarlo? Ma se non esiste, come si fa a registrarne il passaggio. Parlo sempre del tempo, certo. Se ciò che fu e simile a ciò che sarà, se insomma penso il passato e il futuro, come posso conoscerlo, se lo intuisco appena nel momento in cui muore, che – tra l’altro – è lo stesso in cui nasce? Sì, il tempo non esiste: è esistito, esisterà, ma non esiste. È un fiume immobile. Gli antichi lo sapevano bene e ne circondavano il mondo nella loro ricerca di senso: c’era un limite oltre cui tutto era inghiottito, «abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia» (G. Leopardi, Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia, 35-36). Forse perché il tempo è antico come è antico il mondo.

 

 

 

Mi stringo nelle spalle, il mio amico Ingegnere lo sa. Non oso dirgli che pure lo spazio esiste solo come immagine. Sublime immagine, intendiamoci, ma pura immagine, soprattutto nel momento in cui si vuole obliterare la dimensione metafisica. Oltre la fisica, oltre il dato empirico, è ovvio, rimane il mistero inconoscibile: «le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (Par. I 103-105). Chissà, se così si sana la dicotomia tra fenomeno e noumeno: in Dio immagine riflessa, riflesso stesso e specchio coincidono con la cosa in sé, il principio ontologico. Mettiamolo pure su assi cartesiani, diamone pure le coordinate sul piano e nel suo perpendicolo. Dov’è lo spazio? forse esiste solo perché ne abbiamo tracciato i confini, il perimetro, abbiamo cercato di misurarlo. Ma dove inizia e dove finisce? Se non avessimo posto il punto al centro dell’ipotetico foglio, lo spazio non ci sarebbe. Lo abbiamo inventato noi per dissetare l’arsura di conoscenza che ci divora. Esiste forse il vuoto, ecco, attorno a quel punto. Ma è poi vuoto sul serio? Illusione, direbbe il buon Leopardi, ragionando sulla materialità dell’infinito e sull’infinità materiale.

 

 

 

Mi sa che resta solo la poesia, linguaggio dei linguaggi, parola creatrice per eccellenza, quella che aleggiava sulle acque prima che fossero separate dalla terra. Mito o realtà? E chi può affermare con certezza l’infondatezza del primo e la sicurezza della seconda? Anche il mio amico Ingegnere farebbe uno dei sorrisi dei suoi, per dimostrarmi che è solidale, che ha compreso il nocciolo della questione. Ed è vero: sa sempre tutto. Mi verrebbe da rispondergli, sospirando: non equidem invideo, miror magis (Virgilio, Eclogae, I 11), ma poi lascio perdere. Non è il caso, lo so: mi perderei solo in quella «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5) che altro non è, se proprio si vuole insistere, se non «la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2), dove aleggia cantando e scegliendo fiori Matelda, la felicità originaria, che pure non bastava a dare il senso ai progenitori e nemmeno agli ultimi degli ultimi nipoti. insomma, in questo giorno di ritorni, il tempo pare fermarsi in uno spazio che non esiste, con buona pace di sant’Agostino cui nemmeno veniva una definizione di tempo, figuriamoci di spazio. resta il poeta, appunto, e la sua poesia.

 

 

 

© Federico Cinti

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Sulle soglie del bosco – Auguri a Elena

 

Esitai. Sul confine dei ricordi

la via su cui smarrirsi o ritrovarsi,

eco di un’eco al soffio dei precordi.

 

Nulla dintorno. I miei pensieri sparsi

al limite del bosco. Tra le foglie

la traccia dell’età, solchi riarsi.

 

Un sogno, tutto qui. Ci si raccoglie

per un altro sorriso. Scorre il fiume

placido. Nello specchio altre ardue soglie,

 

in lontananza l’ombra d’un barlume.

 

 

Non ne so il motivo, ma l’aureo pulviscolo di quest’ottobre così lento «somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto» (G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare). Ce lo si sente addosso, impalpabile, eppure percepibile, come in un sogno di cui non si ricordi se non d’avere sognato, quando in noi «quasi tutta cessa / nostra visione, e ancor ci distilla / nel core il dolce che nacque da essa» (Par. XXXIII 61-63). E ci si ritrova «sulle soglie / del bosco» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-2), «per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita» (Inf. I 2-3), o la «divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2) del Paradiso terrestre.

Non ne so il motivo, ma non importa nemmeno saperlo. Tutto rientra nell’eterno scorrere del tempo, al di qua o al di là non rileva. Matelda era al di là, «ridea da l’altra riva» (Purg. XXVIII 67), oltre quel «rio, / che ’n ver sinistra, con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo» (Purg. XXVIII 25-27), in un’aura di sogno senza fine, in quella foresta incorrotta che per Dante sarebbe diventata una «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5). Storie di boschi, di selve e di pinete, in quest’autunno che già ha i segni della malinconia incipiente. Poesia, solo poesia, vale a dire vita che si fa trascendenza nel transeunte. Un fiume, tutto qui, in cui non ci si vede riflessi che per una volta soltanto. E di quel fiume resta solo il suono, resta il «fruscio / sottile, assiduo, quasi di cipressi; // come di un fiume che cercasse  il mare / inesistente, in un immenso piano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 11-14)

 

 

 

Ecco, quindi, «sulle soglie / del bosco», l’incipiente autunno, quando «si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie» (Inf. III 112-14), come «tra i nudi sassi / dello scabro apennino» (G. Leopardi, Il pensiero dominante, 29-30), dove l’azzurrità del cielo s’adagia tra gli alberi e le case. Mi ci ritrovo, quasi fosse la mia stagione, mentre i giorni s’accorciano appena appena «e i brevi dì» somigliano a «tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-13), mi ci ritrovo in quest’autunno mite e pallido, simile a una carezza, e mi ci abbandono. Intorno sono favole di antichi miti e storie che si rincorrono negli arzigogoli celesti del vento, portando con sé «la foglia di rosa, / e la foglia d’alloro» (G. Leopardi, Iimitazione, 12-13).

 

 

 

© Federico Cinti

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Sul’Attersee – Sisi, «An den Attersee»

 

Ancora e ancora, azzurrità delle onde,

tu non fai che legarmi alla tua spiaggia,

io lo conosco, lo conosco bene

lo zaffiro traslucido delle acque.

 

Simile all’Adriatico, che è azzurro,

il colore più bello t’ingioiella,

ad alzare lo sguardo verso il cielo,

ad abbassarlo, a me pare lo stesso.

 

E ancora svegli in me lo struggimento

per il mio amato, il mio diletto mare,

vorrei migrare via, simile ai cigni,

da queste rocce, via da queste cime.

 

Ma trattienilo tu, impetuoso cuore,

lo strazio atroce dello struggimento,

aspetta che l’autunno a pennellate

stenda rossi vessilli in boschi e valli.

 

E dillo tu all’azzurrità delle onde

nel separarsi un’altra volta: «Addio»,

salutameli tutti questi luoghi

amati intorno all’Attersee azzurro.

 

 

 

Coaguli di vivido colore, nei giorni d’un autunno che sapeva d’estate e di rimpianto, tanto simile a quello che si vive adesso tra le foglie accartocciate. L’azzurro intenso del mare, lo scintillare del verde che a un tratto si fa rosso, vessillo di un tempo in perenne metamorfosi. volgersi indietro forse non è lecito, in quello struggimento che diviene desiderio incolmabile di un desiderio irrealizzabile. Sulle alpi, tra i laghi austriaci, nel Salzkammergut, mentre i cigni vanno in cerca di luoghi più adatti a svernare, il cuore di chi scrive e di chi legge raggela al vento pallido d’una stagione che ha mutato d’abito. Un volo eterno della fantasia in una dimensione in cui nulla è più tangibile o raggiungibile, lassù, lassù, tra «due sole / nuvole tenui, rose, / due bianche spennellate // per tutto il ciel turchino» (G. Pascoli, Patria, 9-12). È il sogno dell’estate a ritornare prepotente.

 

 

 

Vagava sola, dimentica di tutto e da tutti dimenticata, l’imperatrice Elisabetta, alla ricerca d’un senso. E il paesaggio si tramuta nello specchio della sua anima, d’ogni anima che la legge o la rilegge, pure in traduzione, come nel caso di questo mio testo, in cui al canto dell’autrice s’aggiunge e s’adatta il controcanto di chi rende un modo d’essere in una sintonia divenuta sintonia. La poesia modula canti di giorni senza fine, di ricordi traslucidi nel solare. Su tutto è un velo impalpabile. Le parole, le immagini, i pensieri sono come «le foglie levi» persesi nel vento in cui «si perdea la sentenza di sibilla» (Par. XXXIII 65-66). Ecco la voce che non ha confini, eco di un’eco oltre i secoli.

Era il non omnis moriar d’oraziana memoria (carm. III 30, 6) a risuonare nei colori dell’anima. Ci si adagia in una contemplazione infinita, in una sospensione tra cielo e terra. ‘autunno sogna ciò che non c’è più e che non c’è ancora. nei versi d’una traduzione si rincorrono significanti e significati separati e complementari. Un filo ci conduce nel labirinto letterario. Nulla si dà mai per caso: tutto riemerge, a un tratto, come un fiume carsico all’aria diafana di un giorno senza età. ed Elisabetta è ancora qui, a parlarci di sé, del suo mondo interiore, delle sue malinconie. Forse è vero che nessuno mai l’ha conosciuta come possiamo conoscerla noi nello specchio delle sue carte, potere eternatore di un linguaggio universale nascostosi tra i ventricoli del cuore.

 

 

 

Per i cultori della lingua tedesca e, come è giusto che sia, per tutti coloro che desiderano ascoltare il suadente suono dell’originale, riporto il testo di Sisi, intitolato An den Attersee:

 

Immer wieder, blaue Wellen,

Lockt ihr mich an euren Strand,

Scheinen doch die saphirhellen

Wasser mir so wohlbekannt.

 

Wie die Adria, die blaue,

Schmückt die schönste Farbe euch,

Ob ich auf zum Himmel schaue,

Ob hinab, es dünkt mir gleich.

 

Und von neuem weckt das Sehnen

Ihr nach der geliebten See,

Möchte zieh’n, gleich Wanderschwänen,

Weit von dieser Felsenhöh’.

 

Züg’le noch, du ungestümes

Herz, die wilde Sehnsuchtsqual,

Warte, bis mit roten Bannern

Streift der Herbst durch Wald und Thal!

 

Sage dann den blauen Wellen

Scheidend noch einmal «ade»,

Grüssend all’ die lieben Stellen

An dem blauen Attersee.

 

 

 

© Federico Cinti

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