Chiara e io al Paffè di Casalecchio

 

Come non so. Di questo giugno diafano

ho avvertito in me il tacito trascorrere.

Infinito il sollievo

a tante nostre chiacchiere.

 

Ricordi, nulla più, l’inesprimibile

attesa che si sfa nell’indicibile.

Viso azzurro, sorriso,

nel cuore l’insondabile.

 

 

Vuoti i corridoi, le aule, anche il cortile: forse la scuola è pure questo, un vacuo simulacro in cui ricercare ciò che siamo stati, se mai lo siamo stati. Fa un certo effetto, lo confesso. A me stamane lo ha fatto, almeno. A fine primavera è così, quando il famoso «giugno ci ristora / di luce e di calor» (G. Carducci, Pianto antico, 7-8). Qualche cosa aleggia, «resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, >Il porto sepolto, 5-7). È la poesia, null’altro, pure se non la si cerca né la si vuole. È nell’aria, nelle cose, in noi.

Anche un caffè può essere poesia. stamattina è successo. Ogni tanto ci si concede una pausa da tutto e si ritorna in quell’oasi in cui il tempo si ferma e distilla a goccia a goccia. Non è in sé, ovviamente, la bevanda, bensì il rito. Lo sappiamo: da anni si celebra. Non se ne può fare a meno. Io almeno non posso farne a meno. A quanto pare non solo io. Chiara mi viene a salutare, nonostante i molteplici impegni, oggi più di allora. Anche quella scuola fu sua. Chissà com’è rientrarci dopo tanti anni. Un pezzo di vita non si scorda facilmente. Diciamo che si elabora, si sublima, un po’ come il caffè che si gusta in bocca a lungo, come un piacere che si sfa a poco a poco, simile al profumo dei fiori nell’aria.

Si parla, tutto qui, di quel che si fa e di quel che non si fa, delle contingenze e delle urgenze. Alla fine, si cade sempre sull’atto puro della scrittura. Non siamo ancora riusciti a determinare in modo credibile che cosa generi la creazione attraverso le parole. Anche quello, in fondo, è un cambio di stato, è un «trasumanar […] per verba» (Par. I 70). Stamane sostenevo la possibilità di pensare per scrivere, ma di scrivere senza pensare, quasi che di per sé la creazione poetica sia il pensiero in azione. Non so, la visceralità che crea, senza ovviamente generare. Anche Chiara ha convenuto, pur riconoscendo la necessità di approfondire il discorso. Già, come se fosse facile. Ma è pure necessario porsi la domanda.

Noi ce la siamo posti, come tante altre volte, come tante altre domande. Anche noi forse eravamo come i fiori che profumavano il tempo di idee, sempre ammesso il tempo esista veramente anche al di fuori di noi. No, di questo non si è parlato. In verità non mi è venuto in mente, ma fa lo stesso. Non possiamo racchiudere in un caffè lo scibile e l’inconoscibile. Qualche argomento di riserva è bene tenerlo da qui all’eternità, quando forse potremo parlare con più cognizione di causa del trascorrere rapido dei giorni che, poi, forse non trascorreranno più. E i fiori profumeranno per sempre delle nostre parole così vane, ma così necessarie al caffè che ci ospita nel suo mondo.  

 

 

 

© Federico Cinti

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Saluti giocondi e giocondi saluti

 

Siamo ai saluti. Non sembrava vero

allora. Adesso è solo nostalgia.

Le cose sanno sempre di mistero.

Urge il tempo, dimentico per via.

 

Tutto già fu. Pure io sarò sincero,

io – intendo – che so bene come sia

gramo andare e restare, un giorno nero,

infinita eco di malinconia.

 

Ormai ci si conosce troppo bene.

Come non so, ciascuno nel suo ruolo;

ormai, però, lo so, ci s’appartiene.

 

Non vi scordate mai, prendendo il volo,

di me, ancorato a queste mie catene:

io resto qui, ma resto qui da solo.

 

 

Non sopporto la fine, qualunque essa sia, nemmeno la fine della scuola. Intendiamoci, la prospettiva di potersi finalmente riposare è molto allettante, ma dover superare la soglia che divide il prima e il poi, l’invisibile linea d’ombra che separa, il margine oscuro che lacera, mi lascia attonito, con l’amaro in bocca. Figuriamoci poi quando si ha la consapevolezza che il viaggio finisce per davvero, quando gli studenti di quinta liceo li rivedrai ancora per poco tempo, sì e no il tempo dell’esame di Stato, che una volta si chiamava pomposamente esame di maturità, e poi più nulla, per riecheggiare il poeta, «poi nulla… / sul far della sera» (G. Pascoli, La mia sera, 39-40). Si vive eternamente nell’attesa leopardiana del giorno del riposo, nella speranza che non arrivi mai o che passi in fretta, quasi senza accorgersene. Per me almeno è così, perché «la mia festa, / ch’anco tardi a venir, non mi sia grave» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 50-51).

La fine non l’ho mai sopportata, è vero, ma mi ci preparo a poco a poco, nella consapevolezza che «sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna» (U. Foscolo, Carme dei sepolcri, 40-41), perché la fine ha il sapore di qualche cosa di irreversibile, quasi fosse il punto di non ritorno. E così, per rendere il distacco meno evidente, scrivo un ritratto a ogni mio studente che termina il liceo, perché di questo si sta parlando, degli ultimi giorni di liceo. Sono i miei personali saluti, come li so fare e come li voglio fare io. Ogni volta m’ingegno a trovare un titolo diverso. Quest’anno, visto che il nostro liceo di Casalecchio è dedicato a Leonardo da Vinci, ho pensato a Saluti giocondi, perché in quarta di copertina ho messo il ritratto di Monna Lisa con indosso i miei occhiali rossi. Un tocco d’ironia non guasta prima dell’ultima campanella. Che, intendiamoci, non è l’ultima in assoluto, nel senso che ho consegnato il libretto qualche giorno prima proprio per stemperare il peso del saluto finale.

Questi Saluti giocondi sono diventati pure Giocondi saluti, una sorta di bel fulmen in clausula

 

 

Già fummo insieme. Un ultimo saluto,

il vostro, il mio. La soglia ci separa,

oggi. Qualcosa ho dato, ho ricevuto

ciò che si dona, ciò che non s’impara.

 

Ora si è quasi all’ultimo minuto,

non altro che una dolce luce chiara

davanti a noi, tra noi. Non si è perduto

il tempo: è l’ora che si è fatta avara.

 

Siamo qui, siamo noi. Tutto si è detto,

anche troppo, chissà, presente assenza

lontana, eterno sogno nel cassetto.

 

Un giorno si vedrà la differenza:

tutto già fu, dolce dolore al petto

in questa troppo breve adolescenza.

 

 

Ne abbiamo dato lettura pubblica, ieri mattina, a inizio giugno, in classe: ognuno leggeva il proprio. Qualcuno aveva la voce rotta dall’emozione, qualcuno ha pianto. Insomma, non era mia intenzione, ma così è stato. Il tempo non passa invano e nemmeno noi passiamo tanto per caso. Ci se ne accorge sempre dopo, non dico quando sia troppo tardi, bensì quando si ha la consapevolezza che non siamo più quelli di prima. Forse è giusto così. A me questa parte della professione un po’ pesa, ma non ci si può fare nulla. Il liceo scientifico di Casalecchio, il Leonardo, ha questa particolarità, di avere uno intendo come me che si lascia prendere dal sentimentalismo. Oh, ci sta: meglio che essere abulici o insensibili. Di tutto ciò resta il sorriso enigmatico della Gioconda con gi occhiali di Federico.

 

 

 

© Federico Cinti

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Alla mia mamma

 

A maggio ride l’anima. Si librano

libere per l’azzurro aureo le rondini.

Lampi di sogno il sole,

ali d’una vertigine,

 

musica senza età. Nell’incantesimo

ignoto ogni germoglio si rigenera.

Assorto il cuore ascolta

muta la nenia solita.

 

A maggio tutto sa d’eterei palpiti,

malinconie in cui perdersi nell’attimo

mistico di una festa

antica sempre vivida.

 

 

 

Nel mese in cui fioriscono le rose tutto sa di buono, tutto sa di vero. Più che altro, più di tutto, è una condizione dell’anima, un nascere e un rinascere continuamente nell’eterna ciclicità del tempo. Un azzurro permea ogni singolo angolo del mondo, in un’infinita festa, la festa della vita. anche il sole si riversa sul mondo a liquide cascate, un profumo dolce di sogno. Ci si sente come presi per mano, come quando si era bimbi. È un tepore antico, eppure sempre nuovo. Se ne ha bisogno, come se qualcuno voltasse le pagine della nostra memoria a cercare ciò che già fummo e che quindi saremo. In fondo, guardare avanti è un modo diverso di specchiarsi nel passato.

Nel mese in cui profumano le rose, sul finire dei giorni, tra una fine e un inizio, compie gli anni la mia mamma. È festa di colori, come se tutto fosse reso da un’ebrezza incontenibile. Siamo qui e siamo altrove, sulla retta che ci ha condotto a questo punto. Ogni volta si sfoglia un vecchio album di fotografie, immagini sbiadite di chi vorremmo ancora essere. Ma è la festa della mamma, della mia mamma. Per questo il sole brilla tra le case, sulle cose. I giardini brulicano di colori odorosi, aperti alla luce, alla vitale energia di cui sono intrisi. Me ne stupisco e mi stupisco di stupirmene ogni volta.

 

 

 

Nel mese della festa della mia mamma le rondini hanno già fatto ritorno, brillano in alto, punti luminosi di una libertà che forse non avremo mai o non avremo mai così. Lassù, in alto, dove tutto è possibile, sulle ali del vento e della musica. È tutto un germogliare di verde, di speranza senza fine. forse è questa la festa che tanto mi alberga nel core e che tanto aspetto ogni anno, tutto l’anno. Domani sarà già un’altra cosa, sarà già un altro mese. Attenderemo di percorrere di nuovo il cerchio che ci separa da questo giorno, in attesa di cantare di un nuovo germoglio di vita.

 

 

 

© Federico Cinti

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Inconfessabile segreto

 

Fu solo un sogno? Candida di neve

un’ebrezza nell’anima. Sorrisi.

Con te mi ritrovai, nel tempo breve,

ora per ora. Ardui echi di narcisi,

 

soave melodia. Mai più divisi,

indicibile gioia lungo il greve

cammino. Non voragini, non crisi

ha il cuore in festa, ma una pace lieve.

 

Esuli fummo, siamo noi sul greto

tacito. Inesorabile si muove

antico il fiume. Tenue smarrimento

 

misto d’ombra e di luce. Fluire lento,

abbaglio tra realtà già vecchie e nuove,

il nostro inconfessabile segreto.

 

 

In questi giorni tutto sa di nuovo. Non so, è come se me lo sentissi addosso, anche se di per sé viviamo ogni primavera nella sua dimensione di ciclico ritorno. È da sempre così, dacché almeno mi ricordo. Ci si sente rinascere qualche cosa dentro «e piove in petto una dolcezza inquieta» (E. Montale, I limoni, 17), un fremito lontano, perché fuori del tempo. Un brivido, ecco, scuote la terra e l’anima, come dopo lo sciogliersi delle nevi, quando i fiumi ingrossano e debordano dalle rive. In quella distesa candida di neve, ci tengo a confessarlo, ritrovo l’intima essenza di giorni senza età, perché in effetti erano così, di una leggerezza indescrivibile.

Chissà, l’azzurro, il tepore dell’aria, i colori dei profumi tutt’intorno. In ciò si misura quel che si vive una volta sola, senza un prima né un poi. Non vi è un istante uguale all’altro, checché ne dicano i filosofi. Si procede indifferentemente tra l’essere e il non essere. Questo, forse, l’unico senso che so trovare alla distesa dei giorni che si ripetono immobili, senza che «la morte / si sconti /vivendo» (G. Ungaretti, Sono una creatura, 11-13), senza il pianto di niobe tra l’infinito e il nulla. Il resto rischia di perdersi in elucubrazioni senza senso.

 È il flusso dell’eterno scorrere, lungo cui si cammina senza quasi accorgercene. Immagini, certo, visioni ancestrali e ataviche, «quasi d’un fiume che cercasse il mare / inesistente, in un immenso piano: / io ne seguiva il vano sussurrare, / sempre lo stesso, sempre più lontano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 13-16). Siamo su quella riva a chiederci il perché delle cose, dentro e fuori di noi, mentre non ci accorgiamo di essere parte della corrente che va, nonostante tutto, nonostante la nostra coscienza. Eco di un’eco in noi, tutto qui, nello specchio in cui dovremmo ritrovarci e riconoscerci.

 

 

Eppure, proprio in quello specchio d’acqua riaffiora il volto che non conosciamo, che non afferriamo compiutamente. in quella visione ritorna ciò che noi siamo davvero, l’inconfessabile segreto che ci portiamo dentro. Chissà, la curiosità di sapere cui ci avviciniamo per asintoto. Ci si prende per mano nella nostra ricerca. L’amore guida questo tratto impervio che si percorre per cogliere quell’attimo d’indefinibile felicità. Così rinasce in noi il fiore che ci salva, rinasce in noi la primavera che ci pareva perduta per sempre tra le brume iemali. Dal candore della neve il sorriso di chi sa completare questo infinito anelito a ritornare nell’originaria fusione dell’endiadi. E in quel fiore ci siamo tu e io insieme.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Stefano – Nel secondo anniversario

 

Sono due anni, Stefano.

Tutto adesso è indicibile memoria,

epifania d’un attimo

fattosi eterno. Amare queste lacrime,

 

avaro il tempo, fragile

nel trovarsi di nuovo lungo il margine

opaco del nostro essere

annichilito. Inutile ogni calcolo.

 

Due anni, soffio rapido

di vita, d’insondabile vertigine.

In questa solitudine,

oggi, il ricordo della tua amicizia.

 

 

Un filo, Stefano, l’amicizia che ancora ci lega, sottile nel silenzio della memoria. Strano, vero, ricordarcelo proprio due anni dopo che ci hai salutati. Era una tiepida mattina di aprile. Dovevamo vederci per un’incombenza burocratica. Eppure, nulla. Mi chiamò Roberto con le lacrime agli occhi e la voce strozzata. Nemmeno io sapevo che cosa dire. Ma che cosa avrei potuto dire? Mi restava la tua voce nelle orecchie: avevamo appena parlato del saggio di Massimo Cacciari sull’umanesimo. Era la nostra ultima scusa per prendere il caffè assieme. Già, il caffè. Mi raccontavi che eri arrivato a prenderne tre alla volta. E pensare che io mi ero ridotto a prendere l’orzo per evitare l’acidità di stomaco. Ci ripenso, sai? ripenso ai nostri caffè letterari in giro per Bologna. quel filo di cui ti parlo sa ancora di quei momenti così preziosi, rubati alla quotidianità. Tutto era sempre accompagnato dal tuo sorriso. Il sorriso dell’amicizia, chiamiamolo pure così.

 

 

In questi giorni esplodeva la primavera, la tua stagione. Amavi i fiori: simboleggiavano la vita, la fine dell’inverno e del freddo. Anch’io non sopporto la brutta stagione. A Savigno era uno spettacolo: davanti a casa tua rinasceva il mondo negli odori, nei colori, nel verso delle starne. Un giorno me ne parlasti entusiasta. All’inizio pensavo tu scherzassi. Le starne? Già, che strano ripensarci oggi, nel giorno del tuo anniversario. Sa di qualche cosa di antico. No, anzi: di perenne. Nella ciclicità del tempo s’annida l’eternità, si manifesta il nostro piccolo io in relazione al divenire nel ciclico ritorno. Tu lo sapevi. Io ho cominciato ad accorgermene a poco a poco e nonostante i miei autori. Dico nonostante, perché la letteratura prende vita dopo che noi abbiamo vissuto e ci siamo riconosciuti in quello specchio. Allora, solo allora prendiamo coscienza di ciò che siamo e di ciò che non siamo più. So che mi stai ascoltando con la sigaretta in mano: nulla è cambiato. Sei al di là del velo che apparentemente ci separa. Ma il nostro dialogo è rimasto inalterato. Parlo solo un po’ più io, ma tu ci sei, ti fai riconoscere. Te lo confesso, perché so bene che cosa succeda nell’altra stanza, al di là del sipario che divide lo spettacolo dalla visione. E di questo ti ringrazio, amico mio.

 

 

 

© Federico Cinti

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Orma di cielo

 

Velo inquieto di nuvole, lontana

orma di cielo. Un senso d’abbandono

resta tra i fili e i panni stesi, vana

rimembranza d’un giorno. Ombra di suono,

 

eco di ciò che adesso più non sono.

Indicibile ascesa la profana

beatitudine, vero, eterno dono

atteso in cui ora il senso si risana.

 

Caducità dell’attimo, nel vuoto

il tempo sa di un’ansia mai sopita.

Anche volgersi è inutile: la via

 

ritorta è solo vacua fantasia.

Tu splendi, chiara immagine infinita,

in me, tu etereo volto dell’ignoto.

 

 

non c’è nulla da fare: ce lo si sente addosso. Sì, proprio così, come se cadesse a un certo punto un’orma di cielo. Tra le nuvole uno squarcio d’azzurro. È come il senso delle cose: lo si cerca ogni istante e poi lo si trova nel dettaglio, nell’angolo più remoto, quasi senza volerlo. A me, almeno, capita così. Ritrovai per caso un’immagine simile tra le carte altrui, e vidi «in cielo bianchi lastricati / con macchie azzurre tra le lastre rare» (G. Pascoli, Il miracolo, 2-3). Ecco, il cielo che si fa specchio della terra, connubio senza fine sulla linea dell’orizzonte. Ed è così che ci si ritrova a contemplare la via trascorsa e quella ancora da compiere. Il velo si apre a un tratto ed emerge la verità.

Si capisce di non essere più quelli di prima. Euridice già lo sa che Orfeo non resisterà. Ma volgersi indietro è un atto necessario. Vedere o non vedere non importa: l’acqua resta sempre trasparente, specchio o non specchio che sia. Occorre prenderne coscienza il prima possibile. e aprile è così, il mese forse dedicato ad afrodite, alla ripresa del tutto, perché «diffugere nives, redeunt iam gramina campis / arboribusque comae» (Orazio, carm. IV 1-2): non vi sono più nevi tutt’intorno, rinverdiscono ormai le erbe nei campi e sugli alberi le chiome. Nulla più che la ciclicità del tempo che ci riporta a ciò che eravamo: volgersi indietro diventa inutile. Le lenzuola appese ad asciugare sembrano adesso tanti fili su cui scrivere ciò che non siamo più.

 

 

in quest’epifania di luce chiara, ecco, un volto a dare senso al tutto. Un volto e un nome, certo, un’immagine fuori del tempo in un’epoca senza tempo, in cui l’hic e il nunc coincidono. Gli antichi a priori kantiani s’annullano sulla retta dell’eternità. Nulla è più come prima, nulla sarà più come adesso. Il labirinto procede e si sdipana e di quel filo, «viluppo di memorie» (E. Montale, In limine, 4), sono io che «ne tengo ancora un capo» (E. Montale, La casa dei doganieri, 12). Forse basta così ad attingere alla «carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1). Narciso ritrova se stesso, mentre Euridice non si perde più. Un’eco antichissima richiama il desiderio di fondersi completamente nell’altro, appunto in quel viso di luce chiara tanto amato (o tanto amata?). ancora s’avverte il bisogno e si ripete, come allora e come sempre, «da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» (Catullo, carm. V 7-9). È forse tutto qui il senso di questo scrivere, per dirti solo che vorrei baciarti.

 

 

 

© Federico Cinti

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Ultimo viaggio (omaggio a Giovanni Pascoli)

 

E tutto a un tratto un ultimo sussurro,

poi il nulla. Un velo anticipò la sera,

oltre l’oro e la porpora, d’azzurro.

 

Voli inquieti. Una rondine leggera

brillò nell’aria languida. Dintorno

solo silenzio sulla linea nera.

 

L’occhio sognò. Una lacrima al ritorno

del viaggio. In lontananza una fanciulla

presso il cancello, simile a quel giorno.

 

Fu un infinito palpito. Alla culla

un cantare antichissimo d’oblio.

S’allagò il petto al fremito. Poi il nulla.

 

S’udì di nuovo il lieve mormorio

dei cipressi, l’arcana meraviglia

d’esserci e di non esserci. L’addio

 

ebbe il suono di concava conchiglia.

Tutto fu. Fu poi il nulla. Era vanito

l’azzurro in un muovere di ciglia.

 

Si sciolse l’ansia all’attimo infinito

sulla soglia invisibile, non grido,

non dolore, non pianto. Era sparito

 

il morbo atroce della vita. Il nido

si schiudeva di nuovo in lontananza.

Tutto già fu. Poi il nulla. Lungo il lido

 

del cuore un’indicibile esultanza.

 

 

Era il 6 aprile 1912. In via dell’Osservanza 2, a Bologna, subito fuori Porta san Mamolo, Giovanni Pascoli lasciava la scena di questo mondo. Chissà quante volte l’aveva desiderato, ma forse non avvenne come l’immaginava. Un giorno d’aprile, come questo, così particolare, così silenzioso. La primavera era già iniziata; eppure, piombò a un tratto l’inverno. Nulla è mai come ce lo si aspetta, come ce lo si sogna. Le parole aprono mondi ignoti. Nei versi si sente l’eco lontana di quel travaglio dell’imperfezione. intanto, nel cielo, una rondine nuova si librava nell’azzurro alla ricerca del suo nido. Un segno, forse non altro. la fantasia aiuta a ricostruire quegli attimi indicibili.

 

 

 

Era il sogno, sì, che tante volte esce prepotente dai suoi versi: «Mia madre era al cancello. / Che pianto fu! Quante ore! / Lì, sotto il verde ombrello / della mimosa in fiore!» (G. Pascoli, Casa mia, 1-4). Ritrovarsi, per sempre, di nuovo insieme. Non importa se al di qua o al di là del cancello: tutto si fa possibile in poesia, anche ricostruire quel nido distrutto dalla malvagità umana. Lo avevo imparato già in terza elementare che «ma da quel nido, rondini tardive, / tutti tutti migrammo un giorno nero: / io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi; in cimitero» (G. Pascoli, Romagna, 49-52). Ecco che cosa resta, una tensione all’infinito, al ritorno, al greppo solitario, dove un nido attende chi lo cerca.

 

 

Eppure, avrei voglia di chiederglielo se quel «sempre un villaggio» (G. Pascoli, Romagna, 1) non fosse un omaggio a Leopardi. Forse sorriderebbe. Un sorriso amaro, certo, di quelli che sapeva regalare lui. Già, perché non ho mai compreso fino in fondo il motivo per cui lo senta tanto vicino alla mia sensibilità. Lo sento mio, ecco, come vorrei scrivere io e non sono capace, in quel mondo di nostalgia e malinconia. Vorrei chiedergli perché risuona in me quel verso così immensamente, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Non so, mi ci perdo ogni volta che lo rileggo, che lo ripeto. Ha un che di infinitamente grandioso, che dilaga. Non l’ho mai detto a nessuno, sempre che a qualcuno interessi.

  Pascoli è il poeta della soglia, è l’occhio che guarda, l’orecchio che ascolta. Germoglia in lui l’idea dell’assoluto. Me lo immagino per i nostri portici silenzioso, sempre alla ricerca di un’ombra che gli si svela innanzi. E chissà quel 6 aprile che cosa deve essere stato varcarla, quella soglia, quella linea d’ombra presente, eppure impercettibile ai più. Fa un certo effetto anche solo parlarne. Fu certo, quello, l’ultimo viaggio, simile al suo Ulisse che tornava da Calipso: «e il mare azzurro che l’amò, più oltre / spinse Odisseo, per nove giorni e notti, e lo sospinse all’isola lontana» (G. Pascoli, Calypso, 1-3). Chissà, calipso altro non era, in questo poema conviviale, se non la madre tante volte vista in qualche immagine nebbiosa. E quell’isola, l’isola di Ogigia, altro non era che il nascondimento della conchiglia, fattosi al fondo utero materno in cui tornare ciò che prima non era, nel punto morto dell’Oceano, punto morto del mondo dove tutto si fa possibile, anche la felicità lontana. Fu così che «vide la sua madre al capezzale» e «la guardava senza meraviglia» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 7-8). Poi il nulla: «sentivo mia madre… poi nulla… / sul far della sera» (G. Pascoli, La mia sera, 39-40).

 

 

 

© Federico Cinti

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Equinozio

 

Nell’anima lo specchio dell’azzurro,

lieve sussurro d’aria, eterea brezza,

dolce carezza eterna nel ritorno

nuovo nel giorno.

 

S’allaga il giorno a un tratto d’esultanza,

luce di danza chiara tra le foglie,

limpide soglie oltre le rosee dita,

sogno di vita.

 

Sogno, realtà di vita, meraviglia,

aurea conchiglia in cui risuona il mondo

nel più profondo, in cui rinasce il fiore

vago d’amore.

 

Senso ultimo, l’amore, occhio di cielo,

dissolve il gelo dell’inverno immoto,

ricolma il vuoto, inanità dolente

di cuore e mente.

 

Mente e cuore, fusione d’infinito,

antico mito, per cui Orfeo felice

vede Euridice al soffio d’un sussurro

tenue d’azzurro.

 

 

Eppure, il vecchio Orazio, lo stesso che diceva al suo amico albio Tibullo che, quando avesse voluto ridere, avrebbe semplicemente dovuto andare a trovarlo, lui che era un ben pasciuto porco dalla pelle assai lucida e curata del gregge di Epicuro (Epistulae, I, 4, 15-16), amava i paesaggi invernali, algidi, rappresi dal gelido cristallo della neve. Anch’io non disdegno l’inverno, anche se il sorriso della primavera riaccende a speranze del tutto mai sopite. Se lo chiede anche il pastore errante o, meglio, lo chiede alla luna, silente pellegrina, «a qual suo dolce amore / rida la primavera» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 73-74), perché in effetti è così, ci si sente meglio, rigenerati, la stessa rigenerazione dell’«Aeneadum Genetrix, hominum divomque voluptas» (T. Lucrezio Caro, De rerum natura, I 1).

insomma, «giunt’è la primavera, e festosetti / la salutan gli augei con lieto canto» (A. Vivaldi, La primavera, 1-2) e ci si sente rinascere. Io almeno mi sento rinascere, nell’aria chiara e tiepida. È come uno zampillo di luce e di gioia fuse insieme e «finite in un rivo canoro» (G. Pascoli, La mia sera, 18). Non so, la primavera ce la si sente addosso e nel cuore. Tutto cambia, come se si fosse varcata un’impercettibile soglia. Psicologico, certo, il senso che se ne ha e se ne trae, ma così dolce e lieto. È come se la poesia si facesse colore, odore, sapore. Si tocca, si sente, si ascolta in modo nuovo, diverso, come quando ci s’innamora e tutto assume un abito rinnovato. Un flusso vitale, ecco. E l’inverno è solo un ricordo, algido sì, ma soltanto un ricordo.

 

 

In qualche modo si era pure festeggiato, stamane, per un compleanno. Una torta verde, al pistacchio, anche se di pistacchio sembrava esserci solo il colore. Chissà, quel verde presagiva già la primavera, oggi che è il compleanno della musica, oggi che è il compleanno di J.S. Bach. Mi adagio a quel suono, racchiuso in conchiglia, dentro i nostri ventricoli del cuore. Pulsa come linfa vitale una musica arcana, lontana. In tal senso, in questo giorno così denso di significato, mi pare di scorgere Orfeo che esce dall’Ade assieme alla sua Euridice, finalmente felice. Era sceso nelle viscere della terra, nell’intimo del suo cuore. Euridice era lì ad attenderlo, in un diafano candore d’asfodelo. Lo attendeva, forse senza saperlo, e la sua poesia l’ha salvata dalla perdizione eterna. Il mito che ritrova vita in una luce nuova, perché tutto riprenda a essere come già è stato, in un ciclico ritorno. Anche Proserpina si commuove all’amore che salva e rigenera. Ecco perché mi sento anch’io Orfeo e salverò la mia Euridice.

 

 

 

© Federico Cinti

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Fiore d’inverno

 

Fiore d’inverno, il tempo troppo breve

indugia tra la luce cristallina,

ora e sempre, al pallore della neve,

riso azzurro di pace, algida trina.

 

Eri e sarai nell’anima bambina

il senso d’un istante lieve lieve,

nel cuore ciò che fu di una mattina

vaga in cui nulla risultò più greve.

 

Eri il sogno avveratosi, eri il vento

rauco tra i rami verdi, eri la vita

nata di nuovo nella luce chiara.

 

Adesso sei l’antica gioia rara,

l’unica forse sulla via infinita,

eternità d’un volto, d’un momento.

 

 

Segno d’elezione nascere in inverno: dall’inerte bruma spuntano i più bei fiori. Non ci avevo mai pensato. E dire che pure io sono nato in un freddo giovedì iemale. Ne posso andare fiero, a questo punto: condivido uno stato di grazia, uno stato che non si può descrivere compiutamente. ecco, lo accenno qui, come per caso. Tutto forse succede per caso, un caso calcolato certo, che gli antichi chiamavano fatum. Ciò che era detto, decretato: capita e quindi accade. Ed è accaduto. E me ne accorgo solo ora, al finire di questa stagione così densa d’avvenimenti da lasciare senza fiato. Prima o poi ne parlerò più compiutamente. adesso chiedo solo un atto di fiducia. Di fiducia, ovviamente, in ciò che accenno e non propalo come dovrei. Non tutto può essere posto sotto la luce chiara.

Ecco, un fiore d’inverno. Qualche persona forse sarebbe lusingata a sentirsi chiamare così. Prima o poi lo farò: ne stia pur certa. Mi sento, davanti a questo spettacolo incantato, come colui che in sogno si stupisce di sentire e vedere avverarsi un miracolo: «Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem. È avvolta nell’ermellino; porta i capelli constretti e nascosti in una fascia; il suo passo è più leggero della sua ombra; la luna e la neve sono men pallide di lei. Ave» (G. d’Annunzio, Il piacere). Anche questo è il riverbero di un’alta capacità di trasfigurare quel che si è in ciò che si vuole essere, anche se qualcuno è naturalmente ciò che è e ciò che rappresenta.

 

 

Trine nivali, sogno senza fine. non amo il freddo, anche se il tempo sembra fermarsi nella stretta del gelo, come gli alberi e i fiumi nell’ode in cui il sommo Orazio parla al giovane Taliarco dei piaceri del vino e dell’amore. Siamo qui e altrove, nella pagina e oltre la pagina, a indagarci dentro e a vederci da fuori. Dall’inverno si passa immediatamente a una dimensione primaverile, in cui si cerca nascosto all’angolo della ragazza che vuole tradirsi. Eterno gioco, questo, delle parti. Non so, l’inverno è tempo di riflessione, di letture, di desiderio. Una voce di madreperla apre lo scrigno incantato e racconta quello che siamo, quello che vogliamo.

Il fiore spunta e rispunta, continuamente. Saperlo cogliere è la sfida. Il suo profumo soave chiama e richiama alla realtà. Nulla è invano, si sa. La letteratura parla di noi, come noi parliamo della letteratura, parola che crea e ricrea instancabilmente. E il tempo si fa breve, troppo breve per non essere avvinti dal sapore dolcissimo dell’ora lieve lieve tra gli ansanti ventricoli del cuore. Tra l’uno e l’altro battito la vita che prosegue e ci avvince, che ci spinge tra l’infinito e il nulla. Parole al vento e vento di parole per le strade deserte, ma tra cui tutto si fa possibile, quasi per caso, per volontà che scende in noi dalle stelle, de sideribus. Ecco, dunque, che «il fiore ha come un miele / che inebria l’aria; un suo vapor che bagna / l’anima d’un oblìo dolce e crudele» (G. Pascoli, Digitale purpurea, I 19-21).

 

 

 

© Federico Cinti

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Acquerello per Sara

 

Pennellate di sole. Ride l’aria

ebbra d’azzurro. Palpiti di vita

riempiono il cuore. Sulla via smarrita

sogna l’anima fragile, precaria.

 

Al cuore una dolcezza immaginaria

rampolla, ardua vertigine infinita

adesso e sempre. Labile salita,

caducità dell’ora che non varia.

 

Antica novità di primavera,

presaga del trascorrere dei giorni,

oggi vestita d’una luce chiara.

 

L’ora trascorre, adesso, forse ignara,

lungo i mille sentieri dei ritorni,

in cui tutto sarà come già era.

 

 

Come nasce una poesia? qualcuno di recente me lo ha chiesto. Me lo sono domandato sempre pure io. Spesso mi sono visto da fuori, seduto al mio tavolo, digitare sequenze arcane di lettere. Al mio tavolo, certo, oppure sulla sedia, sul divano, in autobus. Una posa, ovvio: si è sempre fatto così. Eppure, credo che una poesia non nasca: la poesia esiste già, tra le pieghe nascoste delle cose, nell’aria che si respira, nel senso che si scopre a poco a poco, come un miracolo, come una rivelazione. È come se qualcuno ce la dettasse. Il vate ebbe a spiegare che «i’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV 52-54). Un’ipostasi bella e buona, questo suo «Amor», l’entità che per gli scolastici era «voluntas animi», la forza che eleva dal moto discensivo del desiderare (de sideribus) a quello elativo del considerare (cum sideribus).

Nella realtà, non altrove o chissà dove, è insita la poesia, perché «c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico» (G. Pascoli, L’aquilone, 1-2). Straordinaria dichiarazione, questa, di quell’inesprimibile «qualcosa» – altri avrebbe detto «non so che» – «di nuovo» e «d’antico» inscindibilmente insieme. Un unico afflato, un unico senso permea e trascorre gli infiniti piani in cui ci si muove e ci si trova. Ecco dunque che in una pennellata di sole, in un po’ di colore oltre le case si coglie ciò che tutti abbiamo dentro da sempre. in questo la parola crea e ricrea ogni istante, invisibile sibilo del cuore, perché sono sempre «parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 5-7).

Va colta, tutto qui e non altro, la poesia, fiore dolcissimo di campo. Perché la poesia si può donare, come omaggio fuori del tempo e dello spazio, come momento di condivisione immateriale. Non a caso l’occasione, il kairòs, è ciò che muove lo svelamento dalla misteriosa unità al momento particolare in cui si plasma, si dà forma e sostanza allo sciame dei nostri pensieri o emozioni. Non è mai indifferenza o atto cortese, bensì sempre una necessità ineludibile. Non il poeta, quindi, canta e fa versi, bensì il sentimento di cui si fa strumento. anche un compleanno a fine febbraio può essere motivo poetico da onorare, principio e fine di un ciclico ritorno.

 

 

 

Non altro, almeno mi pare, sulla questione. I più faranno finta di capire che cosa significhi questo travaglio interiore. Eppure, l’arte è anche mestiere e non ci si improvvisa nemmeno ad «accordare le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciottolio» (G. Gozzano, La signorina felicita, III 47-48). Anch’io ci ho impiegato tanto a oltrepassare la linea d’ombra che permette di comprendere, seppur velatamente e in modo impreciso, questo groviglio inestricabile. tanti si limitano a fare a pezzi la fragile struttura di cristallo di una poesia, come se il bello di un fiore fosse la sequela ordinata dei petali o la corolla vivisezionata sotto il vetrino del microscopio. La profonda unità tra sostanza significante e significata non può essere oggetto di analisi, pena la scomposizione artificiale di un mistero che continua, nonostante tutto, a restare tale. Chissà, la critica letteraria origina in qualcuno non dallo scambio di idee, bensì dall’impossibilità di averne di proprie e dalla voluttà di distruggere le altrui. La primavera esiste nonostante l’occhio di chi pretende di spiegarla scientificamente. Ma la retorica serve pure a questo, a velare di falsa epistème la dòxa più vera.

 

 

 

© Federico Cinti

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