Ridere in pianto

 

Riso o pianto, Democrito o Eraclito?

Illusione dell’essere sul bordo

dell’attimo tra il nulla e l’infinito,

enigmatico filo del ricordo.

 

Rimane un mormorio, nel cuore sordo,

esilio sulla via. Tutto è smarrito.

Impossibile, ormai, qualunque accordo

nell’ora, sogno fragile svanito.

 

Passò quel tempo, Nello specchio solo

il mutevole volto che non dice

altro se non parole senza suono.

 

Nell’anima arrendevole abbandono

tra il desiderio d’essere felice,

oggi e per sempre, tra l’azzurro un volo.

 

 

Tutto a un tratto s’avverte una frattura e il punto di frazione si manifesta in una risata liberatoria. Ma davvero è tutto così folle? La presa di coscienza passa inevitabilmente attraverso il distacco, dalla sublime compunzione di sé alla disincantata Allegria di naufragi. Sfuma così la nebbia e «il velo è ora ben tanto sottile / certo che ’l trapassar dentro è leggero» (Purg. VIII 20-21). Niente di nuovo, è ovvio, se tutto «fa ridere e commuove», come coglie acutamente Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo a proposito di Cervantes. Ecco, allora, «Democrito che ’il mondo a caso pone» (Inf. IV 136) ed Eraclito, incapace d’immergersi due volte nello stesso fiume. Il riso dell’uno si specchia nel pianto dell’altro. Da soli non si danno: l’uno è il complemento dell’altro. O almeno a me così pare.

Sono considerazioni, queste mie, «degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno / teatro» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XII 54, 1-2), se è vero che «è assai meglio, dentro questa tragedia, / ridersi addosso, non piangere e voltarla in commedia» (F. Guccini, Il matto). Vedersi da fuori, tutto qui: questo il segreto, in ogni ambito, in ogni dimensione, in ogni occasione. Chissà, forse è simile a quella «leggerezza» di cui parla Calvino nelle Lezioni americane, forse non è troppo diverso dal non prendersi troppo sul serio. Non so se io stia rispondendo a chi mi chiede perché, di persona, sono così simpatico, quasi dissacrante, e per iscritto tanto (troppo?) malinconico. Oscillo costantemente, diciamo pure così, tra Democrito ed Eraclito.

  

Eppure, ne sono pressoché certo, «verrà un giorno», come proferì il buon padre Cristoforo di manzoniana memoria, in cui tutto sarà scoperto, in cui il velo cadrà inesorabile. In me i due filosofi antichi o, meglio, quel che ci è stato tramandato di essi, un frustulo di nulla nella memoria infinita, si fonderanno in me o si separeranno. Attendo paziente quel giorno, quando potremo leggere veramente la realtà per come è e non per come ce la propongono gli improvvisati pittori del pensiero. Alle volte, il bisturi filologico non fa che scomporre arbitrariamente il mosaico perfetto che il genio degli autori ha saputo costruire. Figuriamoci se il sarto ci fa vedere le cuciture; eppure, qualcuno le va a cercare per dimostrare che l’opera di cucito è confezionata a regola d’arte. E così nei rapporti umani, professionali, d’amicizia. Io parlo di quel che so e conosco, naturalmente; altri, chissà, s’improvvisano esperti di saperi altrui. Ne ho incontrati, sì; ne ho incontrati sin troppi e chissà quanti ancora ne incontrerò.

Oggi vediamo tutto attraverso uno specchio, ammettiamolo una buona volta. Ci approssimiamo asintoticamente al vero, se siamo onesti. Io ci provo. Mando in scena i miei soliloqui, m’accontento di non pesare troppo su chi deve ascoltarmi e tanto basta. Nel mio piccolo regno al quarto piano e mezzo posso riflettere, proprio come allo specchio, sulle finzioni altrui. Anche «io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura» (G. Leopardi, L’infinito, 7-8), e venitemi a dire che non è così. Mi stringo nelle spalle e vi rispondo che va bene: c’è sempre qualcuno che ha letto una pagina più del libro. Io attingo molto agli scaffali della mia pur scarsa memoria, dove «si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Insomma, «miserere del mio non degno affanno» (Rvf LII 12). Non lo faccio apposta, è la mia fragile forza.

 

 

 

© Federico Cinti

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Confessione a un amico

 

Magmatico mosaico, ritrovarsi

a un tratto altrove, sulla via smarrita,

riscoperta per sbaglio tra gli sparsi

cocci senza più età di un’altra vita.

 

Era il fluttuare instabile del giorno

tra vane verità scritte nel vento

ubriaco di sole, era il ritorno

languido dopo l’ultimo tormento.

 

La pagina si fa di nuovo bianca

innanzi agli occhi increduli di neve:

ci si rivede, un altro ci si affianca,

immagine d’immagine più lieve.

 

Chi si è, chi non si è più? Nel nuovo il vecchio,

essere dentro l’essere lontano.

Rimane imperscrutabile lo specchio

oasi nel tempo, refrigerio vano.

 

 

tutto era pronto per andare in scena, oggi, 3 gennaio, a casa dell’Ingegnere. Anch’io ero pronto, da vecchio giullare, a rievocare il compleanno di Cicerone. Lo faccio non dico da sempre, ma dacché ci si conosce sì. Ed è trascorso ben più di un quarto di secolo. Me lo ha ricordato lui, l’Ingegnere intendo, la notte dell’anno. io inseguivo, come di consueto, le mie divagazioni letterarie. Quel ricordo mi ha fatto trasalire, simile all’incauto Morvàn che «un dì trasecolò nella boscaglia» (G. Pascoli, Breus, I 2). Il tempo si era annullato, d’un tratto, chissà. Oppure c’eravamo annullati noi nel tempo, capricciosa variabile come è. Iniziava il ventisettesimo anno, che è poi questo appena iniziato. Rimasi come sospeso, come Oreste i cui «occhi gli andavano lì, a quello strappo», quell’Oreste che «insomma, diventava Amleto» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Fissavo pure io «quel buco nel cielo di carta», senza pretese amletiche ovviamente, quasi incredulo.

 

 

 

Ero pronto a sedermi nel mio posticino, sul lato corto del tavolo, all’ingresso della cucina quadrata. di sicuro l’avrei ascoltato nelle sue divagazioni storiche, quasi centenarie. Il tono oracolare gli si confà particolarmente, nulla da eccepire. Eppure, è figlio del mondo del pressappoco anch’egli, come me, più che dell’universo della precisione. Perché siamo consapevoli entrambi che l’oggettività non esiste, checché ne dicano. Mi siede di fianco, a volte parlandomi sottovoce, come dovesse rivelarmi un grande segreto. Lo ascolto con reverenza filiale, anche se è poi nato qualche mese dopo di me. Non importa. Da tempo ormai ho compreso che solo chi riesce a vedersi da fuori ha qualche speranza di carpire un pur minimo brandello di senso. Altre volte, invece, conciona ex cathedra, consapevole di affermare il principio su cui poggia il panta rhei. Su quell’immaginario palcoscenico rimugino, tra me, il famoso verso: «Soffri e sii grande: il tuo destino è questo» (A. Manzoni, Adelchi, III, I,). Recitiamo, tutto qui, e in quel mentre mi capita di astrarmi da me, «come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata» (Inf. I 22-24), mi capita insomma di vedermi.

tutto era pronto, certo. O meglio sarebbe stato, perché ogni volta si finisce a recitare a soggetto. Perché si cambia, è innegabile, di volta in volta, di anno in anno. E succede pure di vedere le cose in modo diverso e, dovremmo pure ammetterlo, in quelle cose ci siamo pure noi. Sì, proprio così: ci pare di non essere più noi, quelli di prima, come se un giorno ci fossimo guardati allo specchio senza riconoscerci. Se mai ci siamo conosciuti veramente, è ovvio. Secondo la profezia, per giungere a venerabili età, non bisognerebbe conoscersi. Non bisognerebbe, in ultima analisi, avere il privilegio di vedersi, lungo la linea di demarcazione che genera il distacco, per cui si passa dal riso alla commozione, da fuori. È così che, pur restando sempre noi, siamo sempre diversi. E mi sento diverso io in primis, senza che altri vengano a dirmelo. Oddio, se devo essere sincero, l’Ingegnere lo trovo sempre uguale: del resto, lo vedo da fuori e – credo – lo conosco bene. So che attendeva il mio affondo su Cicerone, il genio incontrastato della parola. Resta pur sempre il suo compleanno, oggi, da quel lontano 106 a.C., quando nacque ad Arpino. Su tutto il resto si ritornerà, ne sono sicuro.

 

 

 

© Federico Cinti

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Inno «Gesù che doni agli uomini» – «Salutis aeternae dator»

 

Gesù, che doni agli uomini

salvezza eterna, aiutaci!

Clemente Madre Vergine,

per noi chiedi ogni grazïa!

 

Beate schiere angeliche,

antichi Padri biblici,

Profeti dell’Altissimo,

pregate per noi miseri.

 

Battista, che a precedere

Gesù ne desti annuncïo,

san Pietro e santi apostoli,

per noi inalzate suppliche!

 

L’esercito dei martiri,

la schiera dei presbiteri,

il coro delle Vergini

da Dio pietà ci ottengano.

 

Chiunque di voi abita

nel regno dell’Altissimo

sostenga favorevole

le nostre ardenti suppliche.

 

Onore, lode e glorïa

al sommo Padre e al Figlïo

assieme al Santo Spirito

nei secoli dei secoli.

Amen.

 

 

Nella solennità di tutti i santi ho tradotto e adattato per il canto un inno del Breviarium Romanum, quello ad laudes, intitolato Salutis aeternae dator. Mi pare sia riuscito bene, anche perché lo abbiamo eseguito secondo un’armonizzazione polifonica molto efficace. Del resto, i tesori che restano celati ai più andrebbero riscoperti e riproposti. È una questione ancora perta quella della traduzione degli inni. C’è spazio, quindi, di manovra. In latino sono perlopiù in dimetri giambici e possono quindi essere resi agevolmente in settenari sdruccioli con accenti di II, IV e VI sillaba, come ho fatto io. I moduli esistono già, sono quelli che nella più che millenaria tradizione hanno esaltato la bellezza del testo latino, lingua non morta, come vuole qualcuno, bensì immortale. 

Riporto pure il testo dell’originale, gioiello dell’innodia.

 

 

Salutis æternæ dator,

Iésu, redemptis sùbveni:

Virgo parens clemèntiæ

Dona salutem servulis.

 

Vos Angelorum millia,

Patrumque cœtus, agmina

Canora Vatum: vos reis

Precamini indulgentiam.

 

Baptista Christi prævius,

Summique cœli Clàviger,

Cum cèteris Apostolis

Nexus resolvant crìminum.

 

Cohors triumphans Màrtyrum,

Almus Sacerdotum chòrus,

Et virginalis càstitas

Nostros reatus àbluant.

 

Quicumque in alta sìderum

Regnatis aula principes,

Favete votis supplicum,

Qui dona cœli flagitant.

 

Virtus, honor, laus, gloria

Deo Patri cum Filio,

Sancto simul Paràclito,

In sæculorum sæcula.

Amen.

 

 

Ho tradotto, come accennavo più sopra, ma ho anche riadattato, come ho detto, perché il canto ha bisogno di un testo rispettoso degli accenti grammaticali, in italiano, laddove in latino la prosodia si basa sull’alternanza di sillabe lunghe e brevi. Non m’interessano, in questa sede, discorsi troppo tecnici. Insomma, un discorso che andrebbe ripreso e affrontato senza vincoli ideologici. Il canto è canto e la preghiera cantata ne è una sublimazione. A ogni modo, propongo dell’inno pure una traduzione sempre ritmica, ma più fedele alla lettera dell’originale.

 

 

Gesù, che dai agli uomini

salvezza eterna, aiutali;

clemente Madre Vergine,

dona ai fedeli grazïa.

 

Beate schiere d’Angeli,

antichi Padri biblici,

Profeti dell’Altissimo,

pregate per i miseri.

 

Giovanni, il cui battesimo

di cristo fu preannuncïo,

Pietro e tutti gli Apostoli

le nostre colpe sciolgano.

 

L’esercito dei martiri,

la schiera dei presbiteri,

il coro delle Vergini

le nostre macchie lavino.

 

Chiunque di voi abita

nel regno dell’altissimo

sostenga favorevole

le suppliche degli uomini.

 

Onore, lode e glorïa

al sommo Padre e al Figlïo

assieme al santo Spirito

nei secoli dei secoli.

Amen.

 

 

Non dico che sarebbe da riprendere l’inno sacro di Manzoni dedicato a Ognissanti; però, un pensiero ce lo si dovrebbe fare seriamente, un pensiero alla traduzione degli inni intendo. Se ne è discusso tanto, a volte anche inutilmente. Chissà. Se mai avrò tempo, potrei provare anche a dedicarmici. Per il momento, mi metto in cammino con questo piccolo saggio.

 

 

 

© Federico Cinti

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Altro indovinello

 

In un angolo muto, dove il grigio

lascia il segno, m’accoccolo. Non altro

chiedo che una carezza mi riscaldi

appena. All’uggia

 

languida dell’autunno appendo rare

ombre di sogni. Evapora nell’aria

rapido il mio sospiro nella sera

inconsistente.

 

Fine o confine? Tra le quattro mura

esisto. Ormai si è spento il focolare

rosso di vita vera. Il tempo fugge,

oblio d’un giorno.

 

 

Nell’aria un filo di dolcezza, simile a quella «del caldo buono» di Ungaretti (Natale, 18) o di Virgilio, quando canta «e fumano i tetti di già delle case vicine / e dalle cime dei monti cadendo si spandono le ombre» (Ecl., I, 82-83), o ancora di Dante assorto nell’«ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core» (Purg., VIII, 1-2). Tempo di nostalgia, forse, nello scendere lento della sera, anche se avrei voluto essere più lieve. Già, avevo in mente un indovinello, non una serie di citazioni così serie. Ma tant’è. Se mi fermo a riflettere troppo, decanta in me la tenerezza leggera di tanti che mi hanno preceduto e di altri che – spero – mi precederanno.

Un indovinello, tutto qui. In questa «soave ora che il sol morituro saluta»… accidenti, ci ricado: non era mia intenzione richiamare alla memoria anche Carducci (Nella piazza di San Petronio, 3)! Devo proporre il mio indovinello, la cui risposta è già contenuta nel testo. Sì, ma vallo a spiegare ai miei ventiquattro lettori, non uno di più: non ho certo la pretesa di paragonarmi a Manzoni. Anch’egli si dilettava e non poco, nel suo studiolo di Brusuglio. Tuttavia, sia chiaro, non pretendo tanto. Mi piacerebbe solo un filo di simpatica ironia.

Ecco, l’indovinello. Non è più che un oggetto di casa, un oggetto comune, nascosto tra le cose quotidiane, di quelle che danno tanto calore. Il resto lo lascio alla fantasia di chi ne sa più di me. Io mi limito a proporre. Se fosse la “Settimana enigmistica”, beh… avrebbe pure un senso. Ma così? Chissà. Avevo letto, una volta, in Huxley, «Era una miniera di informazioni superflue e di buoni consigli non richiesti». Forse posso anche finirla qui e attendere che qualcuno sveli l’arcano.

 

 

© Federico Cinti

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Auguri a Novello

 

Nel cielo aria di festa, ali sospese,

Ombre di sogno labili in cui il cuore

Veglia tra mille, indefinite attese,

E riscopre la vita, antico fiore

 

Lasciato lungo il ciglio, a metà mese,

La metà esatta, a luglio, in un chiarore

Opalescente, lievi voci arrese,

Buoni dolci propositi, sapore

 

Amico, tempo che oggi fa ritorno.

Lo sai, lo so, Novello, due parole,

Due o poco più, per fare da contorno,

 

Oggi che brilla limpido il tuo sole,

Novello, oggi ti faccio, nel tuo giorno,

I miei auguri, un po’ come Dio vuole.

 

 

Non ama Novello che io aggiunga la prosa a corredo della poesia, come già fece il buon Dante nella Vita Nuova: sostiene che è un di più, che guasta in qualche modo la limpida purezza della poesia. D’accordo con lui, come sempre; peccato, però, che i miei restanti ventiquattro lettori siano d’opinione totalmente opposta, se è vero che la trovano un degno complemento al ritmo dei versi e «alla mesta armonia che li governa», per citare uno dei suoi autori. Suoi di Novello, ovviamente, anche se il suo preferito resta sempre e solo il conte Leopardi. Anche a me stanno molto a cuore Foscolo e Leopardi, intendiamoci; ma Pascoli alle volte mi comunica di più.

Queste sue preferenze le ha sempre propalate coram populo , ex cathedra, già al liceo, al magnifico Minghetti di Bologna. Lo conobbi lì: era mio esimio professore di lettere. Forse esimio non gli piacerà molto, ma tanto so che non leggerà queste mie poche righe e godo quindi della più ampia parresia. E poi, come sempre ripeto, bisogna temere non quel che dico, bensì quel che non dico. Il resto sono chiacchiere da bar, così soavi e rilassanti. Si impara molto dal nulla altrui, come gli altri imparano dal nulla nostro. Reciprocità, forse, o semplice eterogenesi dei fini. Di solito, chi la spara più grossa ha il maggior credito: è una legge di natura.

In tal modo il rito degli auguri è stato espletato. A metà luglio non riesco a fare di meglio. E si badi che è proprio la metà esatta, perché il mese è di trentun giorni. Probabilmente Novello non ci ha mai fatto caso. Io sì, perché anche gennaio è messo allo stesso modo, con me  che compio gli anni il 16. Coincidenze, se esistono, trappole montaliane per i meno attenti in fondo all’aula. Succede, per l’amor di Dio: cadere nel punto morto dell’universo non fa piacere a nessuno. Domani ci si attrezzerà. Intanto, faccio ancora i miei migliori auguri a Novello.

 

 

© Federico Cinti

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