Nel vecchio asilo

 

Aleggia il giallo tenue. Una vertigine

mi sorprende, stupita meraviglia

di quella prima volta.

Tutto già fu. In un alito

 

dilegua la memoria. Lungo il ciglio

del prato i miei ricordi si rincorrono

come bimbi. Una bici

cigola impercettibile

 

scivolando veloce fino a perdersi

alla vista. Al sussurro di Filèmone

Bauci echeggia stupita,

mentre intorno è silenzio.

 

Il languore del giallo mi s’insinua

in ogni fibra. L’anima s’inebria

di vita. Intenso esala

dovunque, alito fragile

 

oltre la rete. Freme un desiderio

d’eternità. L’azzurro si ritaglia

in me il suo spazio. È l’oro

dolcissimo del tiglio.

 

 

Non vi è giugno in cui io non mi sorprenda al giallo dei tigli. Ogni volta mi stupisco di quell’ebrezza così impalpabile: circonda il mio piccolo angolo di cielo, costeggia i miei ricordi, mi stringe in un appagato stordimento. E mi sembra di tornare bambino, quando mi fermai per la prima volta a quel soffio leggero. Memorie antiche, così fresche, sempre così attuali. Nella ciclicità del tempo tutto si fa possibile, anche un istante di felicità.

Nel mio vecchio asilo dietro casa gli alberi sussurrano ancora antiche favole, eterni miti conosciuti da sempre e di cui non intendo mai veramente il mistero: li ascoltavo echeggiare dopo i giochi d’allora. Eppure, lo stupore rimane intatto. Tutto resta immutabile, fitto in un reliquiario fuori del tempo, in un groviglio senza età.

Oggi, che il vecchio asilo sotto casa non c’è più, riscopro quel richiamo, eco di un’eco nella memoria che cerca di conservare se stessa per difendersi dagli specchi della riflessione involontaria. Un’immagine ride. Nel silenzio degli anni resta fisso lo sguardo a quel perché delle cose. Fissare, non guardare, per non perdersi: il senso non ci è dato e non ci è tolto, ma si trasfigura in una dimensione d’ombra verso cui tendere le mani inconsapevoli.

Forse è nel giallo dei tigli che continua a vivere quell’io che ormai non sono più. Un segno lieve, una carezza involontaria mi risveglia dal torpore, non per volgermi indietro, bensì per guardare una realtà a rettangoli oltre la rete, oltre il limite di ciò che mi è dato sapere. 

 

 

© Federico Cinti

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Smarrimento

 

Un giorno strano,

questo. Mi pesa

sul cuore. Un vano

senso d’attesa

 

stringe, ma invano,

fuga sospesa,

non qui, lontano.

La mente arresa

 

sogna una vita

migliore altrove:

cerca, smarrita

 

tra cose nuove,

la via d’uscita,

ma non sa dove.

 

 

Nel sole languido di questo inizio giugno il vago smarrimento per la via non definita, incolore, quasi sospesa. Tutto sembra passare nell’inerzia dell’ora, sotto un cielo cinerino. Anch’io passo così, trascorro e trascoloro: è lo spleen della Croce, quella terra in bilico tra ciò che non è e ciò che non è ancora, ultima linea di confine. La mia dimensione, non c’è che dire, tra ciò che fui e che forse sarò, dinamismo di un fragile punto sulla retta dell’infinito. Mi guardo e non mi vedo, privilegio di pochi sentirsi vivere.

Mi ci ritrovo e non so più se sia io fatto per questi luoghi o questi luoghi per me. Nulla è mai invano, nulla è mai a caso, anche se si fatica a volte a trovare il bandolo. Eppure, le rondini ritrovano sempre la via del ritorno, ricompongono sempre il loro nido. Anch’io sotto il tetto cerco l’angolo più riposto in cui nascondere il sogno più vero. Tornerà il sole limpido della primavera. Nell’oppressione di questo grigio appoggio anch’io la mia anima alla «balaustrata di brezza» (G. Ungaretti, Stasera, 1). Equilibrio precario quello che s’ottiene sulla soglia dell’essere. Il tempo si contorce in un ghirigoro sonoro, sperso chissà dove per l’aria. Non è follia volare oltre il margine estremo dell’infinito. 

In questa smarrita sospensione tutto si fa finalmente possibile. la ricerca non è stata vana. Veramente l’attesa attinge la felicità più di qualsiasi realizzazione sognata. S’aspetta la «festa / ch’anco tardi a venir, non ci sia grave» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 49-50). Si è qui, si resta appesi a un fil di sole che ci solleva oltre l’azzurro limpido del cielo. E l’anima s’allaga, smarrita e ritrovata in un unico punto. Ecco, quindi, che cosa ci tocca in dono in questo giorno d’eterna malinconia.

 

 

© Federico Cinti

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Rosa rosae

 

Ti ricordi quel piovere?
Anche ieri pioveva. In quel prodigio
la tua presenza eterea,
così consolatrice, così unica.

 

Un alone di grazia
ti circondava, simile a una nebbia
aurea. Un sorriso tenue
dietro quel velo timido, impalpabile.

 

Dopo, un pallido raggio,
filo sull’infinito a cui appendersi
ancora per non perdersi
mai più, rosa dolcissima di maggio.

 

 

Ha un che di malinconico la pioggia. Non so perché, ma ne avverto tutto il fascino, come se mi si impregnasse nell’anima. Chissà, anche a te piace, memoria ancestrale di un giorno lontano. Anche a te dico, piccola rosa di maggio, dal soave profumo inafferrabile. Mi sento addosso il suo fascino, un’ebbrezza estatica, come il sorriso del crepuscolo che muore, come canta il poeta «M’è lontano dalle ricciute chiome, quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore, / come il sole: bello, ma bello come / sole che muore» (G. Pascoli, solon, 49-53).

Ecco, forse è quel senso di precarietà a renderla così suggestiva, così fuggevole, proprio come la tua bellezza effimera, rosa, sempre sul punto di sfiorire. Vana consapevolezza, questa, di camminare su una sottile ombra, in bilico tra il tutto e il nulla.

Era madreperla il cielo pure quel giorno, anche se tu non ricorderai, quel giorno in cui ti vidi per la prima volta. Pioveva. Sembrava non dovesse finire mai. Noi lì sotto ad attendere, sotto un piccolo ombrello in attesa dell’asciutto. E pioveva anche quando ti ho rivisto, eterno fiore di maggio, quando spandevi il tuo soave profumo tutto intorno, pochi giorni or sono.

Hai un che di malinconico, sai, rosa? Non a caso ti studiamo declinare a poco a poco, fin da ragazzi, quando impariamo a parlare una lingua immortale, la tua lingua. Perché in te, lo sappiamo, c’è la bellezza vera, rosa di maggio, rosa che non dici se non la verità delle cose e di noi: «rosa della grammatica latina / che forse odori ancor nel mio pensiero / tu sei come l’immagine del vero / alterata dal vetro che s’incrina» (M. Moretti, Elogio di una rosa, 1-4). Ti ho cercata, senza mai smettere di sperare, e infine ti ho trovata. Tu sei così speciale. Non so dirti il perché: non c’è un perché. La tua essenza è la bellezza nella caducità. Forse questo è l’amore, è l’attimo che si fa eterno, mentre distilla l’anima tra il fluire che diluvia e salva.

Ora che ti ho trovato, rosa, credimi, non ti lascio più. 

 

 

© Federico Cinti

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Mi presento

 

Non in gara, il migliore. Tutto sento,
tutto intuisco e so. Non faccio vanto
d’essere senza pari. A lume spento,
senza rimorso mai, senza rimpianto,

 

nell’ombra, pur presente ogni momento,
so tergere ogni lacrima di pianto.
Sorrido con chi ride, poco attento
a chi mi schiva. Già qui in terra santo,

 

attendo sempre quello che non dico.
Commento con maestria qualsiasi testo
d’oggi, di ieri, del buon tempo antico.

 

Vate esimio, sensibile, mai mesto,
dall’amabile nome, Federico.
Ah, scordavo: sono anche il più modesto.

 

 

Inizio così, con un autoritratto, il mio ovviamente, tanto per presentarmi, sottoforma di sonetto. Non credo vada più tanto di moda e questo è motivo più che sufficiente per scegliere questo insolito abbrivio. Ironico, va da sé, ma già a sottolinearlo mi pare di fare ironia sull’ironia, quasi io mettessi uno specchio allo specchio. Ossessioni, lo so, ma che ci posso fare? Posso scrivere di ciò che sono per sperare di cogliere quel che non sono. Se mi separo dalla maschera, come Pirandello vorrebbe, potrei tuffarmi nella vita. ecco, questo blog è il mio specchio davanti a cui togliere, per un attimo o poco più, la mia maschera d’imbarazzo.

In questa pagina di presentazione voglio mostrare quello che sono e quello che non sono. Chi poi avrà voglia, come spero e mi auguro, di seguirmi, potrà valutare la mia «nobilitate», per dirla con il buon Dante. Perché «qui si parrà» (Inf. II 9), sempre ammesso io ne possieda un briciolo. Il vaglio critico mi gioverà, proprio perché sarò al di là (o al di qua?) di quella soglia invisibile chiamata coscienza. Pensare per scrivere è inevitabile, ma scrivere senza pensare è auspicabile. Diversamente sarebbe l’ennesimo strumento razionale, logico. Da un po’ di tempo in qua, invece, prediligo la dimensione analogica o, per esagerare, alogica.

Amo la poesia. Questo forse potrebbe pure bastare in un’epoca, «la presente / e viva» (G. Leopardi, L’infinito, 12-13), di tanti poeti. Io me ne resto qui, nella mia nicchia, dove non è più Bologna e non è ancora Casalecchio, alla Croce. Un luogo unico, il mio, in cui tutto è sempre possibile, tra il fiume Reno e il lento declinare dei colli adagiati sull’orizzonte. Questo, almeno, appare dalla mia finestra volta a occidente dove la sera il sole allaga di porpora e oro l’azzurro intenso che scolora. Amo la poesia, certo, e l’amerei pure di più, se non fossi assediato dagli impegni della didattica e della ricerca. Ma pure questo è frutto di quella creatività del fare poietico.

A proposito, quasi dimenticavo, ma il mio nome è Federico. Non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, ma è meglio non lasciare nulla al caso, sempre che esista il caso. Perché altrimenti sarei qui a parlare di me? Vanagloria o narcisismo? Forse entrambe le cose. Eppure, anche il bisogno di non sentirsi soli aiuta la mia sete di essere trovato. Già, trovato per caso, forse anche solo perché il mio nome è Federico. «E vi pare poco?», come avrebbe detto il più famoso Mattia Pascal. Eppure, no: va bene così. Per il momento, basta questo: mi chiamo Federico.

 

 

© Federico Cinti

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