Mecenate, da re nato antichissimi,
o mio presidio e dolce mia gloria!
C’è chi ama cogliere col cocchio polvere
d’Olimpia e scansare la meta con ruote
di fuoco e stringere la palma nobile
che lo porta agli dei signori del mondo;
questi se il popolo di Roma ondivago
gareggia a eleggerlo all’onore triplice;
quegli se il proprio granaio nasconde
quello che spazzano nelle aie libiche.
Chi gode a incidere campi col sarchio
paterno nemmeno coi beni d’Attalo
faresti fendere su un legno ciprio
da marinaio pavido il mar Mirtoo.
Temendo l’Africo tra i flutti icarii
in lotta elogia la città e l’ozio
dei suoi campi il mercante, ma arma subito
la nave: non sa vivere da povero.
C’è chi non spregia coppe di Massico
vecchio né togliere parte dall’integra
giornata, steso al verde d’un corbezzolo
o dove nascono sacre acque limpide.
Molti amano le armi e udire il lituo
misto alla tromba nelle guerre in odio
alle madri. Sta sotto un cielo livido
chi caccia immemore della dolce sposa,
se avvistano una cerva i fidi cuccioli
o è in trappola un cinghiale della Marsica.
L’edera, premio di dotte tempie,
mi congiunge ai celesti, il bosco gelido
e le danze agili di ninfe e satiri
m’isolano dal volgo, se le tibie
non mi proibisce Euterpe né Polimnia
nega di tendere il barbito lesbio.
Ché, se m’inserirai tra i vati lirici,
le stelle toccherò col capo in aria.
Mi chiese una collega, ormai non so più quanti anni fa, perché mi piacesse tanto la prima ode («Maecenas, atavis edite regibus») di Orazio. Mi pare d’averle risposto che la sua musicalità mi affascinava. Era vero, certo, assieme al fatto che è una vera e propria dichiarazione di poetica. No, non certo l’unica; anzi, la prima di tante. Anche per questo ha un rilievo particolare. Ma la musicalità, già, la musicalità dell’asclepiadeo minore è fuori di dubbio. A ogni modo, mi aveva chiamato lei a leggerla, per dir meglio a recitarla, ai suoi studenti. La letteratura, con buona pace dei militanti impegnati, è non solo significato, ma pure significante, il perfetto equilibrio tra forma e sostanza, perché la forma è sostanza.
A quest’ode mi lega pure il ricordo del primo esame di letteratura latina. La ragazza prima di me, cui era stata chiesta, non aveva brillato particolarmente; anzi, non aveva quasi proferito verbo. Mi presentai io e la esposi quasi a memoria. L’ho detto che era nelle mie corde, anche se non capivo allora il motivo. mi risuonava particolarmente. La leggevo secondo quella che si chiama, in modo aberrante, lettura metrica. Oggi non la sopporto molto, perché è falsa; ma all’epoca era motivo di vanto riuscire a leggere in modo naturale in quella maniera. Anche oggi, intendiamoci, lo so fare; ma la consapevolezza dell’età e dell’esperienza mi fanno sorridere a tanta dotta erudizione. Aveva proprio ragione Seneca: «non vitae, sed scholae discimus».
Eravamo in aula Pasoli, al dipartimento di filologia classica e medievale di Bologna. Tre finestre, una di fronte all’entrata, due sul muro di destra. Un’altra porta, sul muro dell’ingresso, portava in un altro locale in cui non ricordo che cosa ci fosse. Dettagli inutili, come certe descrizioni pedisseque. Ma la memoria si nutre soprattutto di dettagli. Quel che mi piaceva di quell’aula è che dava da un lato sul terrazzo del Teatro Comunale e dall’altro sulla famigerata piazza Verdi. Un tuffo al cuore mi dà pensarci adesso. Era un po’ casa mia. chissà, forse per questo mi piace tanto questa ode: mi piace perché ha il sapore delle cose che non tornano più. La poesia ha pure questa funzione. Anche Giancarlo Giardina, il professore che aveva tenuto il corso e di cui poi divenni amico, pur nel rigoroso rispetto dei ruoli, nel corso monografico aveva letto Orazio. nel primo esame le Epistulae, mi chiese la dodicesima, e nel secondo le Odi. Mi chiese la trentesima del terzo libro, altra sublime dichiarazione di poetica, sempre in asclepiadei minori. Mi rendo conto solo ora di tante coincidenze, se poi esistono veramente. Ecco, il mosaico si ricompone a poco a poco davanti ai miei poveri occhi smarriti.
Mi hanno dato filo da torcere, negli anni, questi benedetti asclepiadei minori. Già, non ne venivo a capo. Il verso latino mi era chiaro, anche troppo. Ma come renderlo? La tradizione italiana aveva adottato alcune soluzioni, ma più che rigorose mi parevano rigide. Da quelle, ovviamente, sono dovuto passare. Gabriello Chiabrera era riuscito in qualche modo a riprodurlo e Giosuè Carducci lo aveva seguito, con qualche piccola innovazione. Mi ci sono crogiolato parecchio in questi sistemi, ariosi, musicali, dalla vaga ascendenza classica. Vaga, insomma, pura ascendenza classica. Eppure, parevano restare lettera morta, reperti archeologici collocati in un museo polveroso. La poesia non è questo. E nemmeno la traduzione. La forma è sostanza: me lo sono ripetuto fin troppe volte.
Chissà, forse Euterpe e Polimnia mi hanno visitato e mi hanno mostrato la via alla soluzione del dilemma. Anche questa è forse solo una tappa del mio viaggio, ma mi sembra degna d’essere proposta alla lettura. Ecco, alla mia collega oggi potrei rispondere che quella musica non solo vive in me, ma continua a risuonare come quel primo giorno. potrei andarle a raccontare mille altri particolari, ma non le importerebbero, come non le importarono tanti anni fa. La poesia si vive, come la vita si scrive.
© Federico Cinti
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