Tanti auguri a Giacomo

Giugno termina. In limpide cascate
Il sogno impercettibile distilla
A goccia a goccia. Pallide giornate
Chiamano all’ombra placida. Tranquilla

Ogni vicenda scivola. Ventate
Miti sul cuore, fantasia che brilla
O tremula: s’affaccia in noi l’estate
Vacua. Immagine immobile, favilla

Eterna d’un abbraccio. Vaga il cuore
Nel cielo senza limiti. Lontano
Tra le nuvole bianche lo stupore.

Una festa, un augurio. Piano piano
Ritorna anche per Giacomo il sapore
antico di quel giorno adesso vano.
Di Giacomo potrei elencare una serie interminabile di doti: simpatia, acutezza, erudizione, perfetta forma fisica. Avrei finito? Ovviamente no, ma continuare risulterebbe solo una stucchevole accumulazione retorica. Mi limiterò, allora, a riportare quella che io ritengo la sua più sublime qualità, perché il resto è solo accessorio o almeno a me così pare, che è l’amicizia.
Certo, Giacomo ha l’innato aplomb del professorino, è indubbio; ma che ci si può fare? Un po’ di vezzo non disturba: è come il neo sul volto dell’eterna bellezza sotto la parrucca incipriata. Oh, naturalmente, non ne faccio una questione estetica: è una divagazione sull’uomo e sulle proprie peculiarità. Chi lo conosce può darmi ragione.
O, meglio, potrebbe, se non fosse che ultimamente ci si è visti sempre meno. Male dei nostri giorni, questo, non c’è che dire, e lo chiamano distanziamento. Ci si sarebbe potuti spingere fino a definirlo segregazione, ma poi si vestono gli scomodi panni del complottista. Anche le biblioteche hanno chiuso i loro fragorosi battenti. La polvere la fa da padrona addirittura sui rapporti umani, non diciamo sociali.
Ecco, una cosa che potrei forse azzardare su Giacomo è che nascere il 29 giugno e chiamarsi come Leopardi non deve essere così casuale. Io almeno non la percepisco una casualità. come m’insegnerebbe il nostro professorino, nomina sunt omina. Ed effettivamente per lui è stato buon presagio. Intendiamoci, non per la duplice gobba, avanti e dietro, no, che mi sembra non abbia. dicevo che nel nome si nasconde una parte cospicua di lui. Giacomo, già… ma non sarebbe il caso di fargli gli auguri e basta? E facciamoglieli, allora, questi benedetti auguri di buon compleanno. 

 

 

© Federico Cinti

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Omaggio a Martin Mesnart

 

Lo ammetto: per me ha un fascino tutto particolare l’acrostico, quel nascondimento misterioso che impreziosisce taluni componimenti poetici. Per qualcuno altro non sono che esercizi di stile; io, per me, credo sia l’espressione di una complessità che si svela solo ai lettori più acuti, una sorta di dialogo segreto tra poeta ed esegeta. È un tocco di raffinatezza artistica o parte della personalità.

Conoscendo questa mia passione, un amico, Francesco Pieri, mi ha segnalato il prologo – vogliamo chiamarlo così? – dell’edizione parigina, risalente al 1545, di Tertulliano a cura di Martin Mesnart. Un nome noto, questo, non c’è che dire. campeggiava latinizzato, mi suggeriva l’amico, sul frontespizio, come se io non fossi in grado di accorgermene da solo.

Mesnart lo avevo incontrato parecchie volte durante gli anni di dottorato, quando mi occupavo dell’Adversus Marcionem di Tertulliano. Ed ecco che un giorno proprio Mesnart mi è venuto a cercare, mi ha tirato per il braccio e mi ha detto: «E adesso che facciamo?».

Chissà, voleva che io lo traducessi, quasi io dovessi riportarlo in vita. Il testo è in trimetri giambici puri: lo dico per i puntigliosi, ma significa poco o nulla per i più. Mi sono sentito in obbligo di abbozzarne una versione, un po’ come riuscivo. In qualche modo, pensavo, glielo dovevo.

 

 

Molto oggi ti è di pro, lettore candido,

Ardente mio lettore, e mi pare utile

Ridirtelo: è di pro senza alcun dubbio.

Tertulliano ti ho offerto in un libro unico,

Io, senza errori, senza alcuna macchia:

Non dico, sai, l’autore, ma la sua opera,

Voluta e avuta dai più dotti in pregio,

Sempre in mano a Cipriano per lo studio,

Misconosciuta e in grande parte persasi

E per te viva adesso oltre ogni lapide.

Se leggi, ti stupisci. Tra le pagine

Notare puoi quanto gli altri teologi

Anteceda in sentenze e in fiori e in varia

Raffinatezza nello stile nobile.

Tu godine: è il mio dono. Stammi al meglio.

 

 

A proposito, sarà meglio che io riporti pure l’originale: questi studiosi sanno essere alle volte alquanto permalosi. Io almeno lo sarei parecchio se qualcuno citasse un mio testo senza poi riportarlo.

 

 

Multum dies haec ipsa (lector candide

Ardensque lector) commodi tibi attulit

Rursusque dico commodi multum attulit.

Tertullianum tandem tibi habes integrum

Ipsumque cunctis expiatum sordibus:

Non dico ego authorem sed authoris opera

Viris disertis habita summo in pondere

Subtili ad unguem Cypriano cognita,

Magnoque magna ex parte lapsa tempore

Et consepulta nunc reviviscunt tibi.

Si legeris, mirabere. poteris interim

Notasse quantum caeteris theographis

Antestet et sententiis et floribus

Rerumque varietate quam gratissima:

Tu fruere lector munere, et faustus vale

 

 

Qualcuno, ovviamente lo stesso amico che mi ha segnalato l’acrostico, ha detto che la mia resa ha superato l’originale. Può darsi, ma non oso nemmeno ripeterlo. Ne prendo atto con un certo compiacimento. Mesnart si è dileguato, come i sogni della mattina, vividi eppure evanescenti. Il lettore, ogni lettore, ha spesso più responsabilità dell’autore. Io mi limito a fare il mio lavoro. Sono in fondo un mero esecutore.

 

 

© Federico Cinti

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“Nevicata”, I premio al concorso “Lampi di poesia”

 

Non so come, ma una mia poesia si è classificata prima alla 5^ Edizione (2020) del Premio Letterario Nazionale “LAMPI DI POESIA | SLUSSI ‘D POESÌA”,nella sezione A.1 | Poesie brevi in Lingua italiana, indetto dall’Associazione “Monginevro cultura” di Torino.
Ne ripropongo il testo, non perché sia stato premiato, bensì perché mi suscita ancora tante emozioni a rileggerlo.

 

 

NEVICATA

 

Grigio il giorno. Per l’aria un tetro gelo.
Inizia a nevicare senza fine.
Non un suono. Su tutto un bianco velo,
equilibrio di mille antiche trine.

 

Vaga un’ombra di pace per il cielo.
Ride il cuore. Sull’ultimo confine
abita una speranza, come in stelo
fiore sbocciato appena tra le spine.

 

Aria di festa. Tutto trascolora
rapido allo spettacolo. La neve
oggi è visione che stupisce ancora.

 

La sospensione scende lieve lieve
fra di noi, ci sostiene, ci rincuora,
in questo tempo che si è fatto breve.

 

 

Di seguito il giudizio della giuria, che ha decretato Nevicata come miglior sonetto in competizione:

Sonetto metricamente perfetto, tra il pascoliano e il crepuscolare, i cui versi trasmettono speranza, come un fiore appena sbocciato tra le spine.

 

L’unico giorno in cui ha nevicato, l’anno scorso. Un’atmosfera incantata ha cominciato ad ammantare ogni cosa. Lungo la via un silenzio senza fine, come se tutto si fosse fermato. Era venerdì, il 13 dicembre, il giorno di Santa Lucia. A un tratto mi pareva d’essere tornato bambino: il sogno s’avverava di nuovo. Bologna vestiva un abito di trine per la festa.
Ne ho fatto versi per i miei studenti: la mattina a scuola avevamo parlato di sonetti e di acrostici. Piacque molto, un dono inaspettato per tutti, in primis per me. La madreperla del cielo riluceva nel lieve candore dei fiocchi in una sospensione fuori del tempo.
Anche agli amici piacque molto. Un giorno come gli altri, ma diverso. Non allegria, ma un vago senso di nostalgia per la purezza che andava ricostituendosi, come se i frammenti del mosaico ritrovassero la loro primordiale collocazione. Eppure, tutto era così semplice.
Il premio dovrebbe essere dato allo spettacolo che la neve è riuscita a suscitare in noi. Ogni volta è così, una nenia che si riascolta e che commuove una parte di noi forse dimenticata. Dico forse, se riaffiora con placida meraviglia. Lo specchio appannato a un certo punto restituisce il suo tesoro di sospensione e così è possibile smarrirsi nella fantasia e nella poesia che permea il reale.

 

 

© Federico Cinti
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L’estate e il suo solstizio

 

Fermo il sole nel cielo inerte indugia

fuori del tempo. Tiepido l’abbraccio

dell’azzurro, sospiro

via via sempre più languido.

 

Lontana una cicala, eco al prodigio,

oltre la fantasia: si fa perpetuo

un guizzo d’infinito.

Il mondo attende immobile.

 

In quest’attesa vibrano all’unisono

mille corde. Nell’anima una musica

risuona, eterno soffio

di vita impercettibile.

 

Termina il viaggio, qui? Sul monte gli alberi

sussurrano nel vento antiche nenie

dimenticate. È l’ora

che ci ridona al vivere.

 

Vanisce il sogno. S’aprono le palpebre

alla nuova realtà. Così si supera

l’oscura linea d’ombra,

l’estate e il suo solstizio.

 

 

Insolito il tepore che si respira nel giorno del solstizio d’estate, quando il tempo sembra fermarsi smarrito e la luce si riversa a liquide cascate. È il tempo delle vacanze, delle lunghe giornate che paiono non finire mai e tutto sembra possibile. La leggerezza è palpabile, liberi da ogni costrizione: i «nostri vestimenti / leggeri» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 24-25) non opprimono più l’anima. È un abbraccio senza fine, questo, un calore primigenio. Il cuore vaga lontano in un sogno di languida dolcezza fino quasi a smarrirsi dopo l’orizzonte in fuga.

Non vi è altro momento nell’anno in cui si percepisca ugualmente il fluire della vita. Ogni cosa trova la sua pienezza, mostra il suo senso vero nella diafana luce trasfigurata del giorno. Suoni e colori s’inseguono, come in un incanto. Così nascono le leggende che si ripetono, durante il tempo che rallenta attimo per attimo. Antichi poeti cantano, come narra uno stupito Platone, senza stancarsi mai il ciclo dell’essere: le cicale inondano l’aria di squillanti carezze soavi. È il loro tempo, è il tempo della felicità, di un presente che non sa dello sfiorire fragile dei fiori, degli alberi che bisbigliano sommesse cantilene, del «perir della terra» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 67).

Al solstizio comincia l’estate, nel miracolo della sua bellezza. Il silenzio attinge a vertigini dimenticate. Si ritorna bambini, con la gioia nel cuore e il sorriso negli occhi. Nulla si deve più, tutto è donato in questo tempo di grazia. L’ansia si scioglie nell’ora che si ferma a contemplare ogni singola cosa che si desta di nuovo. Palingenesi di vita e di senso lanciata oltre l’ostacolo, oltre il «rovente muro d’orto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2), alla ricerca dell’infinito in cui è «dolce naufragare» (G. Leopardi, L’infinito, 15).

Ecco dunque che, nel mondo delle fate, la realtà diviene il trastullo dei sogni e Titania continua a giocare con Oberon nel bosco incantato. Tutto vince l’amore, quella favola bella che si perpetua, come in conchiglia il mormorio del mare. Nulla d’ignoto, nulla di conosciuto ancora: si fonde la memoria nel futuro a generare un presente che tuttavia è già ricordo. S’oscilla sull’orlo della voragine nella traslucida armonia della natura tornata al suo volto originale. Solo così l’azzurro non è illusione, ma fervida realtà onirica.

 

 

© Federico Cinti

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Saluto finale

 

L’ultima campanella, suono vano

smarritosi nel cuore. Corre l’ora

con noi. Passa ogni istante. Piano piano

il volto dei ricordi trascolora

 

più d’una vecchia foto. È ormai lontano

il liceo, ansia del giorno che divora

inesorabilmente. Eppure, è strano

volgersi indietro adesso, in quest’aurora

 

di luce nuova. Il dado è stato tratto:

ogni evento procede con o senza

rimorsi. Tutto quanto è stato fatto

 

nel migliore dei modi. Altra partenza,

altro arrivo, chissà, sogno distratto

di questa troppo breve adolescenza.

 

 

Un saluto, l’ultimo forse, simile alla lunga, infinita ombra nera della sera, un ricordo che si fa malinconia del tempo che trascorre. Ecco, un tempo non che è trascorso, ma che continua a trascorrere, quasi indifferente, come se ogni istante fosse simile al precedente. Una linea separa i giorni, distingue i momenti. Un passo ancora e tutto trasfigura, eterna metamorfosi del presente. Tutto si fa memoria, ricordo impercettibile: le voci, i volti, i riti di un’età che non tornerà mai più. Non mi è mai parso così vero ciò che canta il buon Orazio: «dum loquimur, fugerit invida / aetas» (carm. I 11, 7-8).

Il tempo si sconta istante per istante: «la morte / si sconta / vivendo» (G. Ungaretti, Sono una creatura, 11-13). Ogni giorno muore, ogni istante: il viaggio comincia col suo carico d’attese. Poi, impercettibilmente, si giunge a destinazione e tutto s’annulla in un «punto acerbo / che di vita ebbe nome» (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Volgersi indietro non è possibile: Orfeo perderebbe di nuovo Euridice, Narciso rifletterebbe per sempre se stesso sulle acque della vanità. Meglio allora è continuare, dimentichi di sé. «Le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni» (E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, 5-6) servono a ingannare l’ineluttabilità dell’essere.

Quell’ultimo saluto che non è più rito, se mai lo è stato, sul confine dei mondi, interrompe la catena, spezza il quotidiano e diviene nostalgia, dolore di un ritorno impossibile. Va voltata la pagina: non si può trattenere. Altri mondi, altre realtà attendono l’ansia di conoscenza, l’antica nostra curiositas. Tutto ci parla di questo viaggio interminabile, chissà dove, chissà come. Solo noi ne siamo i protagonisti, a «scendere e […] salir per l’altrui scale» (Par. XVII 60). eppure, lo sappiamo, nulla è invano. Qualche cosa avrò rappresentato anch’io nel mio piccolo.

Con questo animo penso ai miei studenti, inconsapevoli compagni di un viaggio giunto a destinazione. Li vedo uscire, di spalle, a uno a uno. So che non torneranno, che il loro tempo al liceo è concluso, come l’ultima ora del sabato, quando ogni aula si svuota e a un tratto piomba un silenzio d’inquietudine. Il cuore si fa piccolo piccolo. Nello sforzo di renderli uomini e donne, li ho tramutati soltanto in ricordo. E io pure per loro, adesso, sono solo e per sempre ricordo.

 

 

© Federico Cinti

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Tanti auguri, Lorenzo!

 

Lieve l’azzurro tiepido: l’estate

bussa alle porte. Il tempo della scuola,

un ricordo tra cose ormai passate

senza volgersi indietro. L’ora vola

 

impalpabile. A liquide cascate

il sole si riversa. Una parola

risuona tra altre mille inascoltate,

eco sul punto di morire sola.

 

Incantesimo assorto: la distanza

cade tra la realtà e la fantasia

in questo giorno pieno d’esultanza.

 

Lorenzo s’abbandona all’armonia,

prima di cominciare la vacanza

già velata d’un po’ di nostalgia.

 

 

Un’altra ricorrenza, gioiosa questa volta: un compleanno, quello d’un mio studente, Lorenzo, cui non sottraggo la soddisfazione di scrivere qualche cosa. Intendiamoci, la soddisfazione è pure mia: non voglio negarlo. Anche a me piacerebbe se qualcuno mi dedicasse qualche verso, un paio di righe, un pensiero estemporaneo. Alle volte, difatti, ci penso io, faccio tutto da me e lascio correre le malinconie, soprattutto ora che è finita la scuola. Si aspetta tutto l’anno questo momento e poi, sulla soglia, si avverte un velo di tristezza. Per lo stesso motivo non mi piace uscire all’ultima ora il sabato: sentire che tutto si svuota intorno a me è una sensazione che mi fa un certo effetto.

Eppure, adesso siamo sulla soglia dell’estate: ci prepariamo ad altro, alla vacanza, al tempo libero, alle nostre più recondite passioni. Nulla ci è dato a caso, ma tutto va vissuto per quello che è, senza ossessioni per il passato o per il futuro. Tempo propizio, tempo opportuno, l’antico kairos, questo, in cui tutto si rende possibile, anche l’epifania di «qualche disturbata divinità» (E. Montale, I limoni, 36). Occorre solo essere pronti al «prodigio / che schiude alla divina indifferenza» (E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 5-6).

In questa infinita azzurrità m’adagio a galleggiare, come a morto, sul fluire dei miei «pensieri / che l’anima schiude / novella» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 26-28), in un’altra fusione panica tra il tutto e il nulla, io «una docile fibra / dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31). È questo il tempo delle fate, del ritorno di Titania e di Oberon, del mondo che si specchia nel suo specchio e si ritrova nella sua eterna volontà di non fermarsi al limite, sulla linea di confine che si sfrangia.

Siamo immersi nel tempo, flusso infinito della vita in cui galleggia ciò che non siamo più o che non siamo mai stati. È «la morta gora» (Inf. VIII 31) in cui riemerge ogni nostra ossessione, come sulla barca di flegiàs che non comprende e svolge, nonostante tutto, il suo compito eternamente, se non sappiamo uscire «del pelago» (Inf. I 23) di Ulisse e riappropriarci del bene più prezioso che ci è stato donato. Il tempo, certo, null’altro, noi piccoli segmenti sulla retta infinita dell’eternità, cui siamo vocati.

 

 

© Federico Cinti

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Nel vecchio asilo

 

Aleggia il giallo tenue. Una vertigine

mi sorprende, stupita meraviglia

di quella prima volta.

Tutto già fu. In un alito

 

dilegua la memoria. Lungo il ciglio

del prato i miei ricordi si rincorrono

come bimbi. Una bici

cigola impercettibile

 

scivolando veloce fino a perdersi

alla vista. Al sussurro di Filèmone

Bauci echeggia stupita,

mentre intorno è silenzio.

 

Il languore del giallo mi s’insinua

in ogni fibra. L’anima s’inebria

di vita. Intenso esala

dovunque, alito fragile

 

oltre la rete. Freme un desiderio

d’eternità. L’azzurro si ritaglia

in me il suo spazio. È l’oro

dolcissimo del tiglio.

 

 

Non vi è giugno in cui io non mi sorprenda al giallo dei tigli. Ogni volta mi stupisco di quell’ebrezza così impalpabile: circonda il mio piccolo angolo di cielo, costeggia i miei ricordi, mi stringe in un appagato stordimento. E mi sembra di tornare bambino, quando mi fermai per la prima volta a quel soffio leggero. Memorie antiche, così fresche, sempre così attuali. Nella ciclicità del tempo tutto si fa possibile, anche un istante di felicità.

Nel mio vecchio asilo dietro casa gli alberi sussurrano ancora antiche favole, eterni miti conosciuti da sempre e di cui non intendo mai veramente il mistero: li ascoltavo echeggiare dopo i giochi d’allora. Eppure, lo stupore rimane intatto. Tutto resta immutabile, fitto in un reliquiario fuori del tempo, in un groviglio senza età.

Oggi, che il vecchio asilo sotto casa non c’è più, riscopro quel richiamo, eco di un’eco nella memoria che cerca di conservare se stessa per difendersi dagli specchi della riflessione involontaria. Un’immagine ride. Nel silenzio degli anni resta fisso lo sguardo a quel perché delle cose. Fissare, non guardare, per non perdersi: il senso non ci è dato e non ci è tolto, ma si trasfigura in una dimensione d’ombra verso cui tendere le mani inconsapevoli.

Forse è nel giallo dei tigli che continua a vivere quell’io che ormai non sono più. Un segno lieve, una carezza involontaria mi risveglia dal torpore, non per volgermi indietro, bensì per guardare una realtà a rettangoli oltre la rete, oltre il limite di ciò che mi è dato sapere. 

 

 

© Federico Cinti

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Smarrimento

 

Un giorno strano,

questo. Mi pesa

sul cuore. Un vano

senso d’attesa

 

stringe, ma invano,

fuga sospesa,

non qui, lontano.

La mente arresa

 

sogna una vita

migliore altrove:

cerca, smarrita

 

tra cose nuove,

la via d’uscita,

ma non sa dove.

 

 

Nel sole languido di questo inizio giugno il vago smarrimento per la via non definita, incolore, quasi sospesa. Tutto sembra passare nell’inerzia dell’ora, sotto un cielo cinerino. Anch’io passo così, trascorro e trascoloro: è lo spleen della Croce, quella terra in bilico tra ciò che non è e ciò che non è ancora, ultima linea di confine. La mia dimensione, non c’è che dire, tra ciò che fui e che forse sarò, dinamismo di un fragile punto sulla retta dell’infinito. Mi guardo e non mi vedo, privilegio di pochi sentirsi vivere.

Mi ci ritrovo e non so più se sia io fatto per questi luoghi o questi luoghi per me. Nulla è mai invano, nulla è mai a caso, anche se si fatica a volte a trovare il bandolo. Eppure, le rondini ritrovano sempre la via del ritorno, ricompongono sempre il loro nido. Anch’io sotto il tetto cerco l’angolo più riposto in cui nascondere il sogno più vero. Tornerà il sole limpido della primavera. Nell’oppressione di questo grigio appoggio anch’io la mia anima alla «balaustrata di brezza» (G. Ungaretti, Stasera, 1). Equilibrio precario quello che s’ottiene sulla soglia dell’essere. Il tempo si contorce in un ghirigoro sonoro, sperso chissà dove per l’aria. Non è follia volare oltre il margine estremo dell’infinito. 

In questa smarrita sospensione tutto si fa finalmente possibile. la ricerca non è stata vana. Veramente l’attesa attinge la felicità più di qualsiasi realizzazione sognata. S’aspetta la «festa / ch’anco tardi a venir, non ci sia grave» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 49-50). Si è qui, si resta appesi a un fil di sole che ci solleva oltre l’azzurro limpido del cielo. E l’anima s’allaga, smarrita e ritrovata in un unico punto. Ecco, quindi, che cosa ci tocca in dono in questo giorno d’eterna malinconia.

 

 

© Federico Cinti

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Rosa rosae

 

Ti ricordi quel piovere?
Anche ieri pioveva. In quel prodigio
la tua presenza eterea,
così consolatrice, così unica.

 

Un alone di grazia
ti circondava, simile a una nebbia
aurea. Un sorriso tenue
dietro quel velo timido, impalpabile.

 

Dopo, un pallido raggio,
filo sull’infinito a cui appendersi
ancora per non perdersi
mai più, rosa dolcissima di maggio.

 

 

Ha un che di malinconico la pioggia. Non so perché, ma ne avverto tutto il fascino, come se mi si impregnasse nell’anima. Chissà, anche a te piace, memoria ancestrale di un giorno lontano. Anche a te dico, piccola rosa di maggio, dal soave profumo inafferrabile. Mi sento addosso il suo fascino, un’ebbrezza estatica, come il sorriso del crepuscolo che muore, come canta il poeta «M’è lontano dalle ricciute chiome, quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore, / come il sole: bello, ma bello come / sole che muore» (G. Pascoli, solon, 49-53).

Ecco, forse è quel senso di precarietà a renderla così suggestiva, così fuggevole, proprio come la tua bellezza effimera, rosa, sempre sul punto di sfiorire. Vana consapevolezza, questa, di camminare su una sottile ombra, in bilico tra il tutto e il nulla.

Era madreperla il cielo pure quel giorno, anche se tu non ricorderai, quel giorno in cui ti vidi per la prima volta. Pioveva. Sembrava non dovesse finire mai. Noi lì sotto ad attendere, sotto un piccolo ombrello in attesa dell’asciutto. E pioveva anche quando ti ho rivisto, eterno fiore di maggio, quando spandevi il tuo soave profumo tutto intorno, pochi giorni or sono.

Hai un che di malinconico, sai, rosa? Non a caso ti studiamo declinare a poco a poco, fin da ragazzi, quando impariamo a parlare una lingua immortale, la tua lingua. Perché in te, lo sappiamo, c’è la bellezza vera, rosa di maggio, rosa che non dici se non la verità delle cose e di noi: «rosa della grammatica latina / che forse odori ancor nel mio pensiero / tu sei come l’immagine del vero / alterata dal vetro che s’incrina» (M. Moretti, Elogio di una rosa, 1-4). Ti ho cercata, senza mai smettere di sperare, e infine ti ho trovata. Tu sei così speciale. Non so dirti il perché: non c’è un perché. La tua essenza è la bellezza nella caducità. Forse questo è l’amore, è l’attimo che si fa eterno, mentre distilla l’anima tra il fluire che diluvia e salva.

Ora che ti ho trovato, rosa, credimi, non ti lascio più. 

 

 

© Federico Cinti

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Arrivederci, Leonina

 

Un filo la memoria:

esile s’assottiglia nel ripetere

lo stesso gesto semplice,

Leonina, tra le dita che si torcono.

 

Tu voce nel silenzio,

adesso, non più rauca tra le pagine

pallide d’una storia

che non ha un prima e un poi, tu puro spirito.

 

E ti risento leggere,

con piglio inquisitore, ogni interstizio

del cuore, fino all’anima

di chi avevi di fronte in pura immagine.

 

Eri in grado di ridere

d’ogni cosa, ma non di questo vivere

nostro, nel desiderio

dell’assoluto in noi che mai si sazia.

 

Il tuo saluto, l’ultimo,

estremo insegnamento di quell’essere,

come è giusto, nell’attimo

che si fa eterno e appaga ogni inquietudine.

 

 

E non mi pare vero, a distanza ormai di nove anni, che Leonina ci abbia salutato nel silenzio del suo raccoglimento. Era l’Ascensione, una limpida domenica d’inizio giugno del 2011: un volo di farfalla che si libera e libra dal gravoso involucro nell’aria tiepida. 

La ricordo da sempre, Leonina: era la mamma di due miei cari amici. Io la chiamavo confidenzialmente «la Professoressa». La vedevo alta, solenne, dalla voce profonda e riflessiva. Ne avevo forse un timore reverenziale. Ma era la verità: insegnava italiano e storia.

Fumava molto, fumava sempre: le dava un che di cogitabondo. Chissà, una maschera, un modo di guardare al di là senza essere vista.

Solo crescendo ho imparato a conoscerla. Per me restò «la Professoressa» anche quando mi trovai, per uno strano gioco delle parti, a ricoprire il suo ruolo. Già, perché lei andava in pensione e io prendevo servizio. Lo devo ammettere: davvero un beffardo passaggio di testimone. Ne era contenta. O almeno credo.

Non lo sapeva, ma mi aiutò molto; nemmeno io lo sapevo, del resto, ma penso d’averla aiutata parecchio. Le parve quasi di tornare a scuola, mentre mi prendeva per mano e mi lasciava in eredità i suoi segreti, potrei dire i ferri del suo mestiere che non smetteva mai di affilare per vieta consuetudine o per piacere intrinseco, anche se questo proprio non l’ho mai capito. Era troppo ironica per lasciar trapelare qualche cosa di definito. In questo ci assomigliavamo. Trovai in lei il mio specchio: osservandola, capii molte cose di me. Fu come una palestra in cui ritrovarci e ritrovarsi.

Le avevo spiegato con rassegnazione che non era il mio sogno, quello, ma lei mi ripeteva con voce trasognata: «A me piaceva tanto». E si capiva fin troppo. Io lo capivo.

Oggi mi restano questi ricordi di lei, tanti affondi letterari: «Non sai quanto ho studiato», amava ripetermi. O forse lo ripeteva a se stessa.

Anche lei, credo, in qualche modo si rispecchiasse in me, perché mi confidò che di certe cose poteva parlare solo con me. Privilegio per pochi scivolare sulla china dei libri fino a perdersi. E ci perdevamo sul serio tra una lettura e una riflessione, tra una battuta e un caffè. Quanto le piaceva il caffè, ma non quello del bar, perché «era poco». Non ce la faceva a non chiudere con un graffio. Lei avrebbe detto così ed è espressione che faccio mia, forse perché in fondo è mia, mi appartiene, come i ricordi, come i suoi eterni ritardi. 

Eppure, il 5 giugno non giunse in ritardo all’appuntamento. Si era preparata a quel giorno con grande meticolosità, da tempo. Sapeva che era inevitabile, ma non era questo che l’assillava. Doveva arrivarci come a lezione, senza lasciare nulla al caso. In fondo i compiti le aveva già svolti da tempo.

L’avevo vista l’ultima volta il 15 dicembre e già non stava bene. Mostrava qualche cosa di inafferrabile: un velo la appannava. Eravamo nella sua cucina a sbrigare le solite incombenze della correzione, per me un flagello, per lei una delizia. Poi più nulla, un’eclissi ineluttabile. La rincontrai tra l’odore dei tigli solo il mesto giorno dell’addio, che ha in sé l’idea che tanto le stava a cuore, «a Dio». La sua meta era raggiunta: tutto era compiuto. 

E con questa certezza la saluto. Ti saluto, Leonina, un’altra volta.

 

 

© Federico Cinti

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