“Ti penso” e “In dissolvenza”, menzioni d’onore

 

Al concorso poetico «Lampi di poesia», indetto dall’associazione « Monginevro cultura» di Torino, non avevo partecipato inviando solo Nevicata, cui è stato assegnato il primo posto nella sezione A (testi brevi in lingua italiana), ma pure Ti penso e In dissolvenza. Preso dallo stupore per il risultato, avevo omesso di riportare gli altri due testi che, comunque, hanno ricevuto la menzione di merito, riconoscimento non meno importante e di cui ringrazio ancora il Presidente e poeta, Sergio Donna.

riporto di seguito i due testi con il relativo giudizio critico della giuria.

 

 

Ti penso

 

Ti penso. L’anima si perde all’ombra

d’antiche immagini, d’un sogno. Eppure,

vano per l’aria riappare il volto

noto in un sibilo lieve di vento,

sorriso pallido. Nel cuore vivi

di rosea grazia, vivi di luce

lontana, tenue speranza al cuore

che attende. Gioia di quest’istante

eterno: l’attimo sfuma pian piano

dove non limite c’è, dove il tempo

non ha principio né fine. Stringo

in un abbraccio ciò che mi è caro,

oltre la soglia dell’infinito.

 

Motivazione della giuria

Intensa poesia che palpita d’amore: i versi scorrono in un attimo breve, che sfuma pian piano, e si perde oltre la soglia dell’infinito.

 

 

Mentre il primo testo è in rolliani, la riproposizione italiana inventata da Paolo Rolli per rendere i faleci della poesia classica, il secondo è in dimetri giambici, resi con settenari sdruccioli. Questa piccola nota tecnica spero non disturbi troppo i miei lettori.

 

 

In dissolvenza

 

Nell’ora immota attendere

che s’apra il varco. L’anima

appesa all’inquietudine

veglia: nel suo rifugio

 

di sogni un viso tremola

dimenticato. Pallida

dissolvenza nell’ardua

tensione: dentro l’ultimo

 

raggio nuota una nuvola

smarritasi. Il crepuscolo

si chiude come palpebra

né tenta di resistere

 

al buio. Solitudine

giunta improvvisa, brivido

che percorre la concava

vacuità che ci abbraccia

 

ormai. L’ansia dell’attimo

non ha ragione d’essere

più. Già lontano è il palpito

di cui il cuore s’inebria.

 

Motivazione della giuria

Lirica evocativa, con sapiente uso della metrica.

 

 

Non voglio aggiungere altro: i testi poetici comunicano già di per sé.

 

 

© Federico Cinti

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Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Nel giorno in cui Petrarca compie gli anni, il 20 luglio, propongo – anzi, sarebbe meglio dire ripropongo – una mia traduzione di un epitaffio neolatino di George Buchanan, poeta scozzese del Cinquecento, che dedica versi struggenti all’amore di Francesco per Laura. Il testo originale sarebbe in distici elegiaci latini, ma mi è parso buono e giusto rendere con un sonetto. Credo che Petrarca avrebbe apprezzato lo sforzo e forse pure il risultato.

 

 

Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Se ha memoria di sé dopo la morte,

dotto Petrarca, l’animo nel cuore,

se oltre la tomba vive intatto Amore,

morendo non patisti un tanto forte

 

tormento quanto il gaudio avuto in sorte

d’accompagnarti a Laura nel fulgore.

Lei i primi anni subì l’aspro livore

del fato, ti lasciò per vie contorte

 

nel pianto più struggente. D’ora in poi

la folta folla dell’Eliso al Lete

vi vede passeggiare. Beati voi!

 

Né la morte né il rogo estremo ha sciolto

il vincolo d’affetti in cui vivrete,

per i secoli eterni, lieti in volto.

 

 

Di seguito è doveroso che io riporti anche l’originale: non vorrei lasciare nulla, ma proprio nulla, al caso.

 

 

In tumulum Francisci Petrarchae

 

Si memor ipse sui est animus post funera, culte

Petrarcha, et cineri vivit inustus Amor,

 

certe non tantum cepisti morte dolorem,

quam gaudes Laurae nunc comes ier tuae.

 

Quae, fati invidia primis oppressa sub annis,

te summo in luctu liquerat, et lacrymis.

 

Nunc vos Letheae spaciantes margine ripae,

Elysii spectat plebs numerosa fori.

 

Felices animae, quarum dissolvere foedus

mors quoque et extremi non potuere rogi!

 

 

Confesso che non è l’unica volta, questa, che tento una resa di tale epigramma: la mia prima versione fu pubblicata nel 2004, settimo centenario della nascita del sommo vate. A Bologna si teneva un convegno internazionale sul petrarchismo Cinquecentesco, cui ebbi l’onore di partecipare, e in quell’occasione usciva l’antologia Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G.M. Anselmi, K. Elam, G. Forni e D. Monda, Rizzoli, Milano, 2004. Oggi la disconoscerei: non mi ci ritrovo più, perché appartiene ormai a un Federico che non esiste più. E dire che ne andavo molto fiero, e della traduzione e di quel Federico.

L’insoddisfazione mi ha costretto, nel tempo, a riprendere in mano questi distici per dare loro una veste e un respiro nuovi. Il labor limae credo possa essere un inesauribile stillicidio e dare lo sfinimento. Anche quest’anno non ho potuto farne a meno: il testo è cambiato ancora. Quando traduco (e ritraduco), mi torna in mente il verso dantesco « mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Non c’è che dire: ogni volta io muto e la traduzione muta con me. È un gioco di specchi: io mi rifletto nel testo e il testo si riflette in me. il rischio di perdersi per sempre è fin troppo reale. L’ombra di Narciso incombe su questo esercizio così suadente e mai finito. Una competizione: si può azzardare questo giudizio? Già, chi è migliore: il tradotto o il traduttore? Probabilmente non è solo un atto metamorfico, la traduzione, ma una manifestazione di narcisismo in divenire.

 

 

© Federico Cinti

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Ritratto matematico di donna

 

Rincorse senza fine. Fugge l’ora

nell’oblio. Il quadrante cartesiano

ha lancette impazzite. Nulla sfiora

la quiete matematica. Lontano

 

quello che dentro il cuore non si sfiora.

Tutto è compiuto: ogni discorso è vano

nella vita a teoremi. Trascolora

l’universo, scomparso a mano a mano,

 

sulla strada. Tra raggi e bisettrici,

circonferenze doppie sulla via,

il frusciare continuo di una bici.

 

Si alimenta così la fantasia

nell’anima: è così che si è felici.

Lo mostra inossidabile Maria.

 

 

Non mi dilungherò troppo sugli auguri a Maria, che oggi compie gli anni. Il suo ritratto l’ho preso da un mio libretto, scritto per la fine della mia quinta liceo scientifico di quest’anno, intitolato Saluti elementari. Ho poi aggiunto pure il consiglio di classe. Naturalmente insegna matematica e fisica, soprattutto matematica direi, ma ognuno ha i propri gusti e le proprie passioni. Insomma, che altro dirle? Auguri mi pareva poco, ma un ritratto è più che adeguato, il mio ritratto suo.

Mi pare d’aver detto tutto. Ecco, potrei aggiungere la bici. Sì, l’ho detto, ma va al di là di quel che si può credere. Se sarà il caso, amplificherò il concetto come mi è dato. Oggi è pur sempre poco più della metà di luglio. Naturalmente l’ironia fa sfondo a quel che scrivo: il più sta nel riconoscerla. 

Insomma, Maria, auguri.

 

 

© Federico Cinti

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Carlotta, auguri!

 

Un sollievo dell’anima, parola

che non muore nell’eco d’un sospiro

breve. Nell’ansia cupa della scuola

uno sguardo di pace, come giro

 

di un valzer che travolge, eterna mola

che macina ogni cosa nel respiro

del tempo, nell’oblio che non consola

la memoria. Tra il lucido zaffiro

 

del cielo a pezzi oltre le case intorno,

oltre i vetri, sui banchi un po’ in dissesto,

l’ora che porta via con sé ogni giorno,

 

il sorriso dell’essere, del gesto

inconsueto, ma dolce nel ritorno

fugace di un’idea. Carlotta è questo.

 

 

Di Carlotta tutto è stato scritto nel sonetto. Non mi profonderò in altri particolari, come forse ella avrebbe desiderato. Erano anni che mi chiedeva un ritratto. Ho ceduto, alla fine, solo perché terminava il liceo, perché dopo la maturità non avrei più sentito quella sua suadentissima voce. Anche perché, questo non lo si può tacere, parla a getto continuo. Non che sia spiacevole, intendiamoci; il fatto è che ogni tanto ci si chiede dove sia il tasto di spegnimento. Per il resto, nulla da aggiungere. Io almeno non aggiungo nulla; poi forse altri potrebbero dire di più e meglio di me, dato che io ne ho una conoscenza che risente del mio particolare angolo prospettico. La paragonavo alle acque della «fonte di Bandusia» di oraziana memoria: so che a lei fa piacere quando scantono per i laterali sentieri della letteratura latina. Certo, anche sulla letteratura tout-Court, ma per quella latina ha un debole. Insomma, quelle loquaces linpahe (carm. III, 13, 15-16) sono come gli zampilli che gorgogliano dalle sue labbra, «acque chiacchierine» come qualcuno ama tradurre.

Ormai ha finito il liceo: diventare centenari ha i suoi pro e i suoi contra. Mi pare che l’abbia presa bene, come una sorta di festa in perenne svolgimento. La vita in fondo va presa così, per quello che è. Il suo, di Carlotta naturalmente, è il modo giusto, serio, ma non serioso. Mancherà qualche cosa adesso al «Leonardo», che tutti si ostinano a chiamare barbaramente «da Vinci». Segno dei tempi, temo. Peccato che il nostro beneamato Comune non abbia una personalità di rilievo scientifico cui dedicare il liceo cittadino. Ovvieremmo almeno allo scempio del nome. Ecco, magari qualche mio studente o studentessa meritevole prima o poi si troverà. Peccato che Carlotta abbia tutt’altri progetti. Il più sarebbe capire quali, ma magari lo racconteremo poi, quando si saranno sciolte le riserve.

Per il momento mi accontenterei di un caffè: lei ne è una notevole estimatrice, soprattutto nelle mie ore. Mi auguro che non dipenda dal fatto che sia colpa mia, ma è sincera, molto sincera, e non me lo ha mai confessato apertamente. O forse non l’ho mai sentito io, tutto preso come sono di solito a seguire i miei autori. Mi sembra d’essere sempre in ottima compagnia, quando leggo poeti e romanzieri, ma non capisco se i miei studenti condividano questa mia insana passione. Carlotta mi ha dato raramente ragione e sono stati momenti di notevole ascesa lirica.

Oggi tuttavia è il suo compleanno e io mi sento l’obbligo di farle gli auguri. Non le ho scritto un testo ex novo, come faccio solitamente; piuttosto, ho preso quello che le avevo dedicato per la fine della scuola, in un mio libretto intitolato Saluti elementari, perché avevo associato a ogni studente un elemento della tavola periodica. A lei avevo associato il mercurio. Non me ne ha mai chiesto il motivo e io ne ho scordato le ragioni. Chissà, prima o poi mi tornerà in mente. Ora è il tempo degli auguri, non delle divagazioni da officina delle Muse, e allora auguri siano, Carlottina.

 

 

© Federico Cinti

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Auguri a Novello

 

Nel cielo aria di festa, ali sospese,

Ombre di sogno labili in cui il cuore

Veglia tra mille, indefinite attese,

E riscopre la vita, antico fiore

 

Lasciato lungo il ciglio, a metà mese,

La metà esatta, a luglio, in un chiarore

Opalescente, lievi voci arrese,

Buoni dolci propositi, sapore

 

Amico, tempo che oggi fa ritorno.

Lo sai, lo so, Novello, due parole,

Due o poco più, per fare da contorno,

 

Oggi che brilla limpido il tuo sole,

Novello, oggi ti faccio, nel tuo giorno,

I miei auguri, un po’ come Dio vuole.

 

 

Non ama Novello che io aggiunga la prosa a corredo della poesia, come già fece il buon Dante nella Vita Nuova: sostiene che è un di più, che guasta in qualche modo la limpida purezza della poesia. D’accordo con lui, come sempre; peccato, però, che i miei restanti ventiquattro lettori siano d’opinione totalmente opposta, se è vero che la trovano un degno complemento al ritmo dei versi e «alla mesta armonia che li governa», per citare uno dei suoi autori. Suoi di Novello, ovviamente, anche se il suo preferito resta sempre e solo il conte Leopardi. Anche a me stanno molto a cuore Foscolo e Leopardi, intendiamoci; ma Pascoli alle volte mi comunica di più.

Queste sue preferenze le ha sempre propalate coram populo , ex cathedra, già al liceo, al magnifico Minghetti di Bologna. Lo conobbi lì: era mio esimio professore di lettere. Forse esimio non gli piacerà molto, ma tanto so che non leggerà queste mie poche righe e godo quindi della più ampia parresia. E poi, come sempre ripeto, bisogna temere non quel che dico, bensì quel che non dico. Il resto sono chiacchiere da bar, così soavi e rilassanti. Si impara molto dal nulla altrui, come gli altri imparano dal nulla nostro. Reciprocità, forse, o semplice eterogenesi dei fini. Di solito, chi la spara più grossa ha il maggior credito: è una legge di natura.

In tal modo il rito degli auguri è stato espletato. A metà luglio non riesco a fare di meglio. E si badi che è proprio la metà esatta, perché il mese è di trentun giorni. Probabilmente Novello non ci ha mai fatto caso. Io sì, perché anche gennaio è messo allo stesso modo, con me  che compio gli anni il 16. Coincidenze, se esistono, trappole montaliane per i meno attenti in fondo all’aula. Succede, per l’amor di Dio: cadere nel punto morto dell’universo non fa piacere a nessuno. Domani ci si attrezzerà. Intanto, faccio ancora i miei migliori auguri a Novello.

 

 

© Federico Cinti

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Di fine agosto, premio speciale del presidente

 

 

Con grande piacere apprendo oggi di essere stato insignito del «Premio speciale del Presidente» alla III edizione del premio letterario «Dino Sarti» per la poesia Di fine agosto, indetto in seno al al Centro Foscherara di Bologna. Ringrazio di cuore Sante Serra dell’attenzione riservata a questi miei versi.

 

 

Obliquo il sole stanco nel meriggio

sapeva già d’autunno, declinando

tra le strade deserte. Nel silenzio

il senso vano di una vita amica.

 

Eri al cancello. Dritta nell’attendermi

gettavi un’ombra di malinconia

sui quattro sassi e l’erba. In un pulviscolo

dorato si spandeva il tuo profumo.

 

Salimmo. In cielo qualche lieve nuvola

per l’azzurro, sui tetti, tra le case

squadrate e l’orizzonte. Tra le ciglia

socchiuse un dolce abbraccio di penombra.

 

Moriva agosto. Sull’estate tremule

lacrimavano in coro le cicale.

Non te lo dissi allora, ma eri splendida.

Già lo sapevi. In quell’istante vano

 

era ogni dire, ogni discorso inutile

profanazione. Il tempo s’annullava

in un istante eterno. Sogno, immagine,

realtà, tutto si fonde nel ricordo.

 

Esile il tuo sorridere. Nell’anima

è come il mormorio nella conchiglia

che torna all’infinito fino a perdersi

dentro un sussurro. Nulla si cancella.

 

Dolce fu stare lì. Nei brevi battiti

d’una lancetta il tempo fuggì via.

Avevo addosso il tuo profumo, languida

vertigine così consolatrice.

 

Poi la soglia sconnessa, il lento stridere

del cancello, il lunghissimo saluto.

Non so se te lo dissi che eri splendida,

ma lo sapevi già. Voltai le spalle.

 

Moriva allora agosto. Nell’immobile

vacuità di quel giorno il nome caro

di quelle case, dei palazzi, il Fossolo,

varco all’eterno, dove ha casa il cuore,

 

mi restò dentro. E mi rimane, pallido

volto di un giorno. Ancora mille e mille

ci attendevano e attendono, miracolo

che si perpetua, favola d’amore.

 

 

Di seguito la motivazione del premio speciale del Presidente:

Un tardo pomeriggio di agosto avvolge il quartiere della immediata periferia  bolognese e accende l’animo del Poeta, gli restituisce l’eco di ricordi, di immagini care, famigliari e lontane, profumate, sospese in atmosfera sognante.

Citando il Poeta «Sogno, immagine, realtà”, tutto si fonde nel ricordo».

Nella seconda parte della soave e pregevole lirica, i versi si fanno più intimi ed meditativi, rivolti alla propria anima e allo stupore per quei luoghi «dove ha casa il cuore» dominati dai ricordi che sembrano inseguire le parabole inquiete della mente.

 

Sante Serra

 

Bologna, 10 luglio 2020

 

 

Ricordo dell’estate in declino sul finire d’agosto, quando già tutto sa d’autunno: l’incontro nella città ancora assorta nel pallido meriggio obliquo. Null’altro intorno se non ombre che s’inseguono sulla via della felicità. La cupola azzurra del cielo adagiata su ogni cosa, anche su di noi. Lontane le Torri, laggiù, testimoni di ciò che eravamo. Nel palazzo di fronte aveva abitato Dino Sarti, antico presagio.

 

 

© Federico Cinti

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Da Gregorio in via delle Moline

 

Gregorio non c’è più. Nelle Moline

il buco sotto il portico dei libri

è in abbandono. Il labile confine

degli equilibri

 

impossibili è in ombra adesso. Vola

il tempo a luoghi senza più contorni

ripetendo ogni singola parola

silente, a giorni

 

senza più età. Nel tacito segreto

la memoria oggi ha un vivido colore

dietro gli occhiali spessi, ha un volto lieto

tra il grigio odore

 

di sigaretta. Tutto, aveva letto

tutto ciò che vendeva. Un buco appena

quel che rimane, ciò che resta stretto

simile a scena

 

vuota. La libreria forse c’è ancora,

ma non ci passo più, retaggio antico

di chi non sono più, di chi ero allora,

d’un Federico

 

già lontano, chissà. L’ombra di un nome,

Gregorio non c’è più. Passa la vita

distratta sotto il portico ed è come

sabbia tra dita.

 

 

Era il mio ultimo esame, storia greca, e non trovavo il manuale. Farsi risme di fotocopie non mi procurava la stessa soddisfazione, tanto più se il libro era ancora in commercio. ne ero sicuro: i cataloghi lo davano ancora disponibile. Nelle librerie dove andavo sempre mi rispondevano che era ormai esaurito. Mi consultai allora con Luca, un amico che già l’aveva dato quell’esame: era pronto a prestarmelo, ma io lo volevo comprare. Mi guardò serafico, credo con comprensione. Anche lui era come me.

«Va’ dal greco», mi suggerì.

«E chi è il greco?», gli chiesi io. In quattro anni di studio matto e disperatissimo non lo avevo mai sentito nominare.

«È il libraio di via delle Moline, Gregorio: se non lo ha lui, non lo ha nessuno. Non ti vende un libro se prima non lo ha letto», mi spiegò compunto.

Avevo ben presente il posto, anche se non ci ero mai andato: mi era un po’ scomodo. Non sapevo che si chiamasse così. Era all’angolo con via Mentana, sotto un buio portichetto sconnesso. Ci andai subito.

entrai, come tanti facevano e avevano fatto prima di me.

«Sto cercando il Musti», gli confidai quasi in segreto, quando fu il mio turno. Gli tacqui che avevo girato inutilmente mezza Bologna: già lo sapeva. 

«Sì, storia greca», replicò Gregorio da dietro le sue spesse lenti da miope, tirando una boccata di sigaretta. Poi si inoltrò in non so quale anfratto.

Tornò con il grosso manuale dalla copertina bianca della Laterza. Naturalmente non gli chiesi se lo avesse letto: era più che evidente la sua familiarità col volume. Luca non si era sbagliato nemmeno quella volta.

Ci ritornai ancora, anche solo per il gusto di parlare un po’ con lui. Ascoltava spesso musica barocca e questo mi alleviava la fila che si doveva fare. Fuori della vetrina il mondo scorreva indifferente, ma nella libreria di Gregorio il caos si ricomponeva in un ordine perfetto.

Per molto tempo non passai più di là: la vita a volte porta altrove. Ebbi un  colpo al cuore quando seppi che Gregorio, Gregorio Kapsomenos, nel 2011, era mancato. Non era venuta meno solo una parte di me, dei miei ricordi,ma di un mondo e di un’epoca. Compresi che Bologna non sarebbe più stata la stessa. Nemmeno io, del resto, sono più quel Federico. 

 

 

© Federico Cinti

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Arco temporale

 

Cade una freccia: calendario mio,

Il giorno è giunto. L’arco temporale

Annulla ogni distanza. In questo invio

Odierno tutto torna a essere uguale.

 

Mi sa che non la penso solo io

In questo modo. Certo, poco male.

Rido di questo lento logorio

In atto: compleanno o funerale?

 

Arcana corsa verso il tutto o il niente,

Miraggio d’infinito. Nel bersaglio

Mi ritrovo. La Musa mi consente

 

Un poco d’ironia. Gli auguri a raglio

Si confanno a un poeta a luci spente.

Auguri. Adesso incocco, se non sbaglio.

 

 

Me lo ha chiesto lei, Miriam, non sapendo forse a che cosa andasse incontro, di scriverle qualche cosa per questa ricorrenza. O forse sì. Gli auguri di compleanno ormai stanno diventando una faccenda tremendamente seria. Oppure faceta, a seconda dei casi. Ecco, un genere letterario molto duttile che permette di dire in modo simpatico uno scorcio di verità. Come amo ripetere, occorre temere non ciò che dico, bensì ciò che non dico. L’ironia è davvero un’arma per intelligenze raffinate: affidiamo il compito di ultimare il ragionamento al destinatario del discorso. E non sempre ne è all’altezza. Ma tant’è: si deve fare e si fa.

Per quel che ne so, Miriam è persona molto ironica e, dote ancor più rara, auto-ironica. Io mi sono preso qualche libertà, lo ammetto, soprattutto riguardo alla sua passione per l’arco. Non dico tanto per le frecce, quando per l’arco, oggetto quasi – sottolineerei quasi – proibito o proibitivo. So che ha iniziato quasi per gioco, quasi per sfida. Poi la passione l’ha travolta e non parla d’altro. Ci sta: ognuno finalizza le proprie energie su quel che l’appaga. Con l’arco non ho mai avuto nulla a che fare e, adesso che so come va a finire, gli sto alla larga.

Le rinnovo gli auguri. Fare centro non è così scontato. Il bersaglio è il premio di pochi, dei più affinati in quest’arte antica. Ma ci possiamo lavorare.

 

 

© Federico Cinti

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Non temere

 

Non temere: i terrori delle tenebre

al soffio del crepuscolo dileguano.

Rifiorisce nel cuore il filo tenue

d’un giorno nuovo. E si ritorna a vivere.

 

Non avere paura: nel silenzio

si disperde la voce, eco d’un tremito.

A goccia a goccia in noi distilla l’essere,

eterna sincronia, sistole e diastole.

 

Gioisci se l’oscura solitudine,

a quando a quando, s’apre a uno spiraglio

ebbro lungo la via. Oltre l’ostacolo

riposati tra il fresco in mezzo agli alberi.

 

Tu ricomincia. Il senso primigenio

riapre il cammino. Lento il tempo indugia

tra intatte essenze. Un’ombra di vertigine

negli occhi, vano senso d’inquietudine.

 

Realtà o fantasma? Scorgi ora il rifugio

dove puoi ritrovarti, dove sciogliere

l’afa di questa vita. Essere fragile

non è, come si crede, il nostro limite.

 

No, non temere: non è vana immagine

l’aiuto sulla via. L’ultima soglia

è varcata. Ecco il giorno nuovo, raggio

di sole incerto tra le incerte palpebre.

 

Schiara la notte, antico sortilegio

di sogni e di terrori. Il vento spagina

alla rinfusa ciò che fu, diario

di un’esistenza finalmente libera.

 

 

Umano, troppo umano cedere alla paura, recinto invalicabile cui si è condannati. Altro non è che linea oscura, terrore delle tenebre notturne che circondano. E si sta al di qua o al di là, senza quasi accorgersene. Senso vano di quasi onnipotenza o d’inutilità, ambiguo oscillare tra il tutto e il nulla. Ma è proprio questo a darci la misura di quello che siamo o che non siamo.

Eppure, non c’è oscurità che non sia vinta dal raggio dell’aurora. La tacita selva, intrico d’incantesimi, diviene il giardino edenico in cui ritrovare l’equilibrio dentro e fuori di noi. Vincere la solitudine è superare il timore o il delirio dell’autosufficienza. Nel rapporto con un tu si gioca la nostra umanità. Il resto è erranza, fuga da ciò che non si conosce né, forse, si vuole conoscere.

Attendere l’aurora, come la sentinella al termine della veglia, è ritrovare il tempo e il luogo del nostro affidamento. È Dioniso che cede nuovamente ad Apollo in un eterna lotta, nell’impari duello tra la speranza e la paura, tra l’interno e l’esterno. E il viaggio ricomincia: il cammino ritrova la sua via smarrita chissà come, chissà dove. Nessuno basta a se stesso. La paura separa e divide quel che deve rimanere unito nella luce rasserenatrice del giorno.

Ecco un’altra pagina di diario da scrivere, un altro sogno che deve divenire realtà, un incantesimo avveratosi sotto l’azzurro infinito. Non avere paura: è la fragilità in fondo la nostra più invincibile forza.

 

 

© Federico Cinti

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Indovinello

 

Di vestire i panni del redattore della “Settimana enigmistica”, no, non mi era ancora capitato. Eppure, sono pronto a tutto nella multiforme metamorfosi poetica in cui le storte sillabe si combinano e ricombinano. Dimensione surrealista, non c’è che dire, andata ben oltre il sensibile. Potrei dire anzi ultra sensibile, quasi metafisica, sempre ammesso lo Stagirita non abbia nulla da ribattere sotto i portici della nostra dotta Bologna peripatetico com’era e come resterà usque in aeternum.

Mi inerpico al centro dell’intuizione, se non ho deviato troppo, e lascio la parola finalmente a me stesso, l’unico che ne abbia veramente diritto.

 

 

Siedo muto sul tavolo. M’accendo,

obbediente al pur minimo comando.

Non dico nulla. Con rispetto attendo

operoso al mio capo, non forzando

 

in alcun caso ciò che sto facendo.

Le distrazioni, ahimè, di quando in quando,

capitano. Io, zitto, non m’offendo.

Ogni volta riprendo e non domando.

 

Macino mille calcoli. Il binario

per me è il migliore. Almeno così credo.

Uso a obbedir tacendo, solitario,

 

temo gli incompetenti, a cui non cedo.

Eseguo, come posso, in modo vario.

Rido. Muto sul tavolo io siedo.

 

 

Se mi è consentito dare il famoso aiutino, direi che nel testo è contenuto quanto è necessario alla soluzione dell’enigma ben oltre il consentito. Intendiamoci, non che occorra un grande genio; però, se sono stato bravo, dovrei aver fornito tutti gli elementi utili perché all’ipotesi segua la giusta tesi. Eh, matematico in pectore. La distinzione disciplinare pare utile solo alle menti limitate. Mi auguro di aver preso strade diverse da quelle trite sino a questo momento. Il tempo mi dirà se ho fatto bene.

 

 

© @ Federico Cinti

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