Senza fine

 

Albeggiò. Squarcio tremulo. Lontano

musiche rosa candide vermiglie.

Occhio aperto, riflesso d’un profano

risveglio dentro un mare di giunchiglie.

 

Eri tu, tra le mille meraviglie,

sola certezza in quest’andare insano.

Eco, voci di voci, eterne figlie

nell’attimo in cui nulla era più invano.

 

Zampillò la tua dolce luce chiara

al soffio della vita sulla via.

Fu il tempo lungo il baratro, scogliera

 

in cui si riaffacciò la primavera.

Nel cuore la tua pura melodia,

estasi d’improvvisa gioia rara.

 

 

E tutto a un tratto si squarciano le tenebre notturne, quando «già de l’ultima stella il raggio langue al primo albor ch’è in oriente acceso» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XII 58, 3-4) e intanto «spunta / fra la tacita selva in sulla rupe » il «nunzio del giorno» (G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 2-4). Così ogni cosa cambia all’apparire di Venere e una luce nuova riaccende una speranza. Come un lampo zampilla una gioia inesprimibile e inattesa. In quel bagliore fluttuano armonie celestiali, riflesso di un’anima alla ricerca di quanto la completi. Un canto senza fine di cori angelici intona: «O Maria, diana stella, / che riluci più che ’l sole, / la mia lingua dir non pole, / o Maria, quanto sei bella» (S. Razzi, O Maria, diana stella, 1-4), e ricomincia il giorno.  

Suoni e volti si rincorrono, nuovi Eco e Narciso nello specchio del cuore. Nel giallo delle giunchiglie si riflette il sole riaffacciatosi nella cosmica armonia. Senza fine si genera l’amore oltre l’umido buio in cui tutto è inghiottito per sempre. occhio e voce, coagulo di mille meraviglie in cui ogni dimensione riacquisisce il proprio senso. Il ciclo ripercorre il trito sentiero all’infinito. Eppure, ci si ritrova sempre sull’ultima linea, a domandarsi: «Perché ne l’aria bruna / sudian, quasi dolendo, intorno intorno, / gir l’aure insino al giorno? / Fur segni forse de la tua partita, / vita de la mia vita?» (T. tasso, Qual rugiada o qual pianto, 8-12). Di nuovo e per sempre, senza fine, Enea saluta la sua bellissima Didone.  

 

 

Dall’antica scogliera «ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19-20). Il varco è proprio qui, sulla cresta dei secoli, nell’eterna primavera che ritorna «e festosetti / la salutan gli augei con lieto canto» (A. Vivaldi, La primavera, 1-2). Sulle acque si riflette la luce in infinite scaglie d’oro. Quello è il tesoro del cuore. La rinascita passa dal sogno di un giorno migliore, nell’oblio rasserenante in cui si dissipa la notte. E così agli occhi e al cuore si schiude l’estasi che ridona alla vita, eterea metamorfosi.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Interludio dopo Natale

 

Azzurro il cielo sopra le Moline

esala lento tra le luci accese,

un palpitare prima della fine

gocciola tra le tegole sospese.

 

Esile vacuità, trama d’attese

nascosta oltre le imposte tra le trine,

infinita città, dolce paese,

ansia di vita dentro le cucine.

 

L’anno va via, l’ennesimo ritorno

oscilla nell’asintoto perenne

del tempo inafferrabile alle mani.

 

In cammino, non ieri, non domani,

null’altro che il presente arduo, solenne,

incessante procedere del giorno.

 

 

Era a cena da un’amica, l’altra sera, l’Ingegnere: gli capita, ogni tanto, anzi spesso, di adire quel mondo senza età, senza contorni. Era quasi «l’ora che volge il disio / ai navicanti e’ntenerisce il core» (Purg. VIII 1-2), quando un guizzo di memoria mi ha sorpreso. Sulle Moline ci si era già soffermati, temporibus illis, a proposito di Gregorio, il libraio che non ti vendeva nulla se prima non l’aveva letto. Un miracolo, un genio, un intellettuale? Chissà, a Bologna si dà di tutto, nella sua fauna pittoresca e bizzarra. Si trova nella porzione cittadina tra Mascarella e Belle Arti, dove ha abitato cinquant’anni mia zia Pierina, il cuore della zona universitaria.

Gocciolava il cielo l’ultima azzurrità dalle tegole dei tetti spioventi, dai profili irregolari e lontani, in un ennesimo giorno di fine anno, quando per le strade fluttuava senza saperlo «il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente» (G. d’Annunzio, Il piacere). In quell’ansia di ricordi ho ripercorso il desiderio di ritorno, quella nostalgia che è forse tutta letteraria, ma che è l’unica cosa che resta al fondo dell’anima. Anche le parole hanno vita, brillano come fari accesi. La fatica maggiore pare sia riconoscerle nella loro nudità, senza che la retorica – per dirla con Pirandello – non muti la forma in imitazione.

 

 

 

Anch’io ero con l’Ingegnere, in qualche modo, oltre i portici, sui lastroni dissestati, eppure così familiari a chi trascorre tra quelle case quel po’ di vita che gli è dato di regalare al tempo. Dalle finestre emanava una luce, velata dalle trine e dai balconi, una luce interiore azzarderei quasi a scrivere, se non apparisse un che di antico e paludato nell’esprimersi così. Era pur sempre un interludio dopo Natale, quel giorno, nell’incantata sospensione di momenti che non tornano se non nella ciclicità in cui vive soltanto il presente. È per questo che non posso tacerne, non posso tacere di quella piccola serata bolognese in cui tutto resta sempre uguale a se stesso.

Prima o poi, come allora, prenderò un’altra volta quella via dal nome antico, Moline, sorta sui canali e sulle acque che oggi non si vedono più, sotterranee e intime, come i flussi vitali che sentiamo pulsare senza tregua. E in quelle acque sta lo specchio nascosto di ciò che siamo e di ciò che non possiamo, distacco e presa di coscienza nel medesimo punto. La superficie cela e svela ipso facto. Il più è accorgersene, distratti come si è dal transeunte, mentre «ciascuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera» (S. Quasimodo, Ed è subito sera). Oltre quel vetro, anch’io respiravo «non so che felicità nuova» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, 24).

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Solstizio invernale

 

Alla tua luce chiara m’abbandono,

trasparente armonia di scaglie rare,

e non sarò mai più quello che sono.

Canto d’allora, naufrago: altro mare

 

ho davanti, altra via. Ricominciare

esule. Nulla intorno, nessun suono,

non sogno oltre una gioia singolare,

oltre la tua dolcezza, ultimo dono.

 

Nuda l’anima, solo vestimento

la nostalgia al crepuscolo del giorno.

Odo appena: una musica leggera

 

s’insinua sussurrando sulla sera.

Adesso e sempre, ennesimo ritorno,

infinito incantesimo nel vento.

 

 

In questa luce chiara, che sa già di vanità crepuscolare, tutto sa d’altrove. Anche il cuore s’abbandona, galleggia sospeso lontano, su una liquida superficie splendente che spinge al di là, che porta oltre, in un «palpitare / lontano di scaglie di mare» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 9-10), anche se «i brevi dì» ora «sembrano tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-14). Oggi in particolare il giorno pare rallenti sull’orizzonte, invictus per definizione a fine autunno e a inizio inverno, quando anche i Romani festeggiavano i Saturnalia in un reciproco scambio di doni.

E il dono è questa luce soffusa in cui sentirsi parte del tutto, in cui «sento che il mio volto / s’indora nell’oro / meridiano» (G. d’Annunzio, Meriggio, 70-72), simile al dono panico dell’estate, quando ci si perdeva «dentro il meridiano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Altra stagione adesso frastorna questo tempo in bilico sulle porte del buio, in cui è così dolce cogliere il bagliore di un sorriso di cielo, occhio che si chiude sul mondo stretto dal freddo cristallino. Anche i rumori soffondono a poco a poco, come eco nell’anima, ricordo di un tempo che va, di un tempo che viene, forse immobile come la nave sull’acqua tranquilla alla ricerca di chissà che porto indecifrabile.

 

 

È sufficiente una voce, musica antica alle orecchie, canto di culla e di oblio, a trascinarmi con sé. Risorge e si confonde in questo tempo il senso delle cose. Forse non tutto è perduto. Il viaggio ricomincia, anche più lieve di prima. Il naufragio in questa chiarità dell’aria risveglia la brace di emozioni mai sopite del tutto. Arde l’ansia dell’ora, il cuore vive e rivive in cerca di un porto sicuro. Fine e inizio di nuovo si confondono nel circolo dell’anno che si chiude, che si apre senza sosta. Ma «il varco è qui?» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19), ci si chiederebbe ancora increduli, mentre tutto è scoperto e «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7).

Ecco, dunque, il segreto, riuscire a dare del tu a questa luce chiara in cui non perdersi, bensì ritrovarsi, in cui adagiarsi per sempre, come in un sogno infinito. Laggiù gli alberi raccontano di nuovo della fine e del principio, del tempo che ritorna e si allontana senza tregua. In questo pomario esiste «la maglia rotta nella rete» (E. Montale, In limine, 14), la via di fuga, la redenzione di queste ombre anelanti alla vita, alla vita vera. È questo il sole che ci irradia di una luce nuova, di quella luce chiara che ci fa amare e sperare.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Ultimo sole

 

Accoccolato al pallido chiarore

pomeridiano in me si specchia il giorno.

Rincorre il senso il correre delle ore

ossessionato ancora dal ritorno.

 

Infinita dolcezza sul contorno

l’azzurro lieve senza alcun rumore.

Malinconia, non altro, tutto intorno

il tempo che non vive, che non muore.

 

Oggi, domani e sempre le parole

caduche nella concava conchiglia,

un suono appena e subito non sono.

 

Opaca nostalgia l’ultimo dono

rimasto tra le palpebre e le ciglia,

estasi eterna l’agonia del sole.

 

 

 

Nel silenzio ovattato del pomeriggio, in un bagliore quasi solstiziale, il tempo sembra essersi fermato alla ricerca del senso ultimo delle cose. Al di qua del vetro, nel freddo di fine autunno, tutto sembra irreale. Forse lo è. Anch’io mi sento sospeso in questa dimensione senza fine, ultimo fotogramma di un giorno autunnale in un’inerzia infinita. Mi piacerebbe, lo ammetto, non terminasse mai questa traslucida armonia, fissa laggiù. Ed è così che anch’io, come eco impercettibile nei ventricoli del cuore, mi metto «a guardare l’agonia del sole» (G. Pascoli, Diario autunnale, II 8).

Eppure, nel sole occiduo fermo sull’orizzonte, appare l’iride infuocata di un occhio che tutto vede, che tutto guarda. Ci specchiamo in quell’occhio languido: in esso tutto appare chiaro, anche il tempo che fugge e che ritorna, che resta e se ne va, senza che noi vogliamo, senza che noi possiamo fare altro che prenderne atto. Nulla di più che uno specchio in cui ritrovare noi stessi o in cui perderci per sempre, finché la palpebra non si chiude involontariamente, nel fremere inarrestabile dell’atto. E su quella soglia non comprendiamo più se siamo noi a fissare lo sguardo o è quello sguardo che fissa noi: realtà o finzione, immagine o riflesso? Tutto cambia in quell’attimo, perché «mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Nella mia metamorfica trasformazione tutto muta con me, perché appartengo a quel grande libro in cui «s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII 85-87). Occhio e volume, tutto e nulla, l’io e il mondo.

 

 

 

Eco di un’eco, certo, anche la visione che scava a goccia a goccia dentro di noi. Non si resta indifferenti, non si resta mai uguali dopo il bagno in quel fiume sempre diverso. È lo specchio di Alice in cui tutto è, in cui nulla manca alla sua – per non dire alla nostra – fantasia. Mi ci ritrovo, qui, dietro il vetro, come la donna che, rimirandosi nel «bel vetro tondo», innamorandosi di sé, fissa «l’effigie del mondo» (T. Tasso, Donna, il bel vetro tondo, 1 e 4). Vedere ed essere visti, come al di qua e al di là dello schermo. La conchiglia ripete all’infinito la voce del mare, di quel ponto che si fa ponte ai nostri viaggi, se davvero da sempre siamo nauti, pure nella fissità di un pomeriggio tra le scaglie dorate di un mare che pare, di lontano, una corazza d’oro a proteggerci. Ecco allora che ascoltiamo quella voce lontana, quel mormorio di cui la conchiglia è custode. E il tempo s’annulla, non più ieri oggi e domani, bensì il nunc et semper et in saecula saeculorum delle orazioni che non ci fanno più imparare. Lingua morta? No certamente, ma immortale.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

A Maurizio il 10 dicembre

 

Muto il portico gelido di marmo

addobbato di festa,

una vetrina dopo l’altra. Resta

recondito un pensiero

indicibile, vivido un ricordo.

Zampilla un filo pallido di sole

in lontananza, il riso

opaco di quell’ultimo sorriso.

 

Mesta la via nell’ora

attardata nel giorno

nuovo nel tempo senza più ritorno.

Tutto fugge così, perso in un punto

evanescente al vertice in cui l’occhio

crede alla convergenza parallela.

Così fu. Sarà ancora.

Ha il tempo il rito dietro cui si vela

il senso. Un’illusione

non già. La vita giace

in quest’attimo fragile di pace.

 

 

Che vuoi mai, Ingegnere? S’annulla il tempo. Questo lo si impara a proprie spese e non perché non si voglia credere agli altri. A me è capitato così, almeno. Il tempo non è gratis per nessuno. Si prova a far finta di nulla: è umano, troppo umano. Poi, naturalmente, il pensiero ritorna sempre «colà dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 33-34), al tarlo che ci scava e ci divora. Ricordi, tutto qui, oggi soprattutto che siamo anestetizzati dalle memorie artificiali per non essere più padroni del nostro passato e del nostro futuro. Tutto si condensa nell’evanescenza rapida di un’immagine virtuale. Il reale è fuggitivo, come la vita che lo abbraccia. Ciò che è mio è con me: lo confessava candidamente Stilpone di Megara a Demetrio Poliorcete. Non c’è bisogno che io ti richiami alla mente il De constantia sapientis (V, 6 in particolare) di Seneca.

In un giorno come questo, di nebbia o poco più, resta solo la certezza di ciò che materialmente non si possiede più. Forse non è nemmeno così poco, a rifletterci bene. Mi rivedo, ormai non so più nemmeno quanti anni fa, sotto il pergolato della casa alla Venturina a discettare con te e con Maurizio dei massimi sistemi, una calda domenica di fine agosto. Ci si era tutti. Che strano effetto mi fanno, adesso, quel tepore e quel sapore, languidi come tutto ciò che si sa di avere avuto e di non avere più. E la sua voce acuta, sì, quella voce tutta particolare, soprattutto al telefono. «Prontoooo!». Non è solo per ridere che ce la si ripeteva e gliela si ripeteva. Oggi sa di dolcezza malinconica, come la cupa fine d’autunno, dal «tedio che dura infinito» (G. Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno, 60). Ma non è la noia «in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani» (G. Leopardi, Pensieri, LXVIII).

 

 

 

Anche al tè delle befane si metteva sempre di fronte a me, dal lato corto del tavolo ovale, tra il pianoforte e il presepe. Era là, a tenere banco, tra gli amici di una vita. ora la sua seggiola è vuota, come purtroppo tante altre. Solo il ricordo non muore mai, Ingegnere. La poesia ce lo rammenta da sempre: pulvis et umbra sumus (Orazio, carm. IV, 7, 16). Farsene una ragione è quasi impossibile, almeno per me. Il filo di sole che, a un tratto, s’apre tra le nuvole, ecco, questo sì mi dà speranza che questa condizione non sia vana, ma segno di qualche cosa di più grande. Non è retaggio antico, consegnataci da chissà chi e per chissà che motivo. Lo si impara, anche questo, a goccia a goccia, a volte per intuizione diretta.

Eppure, Ingegnere, non voglio annoiarti. Forse già l’ho fatto, ma la scrittura è così: o la si ama o la si schiva. Il domani già bussa alla porta. Fermarsi a pensare è pericoloso, nel logorio del silenzio interiore, mentre tutto all’esterno sembra indifferente. Potrebbe pure esserlo, se non ne facessimo parte. Oggi sarebbe uno di quei giorni da cancellare o da saltare. Invece, ci si sente buttati là, «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata» (G. Ungaretti, Natale, 9-13). Per sorridere un po’, come ogni tanto si fa, ripensiamo ancora alla domanda fatidica di Maurizio: «Ma che fine hanno fatto i farisei?». Me la ripetesti, in casa di Elena, precisamente nella cucina. Il tuo tono era perplesso. C’era pure l’amico tanto strano con noi, quell’amico che poi si è perso e non abbiamo capito nemmeno perché. Eppure, quella domanda così bizzarra adesso non mi pare più così particolare. È un pezzo del mosaico che è andato in frantumi il 10 dicembre dell’anno scorso e che faticosamente, diciamolo pure, si tenta di ricostruire, tassello dopo tassello, per farne parte di noi.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Un palpito lontano

 

Rara felicità: tra lo spiraglio

opaco dell’autunno anela un raggio

buono di sole. Insolito l’abbaglio,

ennesima dolcezza di miraggio.

 

Ricomincia la via, riprende il viaggio

tra le incertezze di un perenne sbaglio.

Attesa (o solitudine?) il passaggio

rapido della soglia, ultimo vaglio

 

in vista d’un sorriso. Nulla è invano.

Tutto sa di vissuto, di passato,

oscillante inquietudine presente.

 

Resta ciò che si vuole, che si sente

nell’anima, un pensiero ritrovato

ancora vivo, un palpito lontano.

 

 

Davvero un palpito di sole «che fa tremar di chiaritate l’âre» (G. Cavalcanti, Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, 2), lontano, chissà dove. e l’anima ricomincia a respirare, a sperare, in modo naturale, «come calore in clarità di foco» (G. Guinizelli, Al cor gentil rempaira sempre amore, 10). Nulla è invano, in un’attesa che si fa condizione esistenziale, giusto distacco dall’effimero e dal transeunte. Perché, in fondo, bisognerà pure ammetterlo che «era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare: // il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 18-20). Ed è forse così, quando ci si trova – o ci si ritrova – all’inizio della fine, quando il penultimo mese sta per cedere all’incanto del Sol invictus, altra luce, unica luce, vera luce che ci è dato di fissare senza annichilire.

 

 

 

Si riparte, qualsiasi sia il luogo in cui ci si è fermati. La digressione è finita, l’excursus ci ha arricchito, nonostante la fatica, «quamquam ad hunc locum perventum est» (Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico, VI 11): se non si perde tempo, non s’arriva da alcuna parte. In questo raggio eccentrico naufraga il pensiero, dolce mare di una ricerca inesausta. La mano è tesa a percorrere nuove strade. Ciò che è stato conta solo se ne riconosciamo il valore: «eppur mi giova / la ricordanza e il noverar l’etate / del mio dolore» (G. Leopardi, Alla luna, 10-12).

Si è tutti sulla via, si è tutti in viaggio, fino all’ultimo giorno. Tutto quello che è nostro è assieme a noi, oggi forse ancora più che in altri tempi. Ci si squaderna innanzi il volume nel suo profondo: «e quel libro era antico. Eccolo: aperto / sembra che ascolti il tarlo che lavora» (G. Pascoli, Il libro, I 5-6). Oggi ha il volto ridente di chi guarda, di chi ci si specchia, quasi senza accorgersene. Oggi è sempre con noi, sulla soglia dei liquidi cristalli. Oltre di noi o dentro di noi? Palpita quella luce, spiraglio tra le nuvole, tra i gorghi di un labirinto selvaggio. Per non perdersi è fondamentale non rimanere soli con se stessi, col proprio ego. Ecco, quindi, la luce che viene dall’alto e che ci salva, in primis dalla nostra solitudine.

Il resto sono solo chiacchiere, dibattito sul nulla e dintorni. La soglia è varcata, è vagliata. La mano è tesa e non siamo più soli: nessuno basta a se stesso, non può bastare a se stesso. Anche la comunicazione è non altro che mettere in comune ciò che siamo e che vogliamo con gli altri. A questa luce ci ritroviamo e troviamo di nuovo. Il percorso è segnato, procede anche attraverso l’erranza solita che ci contraddistingue. Ma proprio le strade laterali ci scoprono mondi e ci riportano a casa, la nostra vera casa. Le due parti del cuore spezzato, antichi symbola di un’unità ideale, si ricompongono in una misteriosa fusione.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Con Paolo al Margherita

 

Piccole gioie. Il tempo si dilata

a dismisura. Assorto tra lontane

ombre il sole. Impalpabile folata

le nostre vane

 

orme tra gente ignota, senza volto.

Musiche arcane al fragile cascame,

addio ai ricordi, ai sogni, in cui sepolto

langue il fogliame.

 

Esserci come sempre, come allora,

tra un infinito battito di ciglia.

Tutto è già stato; eppure, trascolora

o meraviglia.

 

 

 

Era lì, fuori della porta, ad attendermi. Una sorpresa, certo: non me l’aspettavo. Lasciavo Cicerone che parlava ad Attico prima del suo esilio dall’Urbe e poi del suo trionfale ritorno. La compagnia era buona, non lo nego. Mi aveva colpito più che altro quest’espressione lapidaria: inimici mei mea mihi, non me ipsum ademerunt (ad atticum III 5). Mi era parsa la metafora della vita, non c’è che dire, e del luogo in cui mi trovavo: i nemici ci possono portare via tutto, ma non noi stessi. E nemmeno gli amici di lunga data. Già, Paolo era lì fuori, alla fine della seconda ora. Mi aspettava per il caffè. Che poi, diciamolo, è la scusa per un attimo di fuga dalle solite incombenze. L’asfissia è infingarda: fa credere di respirare bene, quando invece si è immersi in un’aria malsana.

Un amico, già, di lunga data, dei tempi del liceo, il Minghetti, Paolo. A pensarci adesso mi suona quasi un’eresia. Già, noi, poveri studenti di allora. Secondo me ci è rimasta addosso l’abito stinto dei clerici vagantes. Anche all’università si era così, quando ci si incontrava, sempre di corsa per i portici o i lunghi corridoi, sempre a fare altro. Non è cambiato poi così tanto. Ci è rimasto quel desiderium, però, tutto scritto nelle stelle tanto per fare un po’ di etimologia spicciola, di quello studium che poi altro non è se non passione per la letteratura, per il pensiero, per tutto ciò che riguarda insomma la nebulosa che chiamano in modo altisonante cultura. Paolo è un avido lettore, lo so. la sua curiositas lo accende, ogni volta, quasi s’illuminasse. Io lo ascolto con trasporto. Il caffè è una scusa, ovviamente; l’ho già detto, ma me lo ripeto. Tra le cose e le case s’apre sempre un varco sconosciuto o dimenticato.

Stamattina siamo andati al Margherita, al di qua del ponte del Reno. Ci torno sempre volentieri, quando riesco: è un tuffo nei ricordi. Tanti amici che ci incontravo o con cui ci andavo non ci sono più, ombre d’ombre in mezzo alle tante fotografie appese al muro. Eppure, la malinconia si nutre anche di vuoti incolmabili. Nulla di strano se poi abbiamo cominciato a divagare nel tempo e nello spazio, tra letture ed elucubrazioni tutte nostre. Null’altro se non questo, un’amicizia ritrovata, già dall’anno scorso. Non sarei più rientrato, lo ammetto candidamente. Eppure, mi aspettava Emile Zola con le sue assurde pretese di imbrigliare scientificamente il romanzo. Anche un mio studente, Giacomo, lo ha detto, con tono quasi risentito. Gli ho dato ragione. Perché, in fondo, tutto è scienza e tutto è creatività: il metodo è uguale. Le partizioni accademiche in discipline umanistiche o scientifiche nascono proprio da quel mondo che a tutti i costi vuole separare la profonda unità del sapere. Follia tipicamente contemporanea, positivista in senso deteriore. Lo diceva già più di duemila anni fa Terenzio che Homo sum, humani nihil a me alienum puto (Heautontimorumenos, 77), e io non posso dirlo?so che Paolo approverebbe.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

In questo giorno – all’Ingegnere

 

Attardarsi sul limite. Nebbiose

lontananze nell’anima, un sussurro,

una voce insondabile tra cose

chiare d’azzurro.

 

Antichi sogni. Lieve nostalgia

muta per l’aria, nel silenzio assorto

appare ciò che fu. Lungo la via

noia e sconforto.

 

Trema un sibilo d’ala. Scuote il vento

emozioni d’un attimo. Oltre il velo

chimere d’una vita, lo sgomento

che chiama al cielo.

 

Hanno gli alberi un fragile torpore

in sé. Tutto fu già, tutto è ritorno

nell’oblio di quest’essere incolore,

in questo giorno.

 

 

Nascere in autunno, in particolare in questo giorno, mi pare un privilegio. In altre epoche della mia vita non mi avrebbe mai sfiorato nemmeno l’idea di pensarlo. Si cambia, è necessario, e pure con un insano gusto per la metamorfosi, tutto qui: la coerenza non è sempre una virtù e soprattutto non lo è relativamente a certe questioni. Anche perché, bisognerà pure ammetterlo, il tempo è un congegno strano. Ero quasi tentato di lanciarmi su «ordigno», ma poi mi sarebbe sembrato di scadere nel ghiribizzo della citazione, da Dante in su o in giù. Sì, proprio il sommo vate, perché impiega questo termine per dare una visione d’insieme di Malebolge, «di cui suo loco dicerò l’ordigno» (Inf. XVIII 6). Probabilmente ordo gli sarà risultato troppo neutro, troppo poco diabolico intendo, anche se è vero che «l’occhialuto uomo […] inventa gli ordigni del suo corpo» (I. Svevo, La coscienza di Zeno). Niente di più, non volevo esagerare. Forse è la malinconia autunnale, una rivisitazione della noia leopardiana. Del resto, anche io ho l’impressione «che per tutto nel mondo è novembre» (G. Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno, 56), in uno spleen tutto nostro, tutto bolognese, «in un tedio che dura infinito» (v. 60).

Eppure, il mio amico Ingegnere è nato proprio a novembre, in particolare in questo giorno. Me lo ripete sempre, con una certa aria di superiorità: «Tu sei molto più vecchio di me». Ed è vero, purtroppo. Così, nel mio posticino solito, sul lato corto del tavolo della sua cucina, mi stringo nelle spalle e annuisco. Perché sì, è la verità. Poi, lo guardo dritto, pure un po’ dispiaciuto, e gli confido in tutta sincerità: «Lo so, lo so: sta’ tranquillo, ché te lo scrivo sulla lapide». A quel punto si placa ogni moto di superbia. Oh, io non sono nato a novembre: e che ci posso fare? È «un piacer serbato ai saggi», questo: l’ho già ammesso con rammarico.

Chi glielo va a raccontare, poi, all’Ingegnere del treno? Sì, del «mostro, conscio di sua metallica / anima» (G. Carducci, alla stazione in una mattina d’autunno, 29-30), quello per cui «per tutto nel mondo è novembre»? intendiamoci, non so determinare con esattezza, ma nemmeno Heisenberg ci era riuscito, figuriamoci se ce la posso fare io, i danni irreversibili della scienza e della tecnica. Anche’Ntoni di Padron ’Ntoni non si era rovinato per colpa del treno che lo aveva staccato, povera ostrica inesperta, dallo scoglio di Acitrezza, per portarlo a fare il servizio militare a Napoli? È l’inizio della fine, quando tutto cambia perché nulla cambi. È «la fiumana del progresso», chiamiamola pure così con le parole di Verga: sopraggiunge inaspettata e distrugge un equilibrio secolare, millenario alle volte. Un’ondata più forte sull’arenile e tutto è da rifare perché torni come prima.

Insomma, chi glielo va a spiegare all’Ingegnere che anche Mattia Pascal, quando non era ancora fu, si perde (o si ritrova? Io sono ancora incerto sulla vera risposta) sul treno di ritorno da Montecarlo, con un bel gruzzolo in tasca, in quel di Ventimiglia? Tutto a un tratto, all’improvviso, come per epifania inaspettata, apprende la notizia di essere morto. Già, morto, mica altro, non certo smarrito. Sapere la verità può essere una rivelazione terribile. Io non me la sento. No, non ho il coraggio di parlargli del treno, all’Ingegnere intendo, lui che ci è tanto affezionato. Anche l’avvocato della Carriola esce di testa sul treno, di ritorno da Perugia. E non parliamo di Belluca, nel Treno ha fischiato. Sì, è vero, Pirandello è un po’ una delle mie ossessioni, ma se non ne parlo a un amico di vecchia data, più di cinque lustri, direi quasi sei per esagerare, tanto chi va a controllare?

 

 

 

Sarà per questo che, ultimamente, si è spostato a studiare il trasporto aereo. Già, quegli strani oggetti che violano i cieli, una volta così belli a poterli guardare senza che nessuno ci avesse tracciato rotte così iperboliche. E parlavano di tracotanza a proposito degli Argonauti. Ma oggi, i miti, ditemi voi, chi li legge più? Eppure, parlavano di noi. Ecco, l’Ingegnere mi avrebbe fatto notare che, appunto, «parlavano di noi», mentre ora parlano di un mondo che non esiste più, rottami romantici da archiviare per sempre. Già, perché il laudator temporis acti sono io. Anche questo lo ammetto e lo sottoscrivo pure claris verbis. Gli scheletri li tengo fuori dell’armadio, in bella vista, senz’altra pretesa che mi ricordino chi avrei voluto e non sono stato in grado di essere. Il resto non conta, non ha mai contato. Il mio posticino sul lato corto del tavolo non me lo toglie nessuno. Potrei chiamarlo il mio posticino al sole, se non guardasse di sbieco la terrazza che dà sul cavedio interno, multietnica tavolozza variopinta.

In questo giorno, come «aus nebliger Ferne», per riprendere le parole di Sisi, «dalle nebbiose lontananze», guizza qualche pensiero, simile a «un’ombra errante / con sopra il capo un largo fascio» (G. Pascoli, Nella nebbia, 19-20). Nella nebbia, mare senza onde, in cui gli alberi sottili si confondono, come ciò che sappiamo, come ciò che vediamo e sentiamo. È questo il mare della conoscenza, perché in fondo sapere è non sapere. L’Ingegnere lo sa, forse anche più e meglio di me, che «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Così, insieme, ci si inoltra in questa foresta di simboli viventi, che è il mondo, anche interiore.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

A Gabriele

Già il tempo fu. Ora il giubilo

anima il viso. Il libro volta pagina,

brilla di gioia. All’ultimo

ride il cuore, spiraglio tra le nuvole.

Insolita l’inerzia,

ebrezza assaporata, mai continua,

languido desiderio

estatico. Davanti altri capitoli.

Musiche d’incantesimo:

inizio o fine? Il cerchio non ha termine.

Già il tempo fu. Per l’aria

nuota il raggio a cercare l’invisibile.

Apre e chiude la soglia

rimasta in ombra questo estremo sabato

d’attesa. Era la linea

ignota per tornare a essere liberi.

Non me lo sarei mai aspettato. Non così, almeno. Immaginavo che presentare il mio ultimo libro – Il mio nome era Tempesta. Vita del partigiano e combattente Franco Guazzaloca – nei luoghi del protagonista, a Zola Predosa, avrebbe richiamato un certo concorso di pubblico, ma doverla fare nella piazzetta antistante alla biblioteca in cui era stata programmata per permettere a tutti di presenziare è stata una soddisfazione non da poco. E poi, diciamolo pure, anche presentare il proprio romanzo con il protagonista di fianco è stato privilegio rarissimo, credo quasi unico, perlopiù ignoto ai mortali. Io posso raccontarlo.

Regista dell’evento l’amico Gabriele, l’amico bibliotecario nonché bibliofilo. Era lì come sempre, come negli ultimi quarant’anni e più è stato. Era lì, come sempre, sulla linea di confine. Non lo aveva detto pressoché a nessuno. A me lo aveva appena appena accennato, come nebulosa vaga e indefinita, come se riguardasse un altro. In effetti, l’ho compreso dopo, riguardava un altro: andava in pensione il bibliotecario, non lui. Ma che poteva importargli se veniva giubilato un altro? Ci sono dovuto arrivare a poco a poco, per forza di congettura, pirandellianamente. Deponeva una maschera, un ruolo, una dimensione. Per questo ha ceduto subito il testimone al suo successore. Insomma, si voltava pagina, si chiudeva solo una porta, tutto qui.

 

 

 

Avevo scritto pure un piccolo pensiero, un’odicina avrebbero detto in tempi più formali di quelli odierni, ed è proprio la poesia che ripropongo qui. Avevo chiesto a un amico, lì con noi, a Paolo Carati che mi aveva scritto la premessa al libro, di leggerla. Non se l’è sentita. Lo capisco: non me la sono sentita nemmeno io, figuriamoci se avrebbe potuto farlo lui. E davanti a tutte quelle persone, in silenzio, mentre un sole pallido illuminava il mezzogiorno zolese e un filo di vento cominciava fresco ad accarezzarci. Figuriamoci se non lo capivo. Si è trovato un sostituto, l’ex-sindaco Forte Clò, dalla voce stentorea e impostata. Ha confessato forse la verità, ossia che il testo non era un granché: avrebbe preferito una zirudella. Già, avrei potuto essere più scherzoso, ma per un amico di quella grandezza proprio non ce l’ho fatta. Ecco, mi sono limitato all’acrostico. Non credo nemmeno se ne sia accorto, ma va bene, anzi meglio, perché l’acrostico è fatto per non essere trovato. Almeno nell’immediato, anche se avevo messo le iniziali in grassetto.

Il tutto si è esaurito così, tra molte chiacchiere e molti saluti oltre a un bicchiere di vino nero. Giusto, perché no? Il testo può diventare pure un pretesto per ritrovare amici, parenti, conoscenti, per conoscere persone. Un buon libro, e non so se lo sia il mio, ma spero di sì, è un’occasione d’incontro. Non dico che la lettura sia facile, come vorrebbe qualcuno, addirittura un piacere; però, certamente, è un esercizio, uno scavo interiore. Mi è successo parecchie volte di dover rileggere qualche cosa per cogliere qualche vago senso e ci sono testi miei che non ho ancora compreso del tutto. Parlo con altri e mi spiegano quello che volevo dire. Chissà se era proprio così. Oggi mi è successo, per esempio. Dopo anni di lavoro ho capito bene che cosa avevo fatto. Penso, anzi spero, che il mio libro adesso sia degno di potersene stare in un bello scaffale di biblioteca. Finalmente potrebbe aiutarmi Gabriele e non il bibliotecario a capirci qualche cosa: gli scaffali, alle volte, sembrano tutti uguali.

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

A Elena

 

Eco d’un giorno, eco d’un anno, volo

lieve del tempo: tra le nostre dita

esile il filo s’addipana solo.

 

Nulla sarà di ciò che fu. Infinita

ascesa tra l’azzurro. Nulla è invano.

La meta è dove è più ardua la salita.

 

Un sorriso dolcissimo. Pian piano

per i portici l’essere, l’andare

passa. Un sogno non fu, non fu lontano

 

il limite di tante gioie rare.

 

 

Non so perché, ma ogni volta mi trovo a parlare del tempo che scivola inesorabile, Elena, soprattutto in questo tuo giorno di fine ottobre. «Croce e delizia», potresti dirmi, tu che sei una verdiana convinta, «delizia al cor». Quando siete stati a Parma per il Simon Boccanegra, anche qui inspiegabilmente, mi è venuto da cantare assieme a Leporello: «questo pezzo di fagiano, / piano piano vo’ inghiottir». Eh, io sono proprio mozartiano: lo ammetto senza riserva alcuna. Me lo perdonerai. Come tante altre cose, del resto, che qui non sto a elencare. Mi è venuto, per esempio, da citare La casa dei doganieri di Montale, «un filo s’addipana» (v. 7), anche se non è esattamente il mio poeta preferito. A te piace molto, invece. Lo affermasti con una certa convinzione, una volta. Ma ci sta, va bene. Oh, intendiamoci: non è che io non lo apprezzi. Anzi, ha testi splendidi. Tuttavia, devo riconoscere che preferisco altri autori.

Non so perché, ma il discorso mi scivola sempre di mano, un po’ come il tempo, sabbia tra le dita di un’invisibile clessidra. Che poi noi pensiamo alla sabbia, ma nel nome c’è l’acqua. Già, la clessidra è un orologio ad acqua. Poi, va da sé, ci può pure essere la sabbia al suo interno. Non è certo L’orologio da rote di Ciro di Pers, ossessione barocca per eccellenza. Ecco, sempre il tempo che incombe. Eppure, vedi, oggi ho fatto tardi a scriverti. Ci ho pensato tutto il giorno. Poi, come scrisse quello, «ed è subito sera» (S. Quasimodo, Ed è subito sera, 3). Comunque, sono qui a non lasciare passare invano questo giorno.

Anche l’anno scorso mi ritrovai così, in un dialogo con te, in un Dialogo con Elena. Alle volte non mi dispiace nemmeno citarmi, vezzo antico di chi se lo può permettere. Perché oggi, lo sappiamo, non è un giorno come gli altri. Ne prendiamo atto. Non sto a dirti altro. Ami le feste lunghe, anche più e più giorni. Questo è solo l’inizio. Te l’ho sentito ripetere. In quest’autunno così particolare tutto è sempre in procinto di sembrare altro, quasi il volo di uccelli che partono per chissà dove. È bello pensare che vadano per tornare, perché il bello del viaggio è il ritorno.

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati