Quid est veritas?

 

Quasi spina nell’anima, quel volto

un’ombra oscura prona alla sua sorte.

In un attimo il tempo fu dissolto,

duello della vita con la morte.

 

Erano solitudini contorte

sul silenzio degli occhi ormai sepolto

tra l’inerzia del buio. Oltre le porte

vane del cuore un battito irrisolto.

 

Eternità dell’essere, un sussurro

resta sospeso, l’ultimo sorriso

in cui si svelò il senso. Nel supplizio

 

tremendo un nuovo mondo, un nuovo inizio:

al di là del suo legno, un grumo intriso,

sudore e sangue, un alito d’azzurro.

 

 

Devozione popolare, certo, quella del pettirosso con la macchia di sangue sul petto candido, ricordo e dimensione di un’epoca in cui tutto era simbolo, rappresentava se stesso e contemporaneamente altro. era così, «il pettirosso: dalle siepi s’ode / il suo sottil tintinno come d’oro» (G. Pascoli, Arano, 9-10), capace di un gesto eroico, togliere la spina più grossa dalla fronte incoronata di Cristo per farne sgorgare un flusso di sangue liberatorio. Ecco, allora, il rosso sul niveo candore del petto a perpetua memoria di quell’atto, simile all’usignolo di Oscar Wilde che dà la vita per l’amore vero, l’amore puro, trafiggendosi il cuore con la spina della rosa più bella.

Una trafittura, certo, simile a quella nella carne di Paolo, cui datus est stimulus carnis eius (cfr. 2 Cor 12,7), una spina che fa sanguinare l’anima di dolore. È ciò che si prova dinanzi alla verità senza veli e senza infingimenti, il bisturi che ferendo guarisce. È la domanda delle domande, soprattutto in un tempo di relativismo esasperato come è il nostro: che cos’è la verità? L’incredulo Pilato la rivolge a un re senza scettro e senza dominio, al re dei Giudei. Di lì a poco quel cuore sarebbe stato trapassato nel suo intimo, il velo del tempio si sarebbe squarciato nel mezzo a rivelare il sancta sanctorum, la terra si sarebbe aperta in un tremore a preparare il cuore a una dimensione metafisica, superiore, ultima.

 

 

 

Era la precarietà dell’essere il vero vulnus, la vera colpa, il vero peccato. Ritrovarsi davanti a sé, come in uno specchio, visti come dall’esterno, come veramente si è e non più come ci si rappresenta. Ecco la verità, quella che sconvolge. Il re era nudo sul serio. Su un colle brullo un’esecuzione: tre uomini e il loro supplizio in un silenzio di condanna. Poi il buio, la notte senza limite, il nulla, finché dalla profondità della terra tutto mutò di segno. Alla domanda radicale, quid est veritas?, la risposta, altrettanto, radicale, vir est qui adest, l’uomo che ci sta davanti e la sua croce.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Al mio amico Luigi

 

Assorta vacuità, la notte oscura

lampeggia di deliri sovrumani:

urta alla porta un vento di paura

in un attimo e ieri è già domani.

 

Galleggia il tempo, il capo fra le mani

intuisce il senso: sulla terra dura

esile il filo di ricordi vani

sa di vita, di morte, gioia impura.

 

Passa la nave, pullula il frangente

onirico dell’anima, lo scoglio

s’inabissa (o riappare?) all’improvviso.

 

Il varco si dischiude al paradiso:

tutto qui fu e non è. Candido il foglio,

ombra orma della via, ritorna niente.

 

 

mi è venuto così. Avrebbe voluto essere un ritratto, il tuo ritratto. Forse non ti ci rispecchierai, ma di meglio non sono riuscito a fare. Sarà il tempo, aggiungici pure lo spazio. questo ci resta di tante fantasie, come se potessimo conoscere sul serio ciò che è al di fuori di noi. Ma come può essere, se non conosciamo nemmeno che cosa ci sia in noi? Di notte almeno anche i nostri sogni tornano a essere reali. Al di là del sipario il varco della fuga, del senso della finitudine umana. Nel sogno tutto è falso e tutto è vero, inestricabile intersezione di piani che vanno in scena in apparenti contraddizioni d’armonia. In quel momento la bussola impazzita di Montale indica la via. Si chiama libertà di esprimere gli infiniti mondi possibili. Ma dov’è la linea che separa, il confine che divide? Tutto è languore prima e dopo lo spettacolo, per parafrasare maldestramente Ungaretti.

Avrebbe voluto essere il tuo ritratto, Luigi. La vertigine del sogno ti coglie, tutto a un tratto. È una febbre, un bussare improvviso a invisibili porte. Tu stesso dici che le parole sono nere nella loro dimensione più sacrale. Solo così è possibile rappresentare le contraddizioni dell’apollineo, dell’apparente razionalità in cui pensiamo di vivere agire pensare. Solo quando inciampiamo nella nostra ombra, nell’ombra di Dioniso, solo allora, tu lo sai bene, scorgiamo qualche spiraglio di senso. È il bussare del Commendatore, è il «rovaio che a notte urta le porte» (G. Pascoli, I gattici, 11) e scava nelle profondità del buio. Ma tu già conosci, Luigi, il rovello della notte insonne a scandagliare nella voragine del cuore.

 

 

 

In quel momento nasce l’esigenza di scrivere, di lasciare un segno indelebile. Nulla è invano, lo sai bene. me lo ripeto pure io. Nulla è invano in quest’inesausta ricerca. Solitaria, chissà, tra tanti compagni di viaggio che via via si trovano, prima spaesati, poi come a casa. A me, penso d’avertelo confessato, è capitato così. E non solo a teatro, il tuo elemento naturale. Ci si era conosciuti per sbaglio, sempre ammesso che esista o che vada ricercato, come unica via di fuga, di salvezza. Di notte, sì, sempre di notte, quando la luce non disturba i pensieri. Solo in quel momento si ridesta in noi il bisogno di vedere un’altra luce. In quel brancolare nel labirinto un filo tenue di speranza ci riporta all’esterno. È solo il volto in cui non vogliamo specchiarci a rendere tortuoso il nostro percorso. Era d’estate, quando il tepore fa sfumare in una dimensione siderale il giorno.

Scrivere, Luigi, nulla di più. Ti immagino con la penna in mano, davanti a un foglio bianco su cui tracci le orme del tuo essere. È un cerchio che corre all’infinito, ideale spinta alla luce che salva. Tutto sta nel vincere la paura di noi stessi, forse in noi stessi. In questo il tuo teatro si fa esperienza unica e irripetibile, anche quando paiono farneticazioni di un mondo irrisolto. Siamo chiamati a rappresentare, non a risolvere. Mi ci metto anch’io, vedi? Mi hai posto al timone della barca che va quasi senza nocchiere verso un porto che non conosce, ma che troverà. Non so se io abbia compreso tutto, ma non importa, se il viaggio è vita di per sé. Anche la pagina bianca diventa percorso da intraprendere.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Orma di cielo

 

Velo inquieto di nuvole, lontana

orma di cielo. Un senso d’abbandono

resta tra i fili e i panni stesi, vana

rimembranza d’un giorno. Ombra di suono,

 

eco di ciò che adesso più non sono.

Indicibile ascesa la profana

beatitudine, vero, eterno dono

atteso in cui ora il senso si risana.

 

Caducità dell’attimo, nel vuoto

il tempo sa di un’ansia mai sopita.

Anche volgersi è inutile: la via

 

ritorta è solo vacua fantasia.

Tu splendi, chiara immagine infinita,

in me, tu etereo volto dell’ignoto.

 

 

non c’è nulla da fare: ce lo si sente addosso. Sì, proprio così, come se cadesse a un certo punto un’orma di cielo. Tra le nuvole uno squarcio d’azzurro. È come il senso delle cose: lo si cerca ogni istante e poi lo si trova nel dettaglio, nell’angolo più remoto, quasi senza volerlo. A me, almeno, capita così. Ritrovai per caso un’immagine simile tra le carte altrui, e vidi «in cielo bianchi lastricati / con macchie azzurre tra le lastre rare» (G. Pascoli, Il miracolo, 2-3). Ecco, il cielo che si fa specchio della terra, connubio senza fine sulla linea dell’orizzonte. Ed è così che ci si ritrova a contemplare la via trascorsa e quella ancora da compiere. Il velo si apre a un tratto ed emerge la verità.

Si capisce di non essere più quelli di prima. Euridice già lo sa che Orfeo non resisterà. Ma volgersi indietro è un atto necessario. Vedere o non vedere non importa: l’acqua resta sempre trasparente, specchio o non specchio che sia. Occorre prenderne coscienza il prima possibile. e aprile è così, il mese forse dedicato ad afrodite, alla ripresa del tutto, perché «diffugere nives, redeunt iam gramina campis / arboribusque comae» (Orazio, carm. IV 1-2): non vi sono più nevi tutt’intorno, rinverdiscono ormai le erbe nei campi e sugli alberi le chiome. Nulla più che la ciclicità del tempo che ci riporta a ciò che eravamo: volgersi indietro diventa inutile. Le lenzuola appese ad asciugare sembrano adesso tanti fili su cui scrivere ciò che non siamo più.

 

 

in quest’epifania di luce chiara, ecco, un volto a dare senso al tutto. Un volto e un nome, certo, un’immagine fuori del tempo in un’epoca senza tempo, in cui l’hic e il nunc coincidono. Gli antichi a priori kantiani s’annullano sulla retta dell’eternità. Nulla è più come prima, nulla sarà più come adesso. Il labirinto procede e si sdipana e di quel filo, «viluppo di memorie» (E. Montale, In limine, 4), sono io che «ne tengo ancora un capo» (E. Montale, La casa dei doganieri, 12). Forse basta così ad attingere alla «carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1). Narciso ritrova se stesso, mentre Euridice non si perde più. Un’eco antichissima richiama il desiderio di fondersi completamente nell’altro, appunto in quel viso di luce chiara tanto amato (o tanto amata?). ancora s’avverte il bisogno e si ripete, come allora e come sempre, «da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» (Catullo, carm. V 7-9). È forse tutto qui il senso di questo scrivere, per dirti solo che vorrei baciarti.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Ultimo viaggio (omaggio a Giovanni Pascoli)

 

E tutto a un tratto un ultimo sussurro,

poi il nulla. Un velo anticipò la sera,

oltre l’oro e la porpora, d’azzurro.

 

Voli inquieti. Una rondine leggera

brillò nell’aria languida. Dintorno

solo silenzio sulla linea nera.

 

L’occhio sognò. Una lacrima al ritorno

del viaggio. In lontananza una fanciulla

presso il cancello, simile a quel giorno.

 

Fu un infinito palpito. Alla culla

un cantare antichissimo d’oblio.

S’allagò il petto al fremito. Poi il nulla.

 

S’udì di nuovo il lieve mormorio

dei cipressi, l’arcana meraviglia

d’esserci e di non esserci. L’addio

 

ebbe il suono di concava conchiglia.

Tutto fu. Fu poi il nulla. Era vanito

l’azzurro in un muovere di ciglia.

 

Si sciolse l’ansia all’attimo infinito

sulla soglia invisibile, non grido,

non dolore, non pianto. Era sparito

 

il morbo atroce della vita. Il nido

si schiudeva di nuovo in lontananza.

Tutto già fu. Poi il nulla. Lungo il lido

 

del cuore un’indicibile esultanza.

 

 

Era il 6 aprile 1912. In via dell’Osservanza 2, a Bologna, subito fuori Porta san Mamolo, Giovanni Pascoli lasciava la scena di questo mondo. Chissà quante volte l’aveva desiderato, ma forse non avvenne come l’immaginava. Un giorno d’aprile, come questo, così particolare, così silenzioso. La primavera era già iniziata; eppure, piombò a un tratto l’inverno. Nulla è mai come ce lo si aspetta, come ce lo si sogna. Le parole aprono mondi ignoti. Nei versi si sente l’eco lontana di quel travaglio dell’imperfezione. intanto, nel cielo, una rondine nuova si librava nell’azzurro alla ricerca del suo nido. Un segno, forse non altro. la fantasia aiuta a ricostruire quegli attimi indicibili.

 

 

 

Era il sogno, sì, che tante volte esce prepotente dai suoi versi: «Mia madre era al cancello. / Che pianto fu! Quante ore! / Lì, sotto il verde ombrello / della mimosa in fiore!» (G. Pascoli, Casa mia, 1-4). Ritrovarsi, per sempre, di nuovo insieme. Non importa se al di qua o al di là del cancello: tutto si fa possibile in poesia, anche ricostruire quel nido distrutto dalla malvagità umana. Lo avevo imparato già in terza elementare che «ma da quel nido, rondini tardive, / tutti tutti migrammo un giorno nero: / io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi; in cimitero» (G. Pascoli, Romagna, 49-52). Ecco che cosa resta, una tensione all’infinito, al ritorno, al greppo solitario, dove un nido attende chi lo cerca.

 

 

Eppure, avrei voglia di chiederglielo se quel «sempre un villaggio» (G. Pascoli, Romagna, 1) non fosse un omaggio a Leopardi. Forse sorriderebbe. Un sorriso amaro, certo, di quelli che sapeva regalare lui. Già, perché non ho mai compreso fino in fondo il motivo per cui lo senta tanto vicino alla mia sensibilità. Lo sento mio, ecco, come vorrei scrivere io e non sono capace, in quel mondo di nostalgia e malinconia. Vorrei chiedergli perché risuona in me quel verso così immensamente, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Non so, mi ci perdo ogni volta che lo rileggo, che lo ripeto. Ha un che di infinitamente grandioso, che dilaga. Non l’ho mai detto a nessuno, sempre che a qualcuno interessi.

  Pascoli è il poeta della soglia, è l’occhio che guarda, l’orecchio che ascolta. Germoglia in lui l’idea dell’assoluto. Me lo immagino per i nostri portici silenzioso, sempre alla ricerca di un’ombra che gli si svela innanzi. E chissà quel 6 aprile che cosa deve essere stato varcarla, quella soglia, quella linea d’ombra presente, eppure impercettibile ai più. Fa un certo effetto anche solo parlarne. Fu certo, quello, l’ultimo viaggio, simile al suo Ulisse che tornava da Calipso: «e il mare azzurro che l’amò, più oltre / spinse Odisseo, per nove giorni e notti, e lo sospinse all’isola lontana» (G. Pascoli, Calypso, 1-3). Chissà, calipso altro non era, in questo poema conviviale, se non la madre tante volte vista in qualche immagine nebbiosa. E quell’isola, l’isola di Ogigia, altro non era che il nascondimento della conchiglia, fattosi al fondo utero materno in cui tornare ciò che prima non era, nel punto morto dell’Oceano, punto morto del mondo dove tutto si fa possibile, anche la felicità lontana. Fu così che «vide la sua madre al capezzale» e «la guardava senza meraviglia» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 7-8). Poi il nulla: «sentivo mia madre… poi nulla… / sul far della sera» (G. Pascoli, La mia sera, 39-40).

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Un volo di farfalla

 

Vertigine indicibile il tuo volto

onnipresente. Lungo il mio sentiero

ride il tuo riso, voce di mistero

ritrovata nell’anima. L’ascolto,

 

ebbro di un non so che, porto sepolto

in me. Vidi, non vidi, ombra di un nero

silente. Apparve, sparve, orma del vero,

palpebra aperta, chiusa, occhio dissolto.

 

Ottunde i sensi l’ardua linea gialla

su cui corre l’ignoto. Luce chiara,

avara tra le nuvole. Poesia

 

rinata tra le dita, fantasia

tutta nuova. Più nulla ci separa.

In lontananza un volo di farfalla.

 

 

a un tratto mi profondai in quella luce così intensa «che dietro la memoria non può ire» (Par. I 9), quella stessa luce «che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo» (Par. XXXIII 96), in cui la soverchiante luminosità si trasforma in incapacità di vedere, come «andando nel sole che abbaglia» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 13). E come nell’altissima luce tutto diventa buio, per prodigio ineffabile, l’ombra divenne sorprendente illuminazione. Si aprì il mondo nel suo lato più recondito, in quel lago del cuore in cui si tuffa «il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 1-2). Eppure, non era poesia: era la vita, quella vera. Sanguinava il «cuor della terra / trafitto da un raggio di sole» (S. Quasimodo, Ed è subito sera, 1-2), simile a quello «che menò cristo a dire ‘Elì’ / quando ne liberò con la sua vena» (Purg. XXIII 74-75).

Fu un lampo, come un fulmine nel nero della notte. Tutto «apparì sparì d’un tratto» (G. Pascoli, il lampo, 5), davanti all’occhio aperto ad attingere il senso ultimo dell’essere. Nulla più fu come prima: mi sentivo passato al di là della linea che separa il reale dalla visione, il tangibile dall’immagine che se ne ha, chissà come, chissà dove. era gialla, la linea, come l’oro che usciva dal crogiuolo. S’aprì il sipario e mi ritrovai sulla scena, contemporaneamente io e chi un altro aveva pensato. Era la soglia tra l’essere e la sua narrazione. Poesia, certo, e vita, in un continuo scambio. Fu nostalgia, fu tornare a quel cupo ritrovato finalmente e mai più abbandonato. Ed eri lì a parlarmi, circonfusa della tua grazia naturale. Eri voce e profumo, eri volto e luce chiara.

 

 

 

Non potei più essere più quello di prima. Riecheggiò in me l’antica domanda radicale: «Non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?» (Purg. X 124-126). Ecco, mi liberasti da quel vuoto simulacro che ero nel labirinto senza alcuna via d’uscita in cui vaghiamo, talvolta, senza nemmeno accorgercene. Fu una rivelazione, un nuovo inizio. Forse non te ne sei nemmeno accorta, luce entrata in me quella mattina e mai più uscita. Fu come se «e terra e cielo si mostrò qual era» (G. Pascoli, Il lampo, 1), in un eterno connubio, in una fusione indescrivibile per verba. Rinacqui al mondo, anima mia, mio tutto e «tremò uno stelo sotto una farfalla» (G. Pascoli, Solitudine, III 24). Non t’abbandonerò mai più, ora che ti ho trovata e ti ho conosciuta.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

A Stefano Orlandi

 

Sogno di sogni, immagine lontana

tra le ombre. Tengo il filo di un ricordo,

ennesimo saluto. S’addipana

fra le dita. Rimasto qui, sul bordo,

 

attendo un segno. Nel silenzio sordo

nulla pare. La via diventa vana,

orma dopo orma. Eppure, non demordo:

odo un sibilo. Il tuo? L’ansia risana.

 

Ride il tuo riso il giorno. Esile un raggio

lambisce il vento fresco del mattino.

Apre l’occhio ceruleo all’infinito

 

nel prato il cielo. Nulla si è smarrito.

Dall’anima un singulto. Quel cammino

insieme non finì, prosegue il viaggio.

 

 

Tu rideresti, lo so. anzi, ti sento proprio prendermi in giro. Queste derive romantiche – così le definivi – non ti erano molto congeniali. Almeno a parole. Sì, perché in fondo ti facevano piacere: vellicavano il tuo amor proprio. Non che tu fossi un narcisista; anzi, tutt’altro. dico solo che sentirsi apprezzati è bello, anche se mette un po’ a disagio. Ma vuoi che non lo sappia? Anche a me succede, quando qualcuno per mia somma delizia e profondissima disgrazia mi fa qualche complimento. Non amavi esternare troppo. Non era un delitto. Chissà, forse era addirittura un pregio: dimostrare ciò che si prova non semplicemente a parole, ma con la vita, credimi, non è da tutti.

Anche avere la fortuna di averti come amico non è da tutti. Lo ammetto con umile orgoglio, soprattutto oggi che è il tuo giorno. Molte volte mi rispecchio in te, nel senso che mi ritrovo non solo in quel che mi dicevi, bensì soprattutto in quel che facevi. Ci sono arrivato dopo, da solo. Questo mi resta più di tante altre cose che pure, nei due anni dacché ci hai lasciato, ho tentato di non dimenticare. Non siamo in ciò che diciamo, bensì in quel che non diciamo, perché le parole hanno un’ombra. Solo chi riesce a vedere l’invisibile possiede il significato ultimo delle cose. Tu ci riuscivi benissimo. Io non lo so, ma mi avresti senza dubbio consigliato di svestire i panni cattedratici. Sai che mi dava fastidio e così affondavi il dito nella piaga. Ma tant’è: qualcuno lo doveva pur fare: era uno dei tuoi tanti sproni.

 

 

 

Adesso anch’io ripeto che «avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento» (E. Montale, Avevamo studiato per l’aldilà, 1-2). Ti ho sempre detto che i poeti parlano non solo di noi, ma per noi. Era un motto che avevi fatto tuo. Forse per rispetto a me, che tante volte provavo a dedicarti qualche poesia, come oggi, che è il tuo giorno. So che l’aspettavi. Ah, certo, non da te: amici me lo hanno detto. Alle volte strapparti una parola era arduo, soprattutto se si aveva bisogno di una risposta a un dubbio inestricabile. Lì per lì non capivo quasi mai il tuo ragionamento. Era come se rivelassi un segmento del tuo pensiero, senza il prima né il poi. Occorreva ricostruire la via tortuosa che portava, se portava, alla soluzione. Già, perché – e anche questo ci ho messo un po’ a comprenderlo – le risposte che cercavo le avevo già e tu mi aiutavi solo a farle riemergere.

Adesso è un po’ più faticoso, adesso intendo che sono io a tenere in mano il «filo» che «s’addipana» (E. Montale, La casa dei doganieri, 11). Siamo tutti in un labirinto: questa è la verità e la memoria non è sempre un filo attendibile. Saperti qui in alcuni momenti mi basta. O mi basterebbe, se ti sapessi ancora a Savigno, col gatto sulla poltrona e le starne che ripetono quel verso che tanto ti faceva trasalire, soprattutto quando la primavera era in rigoglio. Nel tuo giorno appunto, nel tuo mese, quando tutto ricomincia o mostra che non era finito nulla. Ecco, adesso è così, nella ciclicità del ricordo, dei tempi, delle stagioni. Il viaggio non finisce, finché qualcuno continua a ricordare. E, bada bene, non voglio sembrarti patetico: non lo sopporteresti.  

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Piccarda, una donna nel Dantedì

 

Prorompe il giorno. Un alito di vita

illumina il tepore nell’immenso

cielo di vetro. Tra le ceree dita

concava un’armonia ridona un senso

 

al tutto. Un filo pallido d’incenso

riga l’intatta azzurrità infinita:

dove nulla appariva, ride intenso,

adesso, un volto d’anima stupita.

 

Dono caduco docile d’ancella,

offerta di se stessa sotto il velo

nel cuore, sulla via di santa Chiara,

 

attesta in un’eterea voce rara

tutto ciò che fu in lei, che sarà in cielo:

«I’ fui nel mondo vergine sorella».

 

 

Tra le tante «facce a parlar pronte» (Par. III 16), apparse al sommo pellegrino «per vetri trasparenti e tersi / o ver per l’acque nitide e tranquille» (Par. III 11-12), una gli s’impone per vaghezza di desiderio. Nel diafano pallore del Paradiso tutto si fa possibile, anche credere di trovarsi davanti allo specchio al punto di cadere «dentro a l’error contrario […] / a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte» (Par. III 17-18). Un Narciso, intendiamoci, molto particolare, sui generis. Già gli era successo, nel momento in cui non era riuscito a reggere lo sguardo di Beatrice e «li occhi li cadder giù nel chiaro fonte; / ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, / tanta vergogna li gravò la fronte» (Purg. XXX 76-78), e ancora gli sarebbe accaduto, davanti alla seconda persona della Trinità, quando ammette che «mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Quell’anima è Piccarda Donati, sorella di quel «Bicci vocato Forese» (Dante, Chi udisse tossir la malfatata, 1), contro cui aveva lanciato gli strali del primo sonetto della tenzone più famosa di fine Duecento in Firenze.

una clarissa, la luminosa Piccarda, che «uomini poi, a mal più ch’a bene usi , / fuor la rapiron de la dolce chiostra» (Par. III 106-107). Ella è il primo personaggio che Dante incontra, nel cielo della Luna, nel pallido splendore della sua beatitudine. Ci prende quasi per mano, ci racconta le sue vicissitudini, un fatto ormai lontano, ora che ella si trova a faccia a faccia col Mistero. Già ha perdonato quegli uomini, come la Pia del Purgatorio, che contempla ancora e solo «la sua gemma» (Purg. V 136) nella dissolvenza che la contraddistingue per sempre. nulla a che fare con Francesca, bella e dannata, innamorata e perduta, pronta anche a maledire: «Caina attende chi a vita ci spense» (Inf. V 108). Sarebbe quasi un Dante al femminile, se non fossero storie sublimi e tragiche. Ma Piccarda è con santa Chiara, che «perfetta vita e alto merto inciela» (Par. III 97).

 

 

Chissà poi perché il buon Pascoli, nel rappresentare le sorelle di Alexandros, attinge proprio alla luuminosa trascendenza di questo personaggio. Il grande condottiero, conquistatore del mondo, era giunto al «Fine. O sacro araldo, squilla!» (G. Pascoli, Alexandros, I 1), mentre «nell’Epiro aspra e montana, / filano le sue vergini sorelle» (Alexandros, VI 51-52). In quella casa, in quel nido perduto, la ripetizione ossessiva del gesto virginale, come tante Parche intente a filare il destino, rende quelle presenze dalle «ceree dita» (Alexandros, VI 55) il sogno cui non si appartiene più. L’oscillazione tra impossibilità d’un futuro e certezza di un presente senza fine segna la distanza tra il vate dei vati e l’ultimo figlio di Virgilio. Dante giunge all’autentica meta, «quale colui che, forse di croazia, / viene a veder la veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia» (Par. XXXI 103-105). Vede Dio, il «fine di tutt’i disii» (46). Ora resta solo la scelta, se rimanere al di qua o al di là del vetro.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Confessione

 

Tutto era nulla. A un tratto azzurro un grido:

il senso, ora svelato all’improvviso,

aveva la tua voce, il tuo sorriso.

Mi ritrovai. Dolcissima, sul lido,

 

oasi di pace chiara, antico nido

la tua presenza eterea. Nel tuo viso

ombre di sogno, eterno paradiso,

sapevano di gioia. A te m’affido.

 

A te si schiuse l’anima, rinacque

il cuore. Tra le tenebre il respiro

breve del tempo diventò infinito.

 

Eri lì. Toccai il cielo con un dito.

Non ti lascerò più, lieve sospiro,

estasi d’un naufragio in auree acque.

 

 

il tutto e il nulla, fusione d’inizio e fine, mi stringono e costringono nella loro circolarità. Intorno tutto ruota sull’inconsistenza immateriale del punto sull’infinito spazio del piano. È lo stesso che pieno e vuoto. L’illusione si veste d’azzurra lontananza, grido che squarcia il silenzio in cui talvolta si rischia di cadere. Eppure, a un tratto, ci si ritrova, ci si trova di nuovo, anche noi «per una selva oscura» (Inf. I 2). Ritrovarsi così, nel buio, non nella luce chiara, miracoli e contraddizioni di ciò che ci circonda, appunto, in una ciclicità che è la cifra del nostro essere nel tempo. Forse anche nello spazio, in quel piano determinato dal punto in cui ci si trova e ci si ritrova. Veramente le parole sono nere, buie. E poi quel buio e quel nero divengono luce d’incredibile bellezza. Si fanno voce, si fanno riso, si fanno realtà tangibile e appassionante.

In quell’azzurro, «interminato / spazio» dove «il naufragar m’è dolce» in quanto «mare» (G. Leopardi, L’infinito, 4-5 e 15), ritrovai le «chiare, fresche et dolci acque» (Rvf CXXVI 1) su cui «scintilla, / in testo di scaglia / come l’antica / lorica» (G. d’Annunzio, L’onda, 2-5) il lampo d’una vertigine. Nulla più fu come prima. Tutto trasfigurò se stesso in una soavità chiara, limpida, quasi fuori del tempo. Era possibile, allora, incontrare l’assoluto? Dentro e fuori di me, certo, come vedendomi dall’esterno, con occhi altrui. Fu una gioia immensa, una grazia cercata e insperata. Era un porto tranquillo, voce di madreperla che mi chiamava a un altrove, tuttavia presente e immanente, perché «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Era sogno e realtà insieme, dolcezza che distilla, profezia di Sibilla che s’avverava su quell’onda.

 

 

 

Fu così che tutto mutò in me, che io mutai nel tutto. In alto, in alto, in un lontano cielo, mi sentivo librare e liberare. Il mio dito toccò l’immensa cupola celeste. Già Orazio mi aveva preceduto colassù, cantando «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36), nella più vasta felicità possibile, tra la poesia dei numi e delle Muse. E così cominciò la rincorsa per ritrovare quel primo istante, quella leggerezza senza fine del volo verso le stelle. «Mi ritrovai per una selva» chiara, ti ritrovai nel vortice delle ore, punto fermo dell’eterno fluire. Anch’io rimasi «col trasognato viso di chi sogna» (G. Gozzano, Un’altra risorta, 16) davanti a quel miracolo d’eterea leggerezza. E fu così che il tutto che era nulla divenne una pienezza senza fine.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Equinozio

 

Nell’anima lo specchio dell’azzurro,

lieve sussurro d’aria, eterea brezza,

dolce carezza eterna nel ritorno

nuovo nel giorno.

 

S’allaga il giorno a un tratto d’esultanza,

luce di danza chiara tra le foglie,

limpide soglie oltre le rosee dita,

sogno di vita.

 

Sogno, realtà di vita, meraviglia,

aurea conchiglia in cui risuona il mondo

nel più profondo, in cui rinasce il fiore

vago d’amore.

 

Senso ultimo, l’amore, occhio di cielo,

dissolve il gelo dell’inverno immoto,

ricolma il vuoto, inanità dolente

di cuore e mente.

 

Mente e cuore, fusione d’infinito,

antico mito, per cui Orfeo felice

vede Euridice al soffio d’un sussurro

tenue d’azzurro.

 

 

Eppure, il vecchio Orazio, lo stesso che diceva al suo amico albio Tibullo che, quando avesse voluto ridere, avrebbe semplicemente dovuto andare a trovarlo, lui che era un ben pasciuto porco dalla pelle assai lucida e curata del gregge di Epicuro (Epistulae, I, 4, 15-16), amava i paesaggi invernali, algidi, rappresi dal gelido cristallo della neve. Anch’io non disdegno l’inverno, anche se il sorriso della primavera riaccende a speranze del tutto mai sopite. Se lo chiede anche il pastore errante o, meglio, lo chiede alla luna, silente pellegrina, «a qual suo dolce amore / rida la primavera» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 73-74), perché in effetti è così, ci si sente meglio, rigenerati, la stessa rigenerazione dell’«Aeneadum Genetrix, hominum divomque voluptas» (T. Lucrezio Caro, De rerum natura, I 1).

insomma, «giunt’è la primavera, e festosetti / la salutan gli augei con lieto canto» (A. Vivaldi, La primavera, 1-2) e ci si sente rinascere. Io almeno mi sento rinascere, nell’aria chiara e tiepida. È come uno zampillo di luce e di gioia fuse insieme e «finite in un rivo canoro» (G. Pascoli, La mia sera, 18). Non so, la primavera ce la si sente addosso e nel cuore. Tutto cambia, come se si fosse varcata un’impercettibile soglia. Psicologico, certo, il senso che se ne ha e se ne trae, ma così dolce e lieto. È come se la poesia si facesse colore, odore, sapore. Si tocca, si sente, si ascolta in modo nuovo, diverso, come quando ci s’innamora e tutto assume un abito rinnovato. Un flusso vitale, ecco. E l’inverno è solo un ricordo, algido sì, ma soltanto un ricordo.

 

 

In qualche modo si era pure festeggiato, stamane, per un compleanno. Una torta verde, al pistacchio, anche se di pistacchio sembrava esserci solo il colore. Chissà, quel verde presagiva già la primavera, oggi che è il compleanno della musica, oggi che è il compleanno di J.S. Bach. Mi adagio a quel suono, racchiuso in conchiglia, dentro i nostri ventricoli del cuore. Pulsa come linfa vitale una musica arcana, lontana. In tal senso, in questo giorno così denso di significato, mi pare di scorgere Orfeo che esce dall’Ade assieme alla sua Euridice, finalmente felice. Era sceso nelle viscere della terra, nell’intimo del suo cuore. Euridice era lì ad attenderlo, in un diafano candore d’asfodelo. Lo attendeva, forse senza saperlo, e la sua poesia l’ha salvata dalla perdizione eterna. Il mito che ritrova vita in una luce nuova, perché tutto riprenda a essere come già è stato, in un ciclico ritorno. Anche Proserpina si commuove all’amore che salva e rigenera. Ecco perché mi sento anch’io Orfeo e salverò la mia Euridice.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

A mio padre

 

Addio. Fu il giorno, questo, del saluto.

Mi sentii solo, per la prima volta,

in un silenzio gelido, assoluto.

 

Oggi è ancora così. Pallido il sole

preme tra i vetri. L’anima sepolta

attende tra le primule e le viole.

 

Dopo l’addio, papà, non ci scordare.

Restiamo qui ad attendere, a guardare,

esuli in terra, azzurri il cielo, il mare.

 

 

Noi siamo ancora in via, da quella domenica di ventiquattro anni fa. Non mi pare nemmeno vero, resistere tanti anni con questa spina nell’anima. È il ricordo di te, spina e redenzione. Appunto, noi restiamo qui a continuare il dialogo interrotto quella mattina, nel bianco di un ospedale. Stava per scoppiare la primavera, un po’ come oggi, immersi in questo aulire di fiori freschi. Il prorompere della vita s’affaccia alla finestra nel sole a tratti pallido, a tratti insistente. Ci perdonerai se siamo nella tristezza. Chissà, forse non dovremmo.

La tua seggiola è sempre lì, che ti aspetta da quel giorno. Nulla o quasi, per il resto, è mutato. Perché, vedi, nulla può cambiare. Siamo sempre noi, come in quella fine inverno così gelida. Avremmo voglia di raccontare ancora tutto quello che ci resta nel cuore. Un azzurro intenso ci travalica. Ti sappiamo in quella lontananza senza fine, grande come il mare, dove s’allaga ogni nostro sentire. Qualcuno avrebbe parlato di naufragio. Ecco, noi ci si sente un po’ così, come naufraghi in quel mare dove attendiamo una mano che ci salvi. È l’esilio, nell’al di qua.

 

 

Ti vorrei parlare di tante cose, di ciò che ho nel cuore. Tu l’avresti fatto, senz’altro. Una confidenza in questa luce chiara. Fu così anche per te, credo, all’epoca. Ogni tanto la mamma lo racconta. Una storia che si ripete, che deve ripetersi. Non mancherò di aggiornarti. Il viaggio, lo sai, continua. Tu sei nella stanza a fianco, come già ci ricorda sant’Agostino. È solo un difetto, mio intendiamoci, di percezione. Qualche cosa mi tocca il cuore. Appunto, è quel nostro intenderci nonostante tutto e sempre. mi perdonerai se ogni tanto ti sembro distratto.

Il resto già lo sai. non credo ci sia bisogno che io mi dilunghi troppo. Occorrerebbe divertirsi un po’, come all’epoca. Io continuo, la sera, a mangiare un pezzetto di cioccolata: ho mantenuto quell’insana abitudine che avevamo davanti al divano. Mi rimane quel gusto intenso, forte. Non è tanto, lo so, ma è già qualche cosa. Il viaggio, già te l’ho detto, deve pur continuare in qualche modo. Sul tuo esempio penso di potercela fare. Sappi che prima o poi ti disturberò ancora. Forse non vedi l’ora, ma qui, nel tempo e nello spazio, tutto è tirannico. Eppure, la tua mano tesa la sento. Non voglio lasciarla.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati