A me stesso nel giorno dei miei anni

 

Fu uno scorrere rapido, fui io

e non altri. Sarò. Sul promontorio

dei secoli impassibile m’avvio.

 

Equilibrio impossibile. Aleatorio

resistere. Proseguo sul cammino

iniziato, oltre Inferno e Purgatorio.

 

Contemplo ciò che sono, pellegrino

onirico di un’epoca imperfetta:

chiamo il mio nome, avverto il mio destino.

 

Io, fui io, non sarò. Per la via stretta

non indugio in inutili fermate.

Tengo un capo del filo. Sulla vetta

 

il suo viso, la lirica d’un vate.

 

 

Mi trovo anch’io sul «promontorio dei secoli» (Manifesto del futurismo, 8), come il vecchio Marinetti. Chissà, volgersi indietro a volte è pericoloso: non ci si riconosce più. anche le foto tradiscono nel loro nitore. Un sorriso, sì, una smorfia o una posa plastica. Nulla più, nemmeno una parola. Eppure, il pensiero fluttua, informe, al di là della gravità che porta con sé. L’etimologia di solito rovina, senza pietà. E così è volgersi indietro, alla ricerca d’un senso, quando lo abbiamo davanti a noi, nel riflesso degli istanti che viviamo. Giorno per giorno, certo, inconsciamente. Meglio non accorgersene: si fa meno fatica a liberarsi di «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, 12). Siamo così, come crediamo d’essere, in una sorta di eterna proiezione di noi e del tutto. Il paradosso sta nello scoprirsi pensabili, ma non conoscibili, apparire e non essere. O, meglio, essere senza sapere chi si sia veramente. A un certo punto ci se ne rende pure conte. E forse è troppo tardi per qualsiasi rivalsa. Prendere o lasciare: tutto qui. Noi avanziamo verso la vetta, su quel promontorio tra rottami e macerie. Finché viene il giorno, benedetto giorno, in cui crolla un filo di vento e tutto ci appare come deve essere.

Ecco, per me l’anno comincia oggi. Va bene, lo concedo, ricomincia. Il moto circolare ci si addice perfettamente, se è vero che ci si ritrova sempre allo stesso punto. Non che mi dispiaccia, intendiamoci: siamo e qui e vogliamo pure restarci. Ma il fatto è che ci si sente addosso una responsabilità sempre maggiore, soprattutto adesso che i grandi siamo noi. Un tempo era diverso: si demandava, al riparo di non si sa nemmeno chi. Non sembrava difficile: era sempre stato così e così sempre sarebbe stato. Adesso decidiamo noi l’an e il quantum. Ci si augura vada bene. Abbiamo di che essere preoccupati, pur nella consapevolezza che possiamo attingere solo alla rappresentazione. Altri ci conforteranno se la scelta sia stata quella giusta. Si sale, ecco, «da l’infima lacuna / de l’universo» (Par. XXXIII 22-23) fino al punto più sublime. Nemmeno da lì vale la pena di volgersi indietro, che varrebbe poi volgersi indietro. Così almeno mi pare.

 

 

 

Preferisco darmi qualche piccolo proposito, magari buono, per il tempo a venire, che tra un anno mi riporterà sempre a questo punto, a fare bilanci. Non mi lamento, no. Avrebbe potuto essere più proficuo, ma tutto è sempre perfettibile: lo sappiamo. Mi sento fiducioso, questo sì: ho come la sensazione che certi nodi debbano sciogliersi. Tra tanta lirica, immagino, il viso amato emergerà tra mille, infiniti altri. Allora sì che sarà il giorno della festa. Fino ad allora navighiamo in questa sospensione. Una pagina, una voce, una parola. Ci si può pure accontentare di poco per dare vita a quadri di una notevole sensibilità. Non occorre tanto per accorgersi di quanto sia semplice cogliere il frutto a portata di mano. non lo si vuole ammettere, ecco. E l’anno corre, il tempo va, anche se sappiamo essere immobile. Sì, ammettiamolo una buona volta: siamo noi a correre. Che poi, questo me lo devono ancora spiegare, dove si corra, beh… nessuno lo sa. Si va, spinti in avanti o indietro.

Oggi resto qui, senza altro fare che dedicarmi un poco, non tanto, ma solo un poco a me stesso. Scrivo di me, di quel che vorrei fare e non vorrei fare. La poesia mi piace, questo è ovvio. La prosa mi spaventa alquanto: difficile da governare. Tutti affermano il contrario. Io vado controcorrente. Chi se ne importa. Andate, andate pure: solo chi si dedica alla poesia, ne sono convinto, può azzardare a mettere mano alla prosa. Chissà, forse quest’anno lo farò. Non che io non lo abbia già sperimentato; ma così, tanto per fare, per provarmici. Sarò più sistematico, a tavolino, come i grandi scrittori che in altro non s’ingegnano. Qualcosa verrà pur fuori. Qui, «sul promontorio dei secoli», ci si spingerà ancora più in là, a contemplare l’infinito e ignoto mare. tutto è navigazione, ce lo hanno ripetuto fino allo sfinimento. Me lo ripeto pure io, in questo specchio in cui pian piano mi sto calando, riflettendo me stesso e su me stesso. È pure sempre l’attimo in cui cerco di fermarmi su di me, quel nulla che è stato e che sarà. Sul presente non posso mai garantire. Posso dire solo che l’anno prossimo, di questo giorno, festeggerò il successo.

 

 

© Federico Cinti

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Buon Natale!

 

Buio nel cuore, buio in tutto il mondo.

Una luce rifulse in un vagito,

orma d’eternità, nel più profondo.

 

Nell’anima un sorridere inaudito,

nella notte un chiarore, oltre la siepe

attorno uno stupore d’infinito.

 

Tremule le auree stelle, tra le crepe

azzurre schiere angeliche, una culla,

la paglia della stalla nel presepe,

 

eterea nel silenzio una fanciulla.

 

 

 

Tutto già è stato raccontato, ma mai veramente il ripetersi di quello stupito miracolo di cui oggi si fa memoria. Buio in tutto il mondo e a un tratto un vagito. Il nuovo fiat lux a rigenerare il mondo. Il senso scava lento dentro il cuore, distilla a goccia a goccia. Eppure, resta qualche cosa. In questo giorno è già una luce nuova, non c’è dubbio. In noi si chiude e s’apre qualche cosa d’indefinibile. Non dobbiamo essere noi a capire: occorre solo farsi trasportare da quell’indecifrabile mistero. Incute timore, certo: ci si spaventa davanti a ciò che non si conosce.

È la forza del presepe, di un luogo fuori del tempo e dello spazio. realtà e contemporaneamente simbolo. Per noi pure vale lo stesso. Fermarci su quella soglia implica il nostro accettare il limite, ma anche la nostra ragione può affermare che «coi piè ristetti e con gli occhi passai / di là» (Purg. XXVIII 34-35). Di nuovo il roveto ardente si fa visibile nel volto che «mi parve pinto de la nostra effige» (Par. XXXIII 131). Uno specchio, nulla di più, lo specchio in cui vediamo le realtà ultime, i novissimi, così come sono, perché in esso «vedi le cose contingenti / anzi che sieno in sé, mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 16-18).

Ecco, anch’io stamattina mi sono fermato su quella soglia, sul piccolo presepe della nostra parrocchia e mi sono ritrovato nel silenzio pensoso di chi non ha bisogno di altro per appagare la propria sete, non tanto diversa poi dalla «sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia» (Purg. XXI 1-3). Non ci si può non soffermare a riflettere, come allo specchio appunto, nella penombra d’un giorno in cui il sole invitto fa mostra di sé nel suo bagliore più autentico, di bimbo appena nato, a ricordarci chi siamo e per che cosa siamo fatti.

 

 

© Federico Cinti

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Sulle soglie del bosco – Auguri a Elena

 

Esitai. Sul confine dei ricordi

la via su cui smarrirsi o ritrovarsi,

eco di un’eco al soffio dei precordi.

 

Nulla dintorno. I miei pensieri sparsi

al limite del bosco. Tra le foglie

la traccia dell’età, solchi riarsi.

 

Un sogno, tutto qui. Ci si raccoglie

per un altro sorriso. Scorre il fiume

placido. Nello specchio altre ardue soglie,

 

in lontananza l’ombra d’un barlume.

 

 

Non ne so il motivo, ma l’aureo pulviscolo di quest’ottobre così lento «somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto» (G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare). Ce lo si sente addosso, impalpabile, eppure percepibile, come in un sogno di cui non si ricordi se non d’avere sognato, quando in noi «quasi tutta cessa / nostra visione, e ancor ci distilla / nel core il dolce che nacque da essa» (Par. XXXIII 61-63). E ci si ritrova «sulle soglie / del bosco» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-2), «per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita» (Inf. I 2-3), o la «divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2) del Paradiso terrestre.

Non ne so il motivo, ma non importa nemmeno saperlo. Tutto rientra nell’eterno scorrere del tempo, al di qua o al di là non rileva. Matelda era al di là, «ridea da l’altra riva» (Purg. XXVIII 67), oltre quel «rio, / che ’n ver sinistra, con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo» (Purg. XXVIII 25-27), in un’aura di sogno senza fine, in quella foresta incorrotta che per Dante sarebbe diventata una «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5). Storie di boschi, di selve e di pinete, in quest’autunno che già ha i segni della malinconia incipiente. Poesia, solo poesia, vale a dire vita che si fa trascendenza nel transeunte. Un fiume, tutto qui, in cui non ci si vede riflessi che per una volta soltanto. E di quel fiume resta solo il suono, resta il «fruscio / sottile, assiduo, quasi di cipressi; // come di un fiume che cercasse  il mare / inesistente, in un immenso piano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 11-14)

 

 

 

Ecco, quindi, «sulle soglie / del bosco», l’incipiente autunno, quando «si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie» (Inf. III 112-14), come «tra i nudi sassi / dello scabro apennino» (G. Leopardi, Il pensiero dominante, 29-30), dove l’azzurrità del cielo s’adagia tra gli alberi e le case. Mi ci ritrovo, quasi fosse la mia stagione, mentre i giorni s’accorciano appena appena «e i brevi dì» somigliano a «tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-13), mi ci ritrovo in quest’autunno mite e pallido, simile a una carezza, e mi ci abbandono. Intorno sono favole di antichi miti e storie che si rincorrono negli arzigogoli celesti del vento, portando con sé «la foglia di rosa, / e la foglia d’alloro» (G. Leopardi, Iimitazione, 12-13).

 

 

 

© Federico Cinti

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Di fine estate – Premio del presidente alla IV edizione del premio «I colori delle parole»

 

Con grande gioia e soddisfazione, e non senza un poco di stupore, una mia lirica, di fine estate, ha ricevuto il premio del presidente al IV Premio Letterario «I colori delle parole», consistente in una coppa e in un diploma di merito. Ringrazio la giuria tutta e in particolare il presidente, la dott.ssa Cinzia Baldazzi, dalle cui mani ho ricevuto l’ambito riconoscimento. Meglio di tante mie divagazioni parlerà per me il testo poetico vincitore, che riporto di seguito.

 

 

Madreperla di nuvole, l’incanto

si sciolse in calde lacrime all’estate

sul punto del non essere. Era il pianto

 

lustrale sulle foglie accartocciate

nel respiro dell’attimo, perplesso

rincorrersi di mille antiche fate.

 

Ebbra la soglia, un palpito sommesso

la carezza tenace in cui s’imbeve

il cuore oltre ogni vincolo, ogni eccesso.

 

Fu un profumo dolcissimo, una neve

posata su ogni dove, fu l’essenza

fuori del tempo, il tuo sospiro lieve,

 

il mio sospiro, un brivido d’assenza

in cui smarrirsi per un sogno insano

e ritrovarsi poi alla tua presenza.

 

Così mi sentii prendere per mano

lungo la via. Tra il pallido vapore

la certezza che nulla era più invano.

 

Sogno di quasi autunno, tra il torpore

dei giorni, in cui la palpebra del cielo

caduca insegue il correre delle ore.

 

Una spada di luce squarciò il velo

tetro di nubi, zampillò un sussurro

tiepido e rise un fiore sullo stelo

 

 

Era un giorno di pioggia, d’inizio settembre: il cielo di color madreperla si sciolse a un certo punto in calde lacrime di pioggia. Ritrovai quell’«incartocciarsi delle foglie / riarse» di cui canta il buon Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato, 3-4), nell’incantesimo shakespeariano delle fate di Titania nella foresta onirica dell’amore. Si era sulle soglie del bosco, su cui il vate chiedeva a Ermione in procinto di metamorfosi di tacere, perché non udiva «parole / che dici / umane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-4). E ritrovai il candore d’un profumo simile a neve, in un dolcissimo sospirare di donna. Fu un sogno in cui mi smarrii e in cui mi ritrovai. Ma qualcuno mi prese per mano e i nostri ombrelli si fusero per sempre assieme in un abbraccio, simile a quello di Filemone e Bauci. Il resto fu poesia, solo poesia: la donna a cui la dedico lo sa.

 

 

© Federico Cinti

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Sul’Attersee – Sisi, «An den Attersee»

 

Ancora e ancora, azzurrità delle onde,

tu non fai che legarmi alla tua spiaggia,

io lo conosco, lo conosco bene

lo zaffiro traslucido delle acque.

 

Simile all’Adriatico, che è azzurro,

il colore più bello t’ingioiella,

ad alzare lo sguardo verso il cielo,

ad abbassarlo, a me pare lo stesso.

 

E ancora svegli in me lo struggimento

per il mio amato, il mio diletto mare,

vorrei migrare via, simile ai cigni,

da queste rocce, via da queste cime.

 

Ma trattienilo tu, impetuoso cuore,

lo strazio atroce dello struggimento,

aspetta che l’autunno a pennellate

stenda rossi vessilli in boschi e valli.

 

E dillo tu all’azzurrità delle onde

nel separarsi un’altra volta: «Addio»,

salutameli tutti questi luoghi

amati intorno all’Attersee azzurro.

 

 

 

Coaguli di vivido colore, nei giorni d’un autunno che sapeva d’estate e di rimpianto, tanto simile a quello che si vive adesso tra le foglie accartocciate. L’azzurro intenso del mare, lo scintillare del verde che a un tratto si fa rosso, vessillo di un tempo in perenne metamorfosi. volgersi indietro forse non è lecito, in quello struggimento che diviene desiderio incolmabile di un desiderio irrealizzabile. Sulle alpi, tra i laghi austriaci, nel Salzkammergut, mentre i cigni vanno in cerca di luoghi più adatti a svernare, il cuore di chi scrive e di chi legge raggela al vento pallido d’una stagione che ha mutato d’abito. Un volo eterno della fantasia in una dimensione in cui nulla è più tangibile o raggiungibile, lassù, lassù, tra «due sole / nuvole tenui, rose, / due bianche spennellate // per tutto il ciel turchino» (G. Pascoli, Patria, 9-12). È il sogno dell’estate a ritornare prepotente.

 

 

 

Vagava sola, dimentica di tutto e da tutti dimenticata, l’imperatrice Elisabetta, alla ricerca d’un senso. E il paesaggio si tramuta nello specchio della sua anima, d’ogni anima che la legge o la rilegge, pure in traduzione, come nel caso di questo mio testo, in cui al canto dell’autrice s’aggiunge e s’adatta il controcanto di chi rende un modo d’essere in una sintonia divenuta sintonia. La poesia modula canti di giorni senza fine, di ricordi traslucidi nel solare. Su tutto è un velo impalpabile. Le parole, le immagini, i pensieri sono come «le foglie levi» persesi nel vento in cui «si perdea la sentenza di sibilla» (Par. XXXIII 65-66). Ecco la voce che non ha confini, eco di un’eco oltre i secoli.

Era il non omnis moriar d’oraziana memoria (carm. III 30, 6) a risuonare nei colori dell’anima. Ci si adagia in una contemplazione infinita, in una sospensione tra cielo e terra. ‘autunno sogna ciò che non c’è più e che non c’è ancora. nei versi d’una traduzione si rincorrono significanti e significati separati e complementari. Un filo ci conduce nel labirinto letterario. Nulla si dà mai per caso: tutto riemerge, a un tratto, come un fiume carsico all’aria diafana di un giorno senza età. ed Elisabetta è ancora qui, a parlarci di sé, del suo mondo interiore, delle sue malinconie. Forse è vero che nessuno mai l’ha conosciuta come possiamo conoscerla noi nello specchio delle sue carte, potere eternatore di un linguaggio universale nascostosi tra i ventricoli del cuore.

 

 

 

Per i cultori della lingua tedesca e, come è giusto che sia, per tutti coloro che desiderano ascoltare il suadente suono dell’originale, riporto il testo di Sisi, intitolato An den Attersee:

 

Immer wieder, blaue Wellen,

Lockt ihr mich an euren Strand,

Scheinen doch die saphirhellen

Wasser mir so wohlbekannt.

 

Wie die Adria, die blaue,

Schmückt die schönste Farbe euch,

Ob ich auf zum Himmel schaue,

Ob hinab, es dünkt mir gleich.

 

Und von neuem weckt das Sehnen

Ihr nach der geliebten See,

Möchte zieh’n, gleich Wanderschwänen,

Weit von dieser Felsenhöh’.

 

Züg’le noch, du ungestümes

Herz, die wilde Sehnsuchtsqual,

Warte, bis mit roten Bannern

Streift der Herbst durch Wald und Thal!

 

Sage dann den blauen Wellen

Scheidend noch einmal «ade»,

Grüssend all’ die lieben Stellen

An dem blauen Attersee.

 

 

 

© Federico Cinti

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Giorno d’agosto

 

Assorto il giorno a un soffio di velluto

galleggia. Tutto è immobile: il cammino

in faccia al sole sembra ormai perduto.

 

Ubriaco di luce aurea, il giardino

languisce a un tratto. Voci sulla via

insistono su un vuoto sibillino.

 

Antiche vanità di nostalgia

medita il cuore stanco. In qualche sbaglio

esiste una possibile armonia.

 

Laggiù, solo al di là del vitreo abbaglio

cade il velo invisibile: il segreto

ha senso, si spalanca lo spiraglio

 

impalpabile. Un dolce riso lieto

offre alla vista ciò che sta sepolto

nell’anima. Ovunque si fa inquieto

 

il raggio senza limiti, in ascolto.

 

 

Un soffio obliquo «il sole / in fasce polverose» (G. Pascoli, Patria, 7-8) già di fine agosto, in quel sogno infinito – o indefinito? – che è l’estate. Un incantato stupore, ecco, non molto altro, in questo mare di luce dorata. Inesorabile è il tempo che ci trascorre e trascolora. Non so, ogni volta me ne sorprendo, perché scopro qualche cosa di sempre nuovo in ciò che è sempre uguale. Evocazione e unicità in una fusione che si dà, nonostante la nostra pur misera presenza. Una sorta di eco di un’eco, come ritrovo nelle poesie in cui mi capita d’inciampare ogni volta che le leggo. In quel «sempre un villaggio» (G. Pascoli, Romagna, 1), incipit di una delle prime liriche che ho imparato a memoria, in terza elementare, non posso che risentire due luoghi leopardiani, l’abbrivio dell’Infinito, «sempre caro mi fu quest’ermo colle», e Il sabato del villaggio. Per non parlare dell’«azzurra visïon di San Marino» (Romagna, 4), debitrice chiaramente delle sfumature celesti delle Ricordanze.

Era così l’estate, in un silente guizzo di luce, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (Romagna, 16), quella sospesa intercapedine che altri avrebbe definito «meriggiare pallido e assorto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 1), davanti al miracolo avveratosi, mentre «la mente mia, tutta sospesa, / mirava fissa, immobile e attenta / e sempre di mirar faceasi accesa» (Par. XXXIII 97-99). Solo in questo stato di grazia eccezionale, «a mezzo il giorno, che de le grandi querce a l’ombra stan / ammusando i cavalli e intorno intorno / tutto è silenzio ne l’ardente pian» (G. Carducci, Davanti san guido, 52-56), può cadere il velo di Maya, si può attraversare la linea che separa il fenomeno dal noumeno e accorgersi che «nel suo profondo», proprio lì, «s’interna, / legato con amore, in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII 85-87). Così si può ammettere l’epifania in cui «non bava / di vento intorno / alita» (G. d’Annunzio, Meriggio, 6-8).

 

 

 

Ascolto, tutto qui, quel che succede intorno, nel giardino che circonda casa in un verde che già desidera biondeggiare. È uno stato di grazia, un sollievo dell’anima, come un fiore che spunta inconsapevole. Ogni cosa si dà in questo momento così leggero, in questo evanescente pomario in cui «tolgo e mordo il frutto avventurato / e mi pare di suggere dal frutto / un’infinita pace, un bene, un tutto / tutto l’oblio del tedio e del passato» (G. Gozzano, Il frutteto, 65-68). È l’estate che va, che va e declina a poco a poco impercettibilmente. E io con lei, non dubito. È soltanto il sogno di un’eco che si ripete infinite volte, «nella cava ombra infinita» (G. Pascoli, Alexandros, 59). Ascolto, tutto qui, senza null’altro fare, nell’ora che s’approssima al crepuscolo e che beve le voci lontane in un azzurro siderale.

 

 

 

© Federico Cinti

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La leggenda dell’Almsee («Legende von Almsee») – «Nordseelieder»

 

Strapiombo di dirupi, cime brulle,

e la profondità verde dell’acqua,

su cui la fuga nera delle nubi

trova nel suo riflettersi uno specchio.

 

Un gabbiano vi giunge ad ali tese,

dalle nordiche estreme lontananze;

la lunga strada non ha alcun valore:

lo conduce la forza dell’amore.

 

«Ritornatene in fretta alla tua spiaggia!

Ritornatene subito al tuo mare!

Qui tra le asprezze del paese alpino

solo amaro dolore incontrerai».

 

Si vuole riposare nel canneto

e spiare in tralice il proprio amato;

da lì deve calarsi volteggiando

alto sopra le cime degli abeti.

 

E ripensa, ripensa ai lunghi anni,

in cui tutto, in cui tutto gli donava,

in cui visse e soffrì solo per lui,

sempre pronto a qualsiasi sacrificio.

 

«Ritornatene in fretta alla tua spiaggia!

Ritornatene subito al tuo mare!

Qui tra le asprezze del paese alpino

solo amaro dolore incontrerai».

 

Guarda, ora giunge il piccolo sparviero,

e il cuore batte rapido al gabbiano;

ma il gabbiano indispone lo sparviero

e quest’oggi ne ostacola ogni volo.

 

E la furia sfrenata del suo becco

colpisce dritto il cuore innamorato,

finché, ferito a morte per lo strazio,

non diventa di fredda, dura pietra.

 

«Ritornatene in fretta alla tua spiaggia!

Ritornatene subito al tuo mare!

Qui tra le asprezze del paese alpino

solo amaro dolore incontrerai».

 

Caldo sangue del cuore, rossi cerchi

nella profondità verde dell’acqua,

e l’eco manda un gemito sommesso:

«Una volta che è lì, è lì per sempre!».

 

 

Erano ormai lontani i giorni del «divino soggiorno a Ischl», come ebbe a definirlo Franzi, nell’agosto del 1853, il «divino soggiorno» dell’incontro e del fidanzamento, quando Sisi compose questi versi. Dopo più di trent’anni – siamo nell’agosto del 1885 a Ischl – di matrimonio nulla o quasi era più intatto, se non forse il trasognato ricordo del ventitreesimo compleanno dell’imperatore, il 18 agosto, e la benedizione con acqua santa del parroco della piccola cittadina termale, alle 11 del 19 agosto, presso cui si erano recati per scambiarsi le reciproche promesse di matrimonio. Da allora in poi la villa imperiale avrebbe avuto la forma di una «E», in onore di Elisabeth, nome di cui Sisi era diminutivo.

 

 

 

Sisi non era più la ragazzina intimorita di quei giorni estivi. Il gesto della zia Sofia, futura suocera, di cederle il passo all’ingresso della chiesa, ligio al cerimoniale di corte spagnolo, unica legge della famiglia imperiale, non l’avrebbe lasciata indifferente come quel giorno luminoso. Ormai, Sisi era il gabbiano in continua fuga dal mondo e da se stesso. Era sì imperatrice d’Austria, apostolica regina d’Ungheria etc., come iniziava il suo lungo titolo nobiliare, ma era soprattutto una donna infelice contro cui il destino non aveva ancora smesso d’accanirsi. Era finita per sempre «la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 29-31), l’amore che era stato promesso eternamente.

Il gabbiano, die Möve, ritorna dal Mare del Nord al lago incantato di Alm, dove l’attende der klein Sperber, il piccolo sparviero, per straziarle il cuore innamorato. Di nuovo, senza pietà, Caesar […] accipiter velut (Orazio, carm. I 37, 16-17) macchia le acque limpide di puro sangue. Eppure, il gabbiano fugge, fugge ancora e per sempre da quell’animale così piccolo e così molesto. Resta lo strazio di un cuore infranto che, per sopravvivere alla contingenza e alla storia, si deve fare freddo come il metallo e duro come la pietra.

 

 

 

Restano le acque del lago austriaco di Almsee a narrare gli eventi. Questa lirica è la prima di quattro, disposte in successione, nello scrigno segreto dei Nordseelieder (Canti del Mare del Nord), primo dei tre libri del Diario poeticoDas poetische Tagebuch – di Sisi. Anche se non è letterale, credo la mia traduzione colga il profondo senso poetico di questa confessione così amara e distaccata, una vera e propria leggenda che respira ancora tra quei monti incantati, in cui la verde profondità dell’acqua si fa specchio al nero delle nubi.

 

 

 

Di seguito l’originale tedesco:

 

 

Steile Wände, kahle Zacken

Und ein Wasser, tief und grün,

Wo sich schwarze Wolken spiegeln,

Wie sie ernst darüber zieh’n.

 

Eine Möve kommt geflogen

Von dem fernen Norden her,

Achtend nicht des weiten Weges;

Denn die Liebe führt sie her.

 

«Kehr’ zurück zu deinem Strande!

Kehr’ zurück zu deiner See!

Hier im rauhen Alpenlande

trifft dich doch nur bitt’res Weh!».

 

In dem Schilfe will sie rasten

Und nach dem Geliebten späh’n,

Dorten muss er niederkreisen

Über jenen Tannenhöh’n.

 

Und sie denkt der langen Jahre,

Wo sie alles ihm geweiht,

Nur für ihn gelebt, gelitten,

Jedes Opfers froh bereit.

 

«Kehr’ zurück zu deinem Strande!

Kehr’ zurück zu deiner See!

Hier im rauhen Alpenlande

trifft dich doch nur bitt’res Weh!».

 

Sieh’, da kommt der kleine Sperber,

Und ihr Herz schlägt höher auf;

Doch sie ist ihm ungelegen,

Hindert heute seinen Lauf.

 

Und den Schnabel unbarmherzig

Stösst er in ihr liebend Herz,

Dass es, bis zum Tod getroffen,

Fest erstarrt zu kaltem Erz.

 

«Kehr’ zurück zu deinem Strande!

Kehr’ zurück zu deiner See!

Hier im rauhen Alpenlande

trifft dich doch das schwerste Weh!».

 

Warmes Herzblut, rote Kreise

In dem Wasser, tief und grün –

Und das Echo wimmert leise:

«Einmal hin, ist ewig hin! ».

 

 

 

© Federico Cinti

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Martina e Domenico oggi sposi

 

Meraviglia, nell’anima l’arcana

armonia di un intridersi perenne,

ragione e cuore, immensità lontana.

 

Tra il tempo e l’assoluto tutto avvenne

in un attimo etereo, eterno rito

nell’essere, la formula solenne.

 

Al cielo il senso, sul cammino trito

era la volontà, grazia di sposa

dolce nel volto, riso di marito.

 

Ora e per sempre, nell’azzurro il rosa

madreperla del cielo in agonia

esitò appena, un’ansia luminosa.

 

Nuotò nel lago fulgido la via

infinita, al discrimine del monte

canto di stelle, rugiadosa scia.

 

Ombra d’un’eco, al mormorio d’un fonte

occulto si svelò l’arduo segreto,

gioia pura oltre l’ultimo orizzonte.

 

Già fu ciò che sarà: nell’occhio lieto

il sorridere, immagine sospesa,

spande il suo aulire fattosi consueto.

 

Passò il giorno, evaporò l’attesa,

orma d’un asintotico languore

sulla felicità che si palesa

 

in sé, nel realizzarsi dell’amore.

 

 

Un matrimonio. Avevo confermato la mia presenza, nonostante la flagrantis atrox hora Caniculae (Orazio, carm. III 13, 9): non se ne parlava proprio di mancare alle nozze di Domenico, un mio studente. Anzi, meglio: un mio ex-studente, uno di quelli della prima ora, «quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono» (Rvf I 4). Solo lui, del resto, avrebbe potuto sposarsi sabato 30 luglio. Avevo deciso d’andarci, anche perché sarebbe passato a prendermi un suo compagno, Leo, il più grande tanghero di Bologna (se tanghero sia sdrucciolo o piano, lo lascio decidere a chi lo conosce). E così è stato, salvo aver sbagliato clamorosamente l’orario, naturalmente, così da arrivare a cerimonia già iniziata. Da poco, per fortuna, anche se l’abbiamo scoperto solo dopo, entrando nell’Abbazia di Zola Predosa.

nessuno se n’era accorto o almeno credo. La ricerca di qualche sedia sul fondo aveva generato un po’ di trambusto, ma tutto sommato era normale in quelle circostanze. Qualche commento, a bassa voce, mi è pure sfuggito. Non avrei dovuto, lo so, ma il padre domenicano che officiava, non so perché, aveva deciso di costruire due acrostici in latino sul nome dei nubendi, sbagliando clamorosamente gli accenti. Leo rideva come pochi alle mie rimostranze: sosteneva di sentirsi in un film, cosa che in parte era anche vera. Mi attendevo perle teologiche, che pure ci sono state nell’esegesi dei passi biblici, ma il resto… insomma, il resto era surreale. La ragazza di Leo ci intimava di fare piano, ma proprio non era possibile. so che davanti, nelle prime file, hanno assistito a un’altra cerimonia, ma anche la nostra ha avuto lo stigma dell’unicità. A ogni modo, al momento del fatidico «sì» mi sono veramente commosso. E non io soltanto. Davanti a me brillava più del sole «quell’aurora che dicono: l’Amore» (G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità, V 24).

 

 

 

Dopo la benedizione solenne siamo usciti alla ricerca di un filo d’aria. Un miraggio, certo. Alla cerimonia c’erano pure Marcello e Ionut, altri due miei studenti d’allora. A quel punto li ho ritrovati sul sagrato, come noi nell’unico angolo all’ombra. mi è parso che il tempo non fosse passato: le voci, i ricordi, le chiacchiere mi hanno riportato a un tempo fuori del tempo, come se nulla fosse cambiato. In un certo senso era proprio così. Eravamo tornati da un lungo viaggio, con il riso in mano da buttare su Dodo, mentre usciva tra una folla festante per lui e per Martina. Anch’io ho tirato, ma chissà chi ho preso nella confusione. Poi, ci siamo stretti per un saluto e gli auguri di rito. Era visibilmente emozionato e noi con lui.

Poi la fuga a Zappolino, per il rinfresco. Naturalmente Leo ha perso la fila, da manuale. Siamo arrivati lo stesso, intendiamoci, e forse pure prima di molti altri, ma per lui il copione è sempre stato un semplice canovaccio da interpretare a suo gusto. E dire che sarebbe pure un attore di vaglia. Quando abbiamo fatto assieme le Lecturae dantis, temporibus illis, nel 2015, aveva riscosso un notevole successo. Eravamo i Due pazzi all’Inferno. Sarebbe da rifare, prima o poi, ora che è tutto mutato, pure io, anzi soprattutto io. Ma Leo ha ben altri progetti, giustamente. Me ne parlava un po’, seduto davanti a uno stuolo di antipasti. Marcello e Ionut lo ascoltavano. Certo, pure loro avevano parecchio da raccontare, il primo ingegnere e il secondo chirurgo. Ma intanto il tramonto ammantava tutto d’una luce particolare, «come… in un roseo lago» (G. Pascoli, L’asino, I 12). Su quei colli tutto sapeva già d’altro, ora che i due promessi erano ormai marito e moglie.

 

 

 

La cena si è protratta a lungo. Il nostro tavolo mi pareva come di famiglia. Qualcuno ha saltato il primo, altri volevano saltare il secondo. Marcello mangiava di gusto la grigliata e incitava Leo ad assaggiare almeno la costata. In effetti, ne ha poi preso tre volte di fila. E ne avrebbe preso anche di più, se non lo avesse allettato la torta nuziale gelato cioccolata e pistacchio. Noi eravamo lì, «dentro la notte fulgida del cielo» (G. Pascoli, Alexandros, I 10). Il caldo aveva lasciato il posto impercettibilmente a una frescura molto piacevole. Nulla era lasciato al caso. Solo un po’ di malinconia faceva in me capolino, a quando a quando. È la musica che mi estranea dal resto, mi isola, come se realmente io fossi altrove. Aspettavamo il tango, per l’esibizione, ma niente. Le chiacchiere sono proseguite fino a un orario indecente, almeno per me, che quasi crollavo dal sonno. Domenico aveva perso la voce, ma non la vitalità: era l’uomo più felice del mondo. Anche Martina, che pure conoscevo giocoforza meno, mi pareva persona di una dolcezza volitiva. Pensavo al matrimonio. Spero anch’io in questo giorno, prima o poi, a quelle fedi che si giurano eterno amore.

 

 

 

 

 

 

© Federico Cinti

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Nel giorno del mio onomastico

 

Fragile la vertigine, sul viso

eterno il tempo assorto sul sentiero

dell’attimo fuggente in un sorriso.

 

Eco lontana, l’ansia del mistero

rade lo spazio, sibilo di vento

invisibile all’alito leggero.

 

Caducità impalpabile, il momento

ora tenue si compie sulla via

carsica, orma dopo orma, a lume spento.

 

In bilico un’azzurra nostalgia

nell’anima, ricordo di quel giorno,

tu aulente sospirare d’armonia,

 

io in attesa dell’ultimo ritorno.

 

 

 

Ha ragione il mio amico Paolo. Stamattina gli ho suggerito che era il mio onomastico e, stupito come solo lui sa essere, mi ha chiesto: «Ah, è san Cinti?». Non ho potuto che convenire con lui. Anche perché ormai si è fatto appuntamento topico questo famoso 18 luglio. Ho iniziato quasi per gioco, qualche anno fa, a ricordarlo agli amici. Poi, a poco a poco, adesso sono gli altri a fermarmi e a farmi gli auguri. Fa piacere, intendiamoci. Fa piacere che si ricordino di te anche nel periodo torrido della «Canicola» che «stampa sopra uno scalcinato muro» la loro ombra scura (E. Montale, Non chiederci la parola, 7-8). Mi pare una sorta di epifanica rivelazione nel cuore dell’estate.

Tutto è poesia, non è certo necessario ripeterlo ogni volta. Si coglie nell’aria, negli occhi delle persone che ci circondano, ignari compagni di viaggio. E chi non la coglie, beh… pazienza: vive lo stesso nell’incoscienza dei giorni e delle occasioni. La linea di demarcazione è sottile, impercettibile. Chissà, forse è proprio quella la quint’essenza di cui parlavano prima di scoprire che gli elementi erano ben più di quattro. Qualcuno ci crede ancora, ma è giusto così. Ho conosciuto pure chi, ridendo, sosteneva che gliela raccontavano che la Terra è sferica, al pari della signorina più famosa della letteratura cui «han detto che la terra è tonda, / ma lei non crede» (G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità, V 21-22).

Nel giorno del mio onomastico non ho poi fatto cose straordinarie, come avrei voluto. In un lucido lunedì di metà luglio tutto si compie, come in un rito atavico, come in un ennesimo, ultimo ritorno. Credo sia normale non pretendere altro che avvenga quanto deve avvenire. Agli altri li lasciamo gli sbagli di natura. Che, lo sappiamo, rendono il tutto così particolare, ma solo perché inattesi, inaspettati. La ricerca del veggente che cerca in ogni modo la sregolatezza di tutti i sensi mi pare fuori luogo, se «l’impresa eccezionale / è essere normale» (L. Dalla, disperato erotico stomp). Anch’io ne sono convinto. Così è andato il mio onomastico. O, meglio, dovrei dire che sta andando: «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20).

Qualcuno manca sempre all’appello di chi vorresti ti facesse gli auguri, ti pensasse un po’, e non lo fa mai. va bene: ne prendiamo serenamente atto. In fondo, il senso finisce per trascenderci. Mi farò vivo io, in qualche modo. Comunicare è anche questo, mettere appunto in comune quel che si ha con chi si desidera. Il mio santo ha testimoniato la verità. Niente di più. La vita stessa significa attestare la volontà d’esistere, ma non come l’intendeva il famoso Arturo che qui non dico. Si va al di là, perché nella fusione del tutto sta l’unità, perché «nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII 85-87). Altroché divagazioni filosofiche sull’inconoscibile: «la parola che squadri da ogni lato» esiste eccome, se volessimo ascoltarla. I poeti, in fondo, sono pure un po’ questo, come i santi. Ecco, aveva ragione stamattina Paolo e lo ripeto col sorriso: oggi è san Cinti.  

 

 

 

© Federico Cinti

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Ecco il solstizio anche quest’anno

 

E il sole si fermò di nuovo un poco,

come ogni volta. Aeree le cicale

cantarono all’unisono per gioco,

eternità d’un atto rituale.

 

Sostò il sole, sigillo siderale,

orma di un’orma impressa a vivo fuoco:

le vie, le case, gli alberi, il crinale

sibilarono a un soffio aureo di croco.

 

Tutto fu già come già fu. Nel giorno

infinito danzarono le fate

tra loro in un’onirica distanza.

 

Interstizio d’azzurra lontananza,

urgente soglia all’incipiente estate,

mutò il tempo nel ciclico ritorno.

 

 

Tutto si fa possibile nel giorno del solstizio d’estate. Si ferma il sole, non c’è dubbio, sul filo azzurro del cielo, mentre in coro antichi poeti trasformatisi, ora e per sempre, secondo il mito platonico, in cicale annunziano l’incantesimo. Le fate popolano, come nella nostra fantasia di bambini, questa sospensione nel tempo e nello spazio. ci si accoccola allo spettacolo, mentre i «fratelli ulivi» (G. d’Annunzio, La sera fiesolana, 29) attendono la sera e la sua pace. uno dei momenti più belli dell’anno, del ciclo cui ci è dato assistere nella piena gratuità della natura. E le cicale continuano a frinire, figlie dell’aria sulla via corrente.

 

 

 

Nella distesa siderale il sole si fa sigillo, emblema di un tempo fuori del tempo, di uno spazio immoto e immobile. Resta nel suo splendore a ricordarci il passaggio a un altrove, a una costante e inesorabile metamorfosi. questo è il senso del tutto, sempre diseguale nella sua similarità. Non si ritorna indietro né si procede: siamo nel punto morto dell’universo, abbiamo trovato il varco attraverso cui attingere al volto ultimo delle cose, «come in conchiglia murmure di mare» (G. Pascoli, Alexandros, IV 46), perché «nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII 85-87).

 

 

 

Eppure, di nuovo e sempre, le fate di Titania tornano a colorare i sogni di chi non si rassegna a credere che la realtà sia quella che si vede. Un sogno, certo, un volto che rimane dentro l’anima e ascolta i nostri pensieri, che scruta i nostri desideri, perché siamo veramente un pulviscolo di stelle coagulato in un cuore pulsante. Questo è il tempo dell’estate, della sospensione, della vacanza. Nulla più che questo. Da bambini era l’attesa di un respiro lungo mesi, alla fine della scuola. Ora è il sogno che dà sostanza alla nostra vita nel tepore di lunghe giornate in cui il sole ci accarezza.

 

 

 

© Federico Cinti

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