Muto il portico gelido di marmo
addobbato di festa,
una vetrina dopo l’altra. Resta
recondito un pensiero
indicibile, vivido un ricordo.
Zampilla un filo pallido di sole
in lontananza, il riso
opaco di quell’ultimo sorriso.
Mesta la via nell’ora
attardata nel giorno
nuovo nel tempo senza più ritorno.
Tutto fugge così, perso in un punto
evanescente al vertice in cui l’occhio
crede alla convergenza parallela.
Così fu. Sarà ancora.
Ha il tempo il rito dietro cui si vela
il senso. Un’illusione
non già. La vita giace
in quest’attimo fragile di pace.
Che vuoi mai, Ingegnere? S’annulla il tempo. Questo lo si impara a proprie spese e non perché non si voglia credere agli altri. A me è capitato così, almeno. Il tempo non è gratis per nessuno. Si prova a far finta di nulla: è umano, troppo umano. Poi, naturalmente, il pensiero ritorna sempre «colà dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 33-34), al tarlo che ci scava e ci divora. Ricordi, tutto qui, oggi soprattutto che siamo anestetizzati dalle memorie artificiali per non essere più padroni del nostro passato e del nostro futuro. Tutto si condensa nell’evanescenza rapida di un’immagine virtuale. Il reale è fuggitivo, come la vita che lo abbraccia. Ciò che è mio è con me: lo confessava candidamente Stilpone di Megara a Demetrio Poliorcete. Non c’è bisogno che io ti richiami alla mente il De constantia sapientis (V, 6 in particolare) di Seneca.
In un giorno come questo, di nebbia o poco più, resta solo la certezza di ciò che materialmente non si possiede più. Forse non è nemmeno così poco, a rifletterci bene. Mi rivedo, ormai non so più nemmeno quanti anni fa, sotto il pergolato della casa alla Venturina a discettare con te e con Maurizio dei massimi sistemi, una calda domenica di fine agosto. Ci si era tutti. Che strano effetto mi fanno, adesso, quel tepore e quel sapore, languidi come tutto ciò che si sa di avere avuto e di non avere più. E la sua voce acuta, sì, quella voce tutta particolare, soprattutto al telefono. «Prontoooo!». Non è solo per ridere che ce la si ripeteva e gliela si ripeteva. Oggi sa di dolcezza malinconica, come la cupa fine d’autunno, dal «tedio che dura infinito» (G. Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno, 60). Ma non è la noia «in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani» (G. Leopardi, Pensieri, LXVIII).
Anche al tè delle befane si metteva sempre di fronte a me, dal lato corto del tavolo ovale, tra il pianoforte e il presepe. Era là, a tenere banco, tra gli amici di una vita. ora la sua seggiola è vuota, come purtroppo tante altre. Solo il ricordo non muore mai, Ingegnere. La poesia ce lo rammenta da sempre: pulvis et umbra sumus (Orazio, carm. IV, 7, 16). Farsene una ragione è quasi impossibile, almeno per me. Il filo di sole che, a un tratto, s’apre tra le nuvole, ecco, questo sì mi dà speranza che questa condizione non sia vana, ma segno di qualche cosa di più grande. Non è retaggio antico, consegnataci da chissà chi e per chissà che motivo. Lo si impara, anche questo, a goccia a goccia, a volte per intuizione diretta.
Eppure, Ingegnere, non voglio annoiarti. Forse già l’ho fatto, ma la scrittura è così: o la si ama o la si schiva. Il domani già bussa alla porta. Fermarsi a pensare è pericoloso, nel logorio del silenzio interiore, mentre tutto all’esterno sembra indifferente. Potrebbe pure esserlo, se non ne facessimo parte. Oggi sarebbe uno di quei giorni da cancellare o da saltare. Invece, ci si sente buttati là, «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata» (G. Ungaretti, Natale, 9-13). Per sorridere un po’, come ogni tanto si fa, ripensiamo ancora alla domanda fatidica di Maurizio: «Ma che fine hanno fatto i farisei?». Me la ripetesti, in casa di Elena, precisamente nella cucina. Il tuo tono era perplesso. C’era pure l’amico tanto strano con noi, quell’amico che poi si è perso e non abbiamo capito nemmeno perché. Eppure, quella domanda così bizzarra adesso non mi pare più così particolare. È un pezzo del mosaico che è andato in frantumi il 10 dicembre dell’anno scorso e che faticosamente, diciamolo pure, si tenta di ricostruire, tassello dopo tassello, per farne parte di noi.
© Federico Cinti
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