A me stesso nel giorno dei miei anni

 

Fu uno scorrere rapido, fui io

e non altri. Sarò. Sul promontorio

dei secoli impassibile m’avvio.

 

Equilibrio impossibile. Aleatorio

resistere. Proseguo sul cammino

iniziato, oltre Inferno e Purgatorio.

 

Contemplo ciò che sono, pellegrino

onirico di un’epoca imperfetta:

chiamo il mio nome, avverto il mio destino.

 

Io, fui io, non sarò. Per la via stretta

non indugio in inutili fermate.

Tengo un capo del filo. Sulla vetta

 

il suo viso, la lirica d’un vate.

 

 

Mi trovo anch’io sul «promontorio dei secoli» (Manifesto del futurismo, 8), come il vecchio Marinetti. Chissà, volgersi indietro a volte è pericoloso: non ci si riconosce più. anche le foto tradiscono nel loro nitore. Un sorriso, sì, una smorfia o una posa plastica. Nulla più, nemmeno una parola. Eppure, il pensiero fluttua, informe, al di là della gravità che porta con sé. L’etimologia di solito rovina, senza pietà. E così è volgersi indietro, alla ricerca d’un senso, quando lo abbiamo davanti a noi, nel riflesso degli istanti che viviamo. Giorno per giorno, certo, inconsciamente. Meglio non accorgersene: si fa meno fatica a liberarsi di «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, 12). Siamo così, come crediamo d’essere, in una sorta di eterna proiezione di noi e del tutto. Il paradosso sta nello scoprirsi pensabili, ma non conoscibili, apparire e non essere. O, meglio, essere senza sapere chi si sia veramente. A un certo punto ci se ne rende pure conte. E forse è troppo tardi per qualsiasi rivalsa. Prendere o lasciare: tutto qui. Noi avanziamo verso la vetta, su quel promontorio tra rottami e macerie. Finché viene il giorno, benedetto giorno, in cui crolla un filo di vento e tutto ci appare come deve essere.

Ecco, per me l’anno comincia oggi. Va bene, lo concedo, ricomincia. Il moto circolare ci si addice perfettamente, se è vero che ci si ritrova sempre allo stesso punto. Non che mi dispiaccia, intendiamoci: siamo e qui e vogliamo pure restarci. Ma il fatto è che ci si sente addosso una responsabilità sempre maggiore, soprattutto adesso che i grandi siamo noi. Un tempo era diverso: si demandava, al riparo di non si sa nemmeno chi. Non sembrava difficile: era sempre stato così e così sempre sarebbe stato. Adesso decidiamo noi l’an e il quantum. Ci si augura vada bene. Abbiamo di che essere preoccupati, pur nella consapevolezza che possiamo attingere solo alla rappresentazione. Altri ci conforteranno se la scelta sia stata quella giusta. Si sale, ecco, «da l’infima lacuna / de l’universo» (Par. XXXIII 22-23) fino al punto più sublime. Nemmeno da lì vale la pena di volgersi indietro, che varrebbe poi volgersi indietro. Così almeno mi pare.

 

 

 

Preferisco darmi qualche piccolo proposito, magari buono, per il tempo a venire, che tra un anno mi riporterà sempre a questo punto, a fare bilanci. Non mi lamento, no. Avrebbe potuto essere più proficuo, ma tutto è sempre perfettibile: lo sappiamo. Mi sento fiducioso, questo sì: ho come la sensazione che certi nodi debbano sciogliersi. Tra tanta lirica, immagino, il viso amato emergerà tra mille, infiniti altri. Allora sì che sarà il giorno della festa. Fino ad allora navighiamo in questa sospensione. Una pagina, una voce, una parola. Ci si può pure accontentare di poco per dare vita a quadri di una notevole sensibilità. Non occorre tanto per accorgersi di quanto sia semplice cogliere il frutto a portata di mano. non lo si vuole ammettere, ecco. E l’anno corre, il tempo va, anche se sappiamo essere immobile. Sì, ammettiamolo una buona volta: siamo noi a correre. Che poi, questo me lo devono ancora spiegare, dove si corra, beh… nessuno lo sa. Si va, spinti in avanti o indietro.

Oggi resto qui, senza altro fare che dedicarmi un poco, non tanto, ma solo un poco a me stesso. Scrivo di me, di quel che vorrei fare e non vorrei fare. La poesia mi piace, questo è ovvio. La prosa mi spaventa alquanto: difficile da governare. Tutti affermano il contrario. Io vado controcorrente. Chi se ne importa. Andate, andate pure: solo chi si dedica alla poesia, ne sono convinto, può azzardare a mettere mano alla prosa. Chissà, forse quest’anno lo farò. Non che io non lo abbia già sperimentato; ma così, tanto per fare, per provarmici. Sarò più sistematico, a tavolino, come i grandi scrittori che in altro non s’ingegnano. Qualcosa verrà pur fuori. Qui, «sul promontorio dei secoli», ci si spingerà ancora più in là, a contemplare l’infinito e ignoto mare. tutto è navigazione, ce lo hanno ripetuto fino allo sfinimento. Me lo ripeto pure io, in questo specchio in cui pian piano mi sto calando, riflettendo me stesso e su me stesso. È pure sempre l’attimo in cui cerco di fermarmi su di me, quel nulla che è stato e che sarà. Sul presente non posso mai garantire. Posso dire solo che l’anno prossimo, di questo giorno, festeggerò il successo.

 

 

© Federico Cinti

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Pensiero a un amico

 

Alba di perla pallida, il pensiero

disegna sogni nuovi. Nei precordi

cupo il rimbombo assiduo del mistero.

 

Inizio e fine, il ciclo dei ricordi

chiude e riapre. In fondo scorre il fiume,

eco lontana di mille echi sordi.

 

Ride un raggio. Nel labile barlume

ombre non viste mai, qualche rovina

nuda tra le macerie, tra le brume.

 

Esule in terra, l’anima sconfina

memore di che fu. Nulla dintorno,

non altro oltre la fragile mattina.

 

Arcana vanità, solo il ritorno

tenue di ciò che dicono sepolto,

un tempo senza età, l’orma d’un giorno

 

mirabile, il sorridere d’un volto.

 

 

Rito d’un giorno eterno che ritorna, nel tempo che in fondo altro non è se non memoria. Inutile volgersi avanti, ovviamente, se non ci si volge indietro. Perché conoscere è riconoscere. Triti pensieri, certo, già detti e già sentiti; eppure, come il sole, si riaffacciano prepotenti, memorie di memorie. sul piccolo nostro segmento l’idea della retta infinita, del prima e del poi. Si torna sempre a quel presente che non c’è, fuggitivo nel riso beffardo di quei soles che occidere et redire possunt (Catullo, carm. V 4). Mi sento il don Camillo che cammina all’infinito sul cerchio e se la prende con i numeri (G. Guareschi, Le lampade e la luce). Disegni della mente, non credo siano più che questo, un fatto di linguaggio, per non dire di rappresentazione. Un punto, ecco che cos’è, soltanto un punto che vaga. E noi lo seguiamo, come s’insegue tutto ciò che si desidera, ma non si può afferrare.

Ora, perché nel giorno del compleanno di Cicerone, questo benedetto 3 gennaio, io mi metta a parlare di qualche cosa che non esiste, il tempo esattamente, proprio non lo so. ne parlo, tutto qui, come di certe nostre fantasticherie sull’orlo del giorno, quando un filo di sole pare un miracolo dopo le tenebre d’una notte intera. Sogno anche quello, forse, anche quel raggio multiforme. Chissà, forse il volto di quel Marco Tullio che tanta parte ebbe dal ginnasio in poi nel mio breve torno d’anni. Ha qualche cosa in sé che altri non hanno. Lo leggo e lo rileggo, ma non arrivo mai al fondo, sempre che ci si possa arrivare. Si affermerà pure di tanti altri, ma Cicerone… ecco, Cicerone ha un quid pluris inarrivabile.  

Non so quante volte l’ho ripetuto al mio amico Ingegnere. Lui inclina verso altri ricordi, verso altri lidi memoriali: ognuno ha le proprie derive è inevitabile. Anche questo è divenuto rito. Oggi verrà ad limina, così da inaugurare l’anno nuovo. Io ricorderò dei miei, lui dei suoi. La sua sarà una concione in piena regola, il mio un tinnulo sorridere di bimbo. Eppure, i due avvenimenti sono in qualche modo collegati, stretti da un filo che oserei chiamare logico. Alle volte, per uno strano gioco combinatorio, ci si trova complementari, nel solito similes cum similibus facillime congregantur.

«Non poteva che essere così», tuonerà veemente, col suo piglio oratorio.

«Non poteva, di certo, non poteva», gli farò eco io, come già tante altre volte, appoggiandomi sullo schienale a guardare in alto.

«Nei corsi e nei ricorsi storici», chioserà vichianamente, «il senso si attua solo nel ciclico ritorno». Lo fisserò incredulo, pensando più a Nietzsche che al povero secentista napoletano. Eppure, le fusioni mi piacciono, anche se non azzarderò l’aggiunta del tassello virgiliano della IV Ecloga.

«Non credi che, se posto su assi cartesiani, questo strano geoide», continuerà mimando con le mani una sfera imperfetta, «assumerebbe la valenza paradigmatica di un corpuscolo metamorfico in perenne movimento su se stesso e attorno all’universo intero?», per chiudere nel compiacimento d’un sorriso.

«È ovvio che io lo creda», lo rassicurerò, pur vedendo davanti a me solo un foglietto bianco con una croce macchiata da una goccia di caffè. Anche perché, il motivo vero per cui viene con Elena, la pazientissima moglie, è poi collaudare la nuova moca, presa nel negozietto di fiducia sotto casa pietendo un po’ di sconto.

 

 

 

Con la tazzina in mano penserò al buon Cicerone, senza farne parola con nessuno. Anch’egli, come è noto, vagò per gli spazi siderali, se è suo il somnium Scipionis. Per me non lo è: non è il suo stile. Provai a suggerirlo anche a una collega, un giorno, e mi rispose risentita: «Ah, no, anche questo adesso!». Ecco, impossibile pensare da soli, al di là di quel che libri compilati da qualche ignoto estensore propalano agli ignari banditori del sapere. Sì, così, io penserò a Cicerone, mentre si consumerà qualche fetta di crostata o la torta di riso, cui anche io – non so come – ho collaborato a realizzare. Mi resterà, come già mi restò, davanti agli occhi il volto di quel genio della parola. Chissà, un inconsapevole gioco di specchi in cui l’uno è nel tutto e tutto nell’uno.

 

 

 

© Federico Cinti

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Buon Natale!

 

Buio nel cuore, buio in tutto il mondo.

Una luce rifulse in un vagito,

orma d’eternità, nel più profondo.

 

Nell’anima un sorridere inaudito,

nella notte un chiarore, oltre la siepe

attorno uno stupore d’infinito.

 

Tremule le auree stelle, tra le crepe

azzurre schiere angeliche, una culla,

la paglia della stalla nel presepe,

 

eterea nel silenzio una fanciulla.

 

 

 

Tutto già è stato raccontato, ma mai veramente il ripetersi di quello stupito miracolo di cui oggi si fa memoria. Buio in tutto il mondo e a un tratto un vagito. Il nuovo fiat lux a rigenerare il mondo. Il senso scava lento dentro il cuore, distilla a goccia a goccia. Eppure, resta qualche cosa. In questo giorno è già una luce nuova, non c’è dubbio. In noi si chiude e s’apre qualche cosa d’indefinibile. Non dobbiamo essere noi a capire: occorre solo farsi trasportare da quell’indecifrabile mistero. Incute timore, certo: ci si spaventa davanti a ciò che non si conosce.

È la forza del presepe, di un luogo fuori del tempo e dello spazio. realtà e contemporaneamente simbolo. Per noi pure vale lo stesso. Fermarci su quella soglia implica il nostro accettare il limite, ma anche la nostra ragione può affermare che «coi piè ristetti e con gli occhi passai / di là» (Purg. XXVIII 34-35). Di nuovo il roveto ardente si fa visibile nel volto che «mi parve pinto de la nostra effige» (Par. XXXIII 131). Uno specchio, nulla di più, lo specchio in cui vediamo le realtà ultime, i novissimi, così come sono, perché in esso «vedi le cose contingenti / anzi che sieno in sé, mirando il punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 16-18).

Ecco, anch’io stamattina mi sono fermato su quella soglia, sul piccolo presepe della nostra parrocchia e mi sono ritrovato nel silenzio pensoso di chi non ha bisogno di altro per appagare la propria sete, non tanto diversa poi dalla «sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / samaritana domandò la grazia» (Purg. XXI 1-3). Non ci si può non soffermare a riflettere, come allo specchio appunto, nella penombra d’un giorno in cui il sole invitto fa mostra di sé nel suo bagliore più autentico, di bimbo appena nato, a ricordarci chi siamo e per che cosa siamo fatti.

 

 

© Federico Cinti

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Sisi, «Abschied von Ithaka» – «Addio a Itaca» (Winterlieder))

 

«Azzurro il cielo, azzurre le montagne,

ma più di tutto quanto azzurro è il mare»;

E Itaca, cui il sole fa corona,

dalle onde azzurre adesso mi saluta.

 

Già il Grifone mi porta via lontano

dal rosso intenso della tua scogliera;

e mi accompagna sempre il tuo profumo,

in altre isole ignoto, solo tuo.

 

In un soffio sfuggisti alla mia vista

nascosta da altre isole dintorno;

eppure, nel profondo del mio cuore

s’impresse la tua immagine di sole.

 

Così voglio portarmela con cura

nel freddo Nord lontano, via lontano.

Tu, nei nevosi giorni deprimenti,

col sole sii il conforto del mio cuore.

 

 

Nulla vale il silenzio d’un addio. Sisi lo sapeva bene, nel suo instancabile vagabondaggio di gabbiano senza patria, senza nido. In questo giorno di vigilia natalizia, in questo 24 dicembre, in cui avrebbe spesso preferito celebrare il suo compleanno lontano dai fastigi della corte viennese e dal suo rigido cerimoniale spagnolo, provo a renderle un piccolo omaggio. un’ulisside anch’ella, in perenne fuga da se stessa e dal mondo, sospinta altrove, sempre altrove: il senso del viaggio, lo sapeva bene, è nel viaggio stesso, non nella meta. Per lei valeva il sogno, non la sua realizzazione. Andare, tutto qui: questo contava per lei e questo fece da un certo punto della sua vita in poi, quando tutto cominciò a pesarle, da cui la lirica da me tradotta èpresa. Anch’ella, come il figlio di Laerte,  «baciò quella petrosa Itaca» (U. foscolo, A Zainto, 12), ma senza fare ritorno ad alcun luogo.

Amò il distacco, l’abbandono, il nascondimento. Tutto sfioriva all’ombra dei ricordi, colori, odori, sensazioni, per rinascere ed eternarsi in poesie d’una struggente malinconia. Alle spalle si lasciava un’isola e assieme a essa tutto l’universo. Un suono, una carezza, l’azzurro del mare, il rosso della scogliera, l’oro del sole, tutto diveniva un crogiuolo d’indefinibile nettezza. In quell’addio la consolazione in un tempo di gelo e inerzia. Con un animo tale compose i Winterlieder, i Canti d’inverno, il secondo libro del suo Poetische Tagebuch. Con un animo tale guardò l’ultima volta Itaca, rossa nelle sue scogliere, uscire dall’azzurro del cielo, dei monti, del mare.

Anche per lei fu così, un’altra volta, eternamente, «che dolci sogni mi spirò la vista / di quel lontano mar, quei monti azzurri / che di qua scopro, e che varcare un giorno / io mi pensava» (G. Leopardi, Ricordanze, 21-24), anche se quelle montagne, «dopo varcate, / sì grande spazio di su voi non pare, / che maggior prima non lo invidïate» (G. Pascoli, Alexandros, II 16-18). Nulla sarà di ciò che non è stato: il sogno vive di per sé, comunque, oltre la linea tremula del mare. questa, forse, la consolazione nei giorni candidi di neve, nell’inerzia cristallina del non essere o de non essere più. questo, forse, l’addio, l’ultimo addio dal mito per entrare nella storia.

Per i cultori della lingua tedesca riporto, more solito, l’originale, perché il significante restituisca all’orecchio la sostanza fonica che nella resa si è talvolta plasticamente mutata in altro suono, in altra voce, in altro sguardo. Il mio sguardo, la mia voce, il mio suono, distanti nel tempo e nello spazio, ma non nel cuore, ancora su quel panfilo, su quel Grifone o Grief che solcava silente il Mediterraneo. Così di nuovo, «per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno» (Purg. I 1-2), verso un’altra isola, verso un’altra poesia.

 

Abschied von Ithaka.

 

«Blau ist die Luft, blau sind die Berge,

Am blausten aber ist das Meer»;

Und Ithaka, die sonnbekränzte,

Winkt aus den blauen Wellen her.

 

Schon trägt der Greif mich weit und weiter

Von deinem roten Felsgestad;

Und immer noch ist mein Begleiter

Der Duft, den nur dein Eiland hat.

 

Bald bist du meinem Blick entschwunden,

Durch neue Inselreih’n verdeckt;

Doch tief in meinem Herzen unten

Hat sich dein sonnig Bild versteckt.

 

So will ich’s sorgsam weiter tragen

Weit in den kalten Norden fort.

Sei dann in schneebedrückten Tagen

Mein Herzenssonnentrost auch dort!

 

 

© Federico Cinti

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All’Ingegnere

 

Antichità dell’attimo, ritorni

lento, eppure affrettandoti, sul muto

limitare dei secoli e dei giorni.

 

In questo, non in altro, è l’assoluto,

nello scorrere rapido d’un fiume

giunto placido all’ultimo saluto.

 

Eterno è il tempo. Al lampo d’un barlume

galleggia il senso naufrago ormai sazio:

nulla si perde, tutto si riassume.

 

Era un pallido sogno anche lo spazio

raffigurato, un piano cartesiano

emerso tra le trame d’uno strazio.

 

L’occhio discerne un universo vano,

un’ombra in mezzo alle ombre sulla via;

cala il silenzio al cenno d’una mano

 

assorta: resta solo la poesia.

 

 

inesausto il dialogo continua, anche a distanza, seppure virtuale. Ci si è pian piano abituati a guardare al di là dello specchio, d’acqua o di vetro poco importa, oltre i cristalli liquidi, tanto che non sappiamo più «chi va o chi resta» (E. Montale, La casa dei doganieri, 22). Esserci è tutto. Il tempo s’è fatta pia illusione di un «Oceano senz’onda» (G. Pascoli, Alexandros, I 7), immobile nello scorrere frenetico. Solo così può attuarsi il festina lente, scelto non a caso da Aldo Manuzio (il delfino per il primo e l’ancora per il secondo), come emblema per le sue edizioni che resistono ai secoli più del fragile cascame tipografico quotidianamente gettato nei maceri. La realtà è più ossimorica della rappresentazione verbale che s’affanna a sanarne le contraddizioni, spesso apparenti. Il mio amico Ingegnere ne è più consapevole di me, o almeno lo dà a intendere, sempre con gli occhi al cielo a fissare gli aerei, una delle sue irrefrenabili passioni.

Il tempo non esiste. È un ritaglio più o meno riuscito dell’infinita serie dei secoli. Non nascondiamocelo. È una rappresentazione del mondo. Oggi si tende a obliterarlo, ricercandone la radice. Sarà la velocità della luce a determinarlo? Ma se non esiste, come si fa a registrarne il passaggio. Parlo sempre del tempo, certo. Se ciò che fu e simile a ciò che sarà, se insomma penso il passato e il futuro, come posso conoscerlo, se lo intuisco appena nel momento in cui muore, che – tra l’altro – è lo stesso in cui nasce? Sì, il tempo non esiste: è esistito, esisterà, ma non esiste. È un fiume immobile. Gli antichi lo sapevano bene e ne circondavano il mondo nella loro ricerca di senso: c’era un limite oltre cui tutto era inghiottito, «abisso orrido, immenso, / ov’ei precipitando, il tutto oblia» (G. Leopardi, Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia, 35-36). Forse perché il tempo è antico come è antico il mondo.

 

 

 

Mi stringo nelle spalle, il mio amico Ingegnere lo sa. Non oso dirgli che pure lo spazio esiste solo come immagine. Sublime immagine, intendiamoci, ma pura immagine, soprattutto nel momento in cui si vuole obliterare la dimensione metafisica. Oltre la fisica, oltre il dato empirico, è ovvio, rimane il mistero inconoscibile: «le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (Par. I 103-105). Chissà, se così si sana la dicotomia tra fenomeno e noumeno: in Dio immagine riflessa, riflesso stesso e specchio coincidono con la cosa in sé, il principio ontologico. Mettiamolo pure su assi cartesiani, diamone pure le coordinate sul piano e nel suo perpendicolo. Dov’è lo spazio? forse esiste solo perché ne abbiamo tracciato i confini, il perimetro, abbiamo cercato di misurarlo. Ma dove inizia e dove finisce? Se non avessimo posto il punto al centro dell’ipotetico foglio, lo spazio non ci sarebbe. Lo abbiamo inventato noi per dissetare l’arsura di conoscenza che ci divora. Esiste forse il vuoto, ecco, attorno a quel punto. Ma è poi vuoto sul serio? Illusione, direbbe il buon Leopardi, ragionando sulla materialità dell’infinito e sull’infinità materiale.

 

 

 

Mi sa che resta solo la poesia, linguaggio dei linguaggi, parola creatrice per eccellenza, quella che aleggiava sulle acque prima che fossero separate dalla terra. Mito o realtà? E chi può affermare con certezza l’infondatezza del primo e la sicurezza della seconda? Anche il mio amico Ingegnere farebbe uno dei sorrisi dei suoi, per dimostrarmi che è solidale, che ha compreso il nocciolo della questione. Ed è vero: sa sempre tutto. Mi verrebbe da rispondergli, sospirando: non equidem invideo, miror magis (Virgilio, Eclogae, I 11), ma poi lascio perdere. Non è il caso, lo so: mi perderei solo in quella «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5) che altro non è, se proprio si vuole insistere, se non «la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2), dove aleggia cantando e scegliendo fiori Matelda, la felicità originaria, che pure non bastava a dare il senso ai progenitori e nemmeno agli ultimi degli ultimi nipoti. insomma, in questo giorno di ritorni, il tempo pare fermarsi in uno spazio che non esiste, con buona pace di sant’Agostino cui nemmeno veniva una definizione di tempo, figuriamoci di spazio. resta il poeta, appunto, e la sua poesia.

 

 

 

© Federico Cinti

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Sulle soglie del bosco – Auguri a Elena

 

Esitai. Sul confine dei ricordi

la via su cui smarrirsi o ritrovarsi,

eco di un’eco al soffio dei precordi.

 

Nulla dintorno. I miei pensieri sparsi

al limite del bosco. Tra le foglie

la traccia dell’età, solchi riarsi.

 

Un sogno, tutto qui. Ci si raccoglie

per un altro sorriso. Scorre il fiume

placido. Nello specchio altre ardue soglie,

 

in lontananza l’ombra d’un barlume.

 

 

Non ne so il motivo, ma l’aureo pulviscolo di quest’ottobre così lento «somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto» (G. Leopardi, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare). Ce lo si sente addosso, impalpabile, eppure percepibile, come in un sogno di cui non si ricordi se non d’avere sognato, quando in noi «quasi tutta cessa / nostra visione, e ancor ci distilla / nel core il dolce che nacque da essa» (Par. XXXIII 61-63). E ci si ritrova «sulle soglie / del bosco» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-2), «per una selva oscura, / che la diritta via era smarrita» (Inf. I 2-3), o la «divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 2) del Paradiso terrestre.

Non ne so il motivo, ma non importa nemmeno saperlo. Tutto rientra nell’eterno scorrere del tempo, al di qua o al di là non rileva. Matelda era al di là, «ridea da l’altra riva» (Purg. XXVIII 67), oltre quel «rio, / che ’n ver sinistra, con sue picciole onde / piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo» (Purg. XXVIII 25-27), in un’aura di sogno senza fine, in quella foresta incorrotta che per Dante sarebbe diventata una «selva selvaggia e aspra e forte» (Inf. I 5). Storie di boschi, di selve e di pinete, in quest’autunno che già ha i segni della malinconia incipiente. Poesia, solo poesia, vale a dire vita che si fa trascendenza nel transeunte. Un fiume, tutto qui, in cui non ci si vede riflessi che per una volta soltanto. E di quel fiume resta solo il suono, resta il «fruscio / sottile, assiduo, quasi di cipressi; // come di un fiume che cercasse  il mare / inesistente, in un immenso piano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 11-14)

 

 

 

Ecco, quindi, «sulle soglie / del bosco», l’incipiente autunno, quando «si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie» (Inf. III 112-14), come «tra i nudi sassi / dello scabro apennino» (G. Leopardi, Il pensiero dominante, 29-30), dove l’azzurrità del cielo s’adagia tra gli alberi e le case. Mi ci ritrovo, quasi fosse la mia stagione, mentre i giorni s’accorciano appena appena «e i brevi dì» somigliano a «tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-13), mi ci ritrovo in quest’autunno mite e pallido, simile a una carezza, e mi ci abbandono. Intorno sono favole di antichi miti e storie che si rincorrono negli arzigogoli celesti del vento, portando con sé «la foglia di rosa, / e la foglia d’alloro» (G. Leopardi, Iimitazione, 12-13).

 

 

 

© Federico Cinti

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Giorno d’agosto

 

Assorto il giorno a un soffio di velluto

galleggia. Tutto è immobile: il cammino

in faccia al sole sembra ormai perduto.

 

Ubriaco di luce aurea, il giardino

languisce a un tratto. Voci sulla via

insistono su un vuoto sibillino.

 

Antiche vanità di nostalgia

medita il cuore stanco. In qualche sbaglio

esiste una possibile armonia.

 

Laggiù, solo al di là del vitreo abbaglio

cade il velo invisibile: il segreto

ha senso, si spalanca lo spiraglio

 

impalpabile. Un dolce riso lieto

offre alla vista ciò che sta sepolto

nell’anima. Ovunque si fa inquieto

 

il raggio senza limiti, in ascolto.

 

 

Un soffio obliquo «il sole / in fasce polverose» (G. Pascoli, Patria, 7-8) già di fine agosto, in quel sogno infinito – o indefinito? – che è l’estate. Un incantato stupore, ecco, non molto altro, in questo mare di luce dorata. Inesorabile è il tempo che ci trascorre e trascolora. Non so, ogni volta me ne sorprendo, perché scopro qualche cosa di sempre nuovo in ciò che è sempre uguale. Evocazione e unicità in una fusione che si dà, nonostante la nostra pur misera presenza. Una sorta di eco di un’eco, come ritrovo nelle poesie in cui mi capita d’inciampare ogni volta che le leggo. In quel «sempre un villaggio» (G. Pascoli, Romagna, 1), incipit di una delle prime liriche che ho imparato a memoria, in terza elementare, non posso che risentire due luoghi leopardiani, l’abbrivio dell’Infinito, «sempre caro mi fu quest’ermo colle», e Il sabato del villaggio. Per non parlare dell’«azzurra visïon di San Marino» (Romagna, 4), debitrice chiaramente delle sfumature celesti delle Ricordanze.

Era così l’estate, in un silente guizzo di luce, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (Romagna, 16), quella sospesa intercapedine che altri avrebbe definito «meriggiare pallido e assorto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 1), davanti al miracolo avveratosi, mentre «la mente mia, tutta sospesa, / mirava fissa, immobile e attenta / e sempre di mirar faceasi accesa» (Par. XXXIII 97-99). Solo in questo stato di grazia eccezionale, «a mezzo il giorno, che de le grandi querce a l’ombra stan / ammusando i cavalli e intorno intorno / tutto è silenzio ne l’ardente pian» (G. Carducci, Davanti san guido, 52-56), può cadere il velo di Maya, si può attraversare la linea che separa il fenomeno dal noumeno e accorgersi che «nel suo profondo», proprio lì, «s’interna, / legato con amore, in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII 85-87). Così si può ammettere l’epifania in cui «non bava / di vento intorno / alita» (G. d’Annunzio, Meriggio, 6-8).

 

 

 

Ascolto, tutto qui, quel che succede intorno, nel giardino che circonda casa in un verde che già desidera biondeggiare. È uno stato di grazia, un sollievo dell’anima, come un fiore che spunta inconsapevole. Ogni cosa si dà in questo momento così leggero, in questo evanescente pomario in cui «tolgo e mordo il frutto avventurato / e mi pare di suggere dal frutto / un’infinita pace, un bene, un tutto / tutto l’oblio del tedio e del passato» (G. Gozzano, Il frutteto, 65-68). È l’estate che va, che va e declina a poco a poco impercettibilmente. E io con lei, non dubito. È soltanto il sogno di un’eco che si ripete infinite volte, «nella cava ombra infinita» (G. Pascoli, Alexandros, 59). Ascolto, tutto qui, senza null’altro fare, nell’ora che s’approssima al crepuscolo e che beve le voci lontane in un azzurro siderale.

 

 

 

© Federico Cinti

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La leggenda dell’Almsee («Legende von Almsee») – «Nordseelieder»

 

Strapiombo di dirupi, cime brulle,

e la profondità verde dell’acqua,

su cui la fuga nera delle nubi

trova nel suo riflettersi uno specchio.

 

Un gabbiano vi giunge ad ali tese,

dalle nordiche estreme lontananze;

la lunga strada non ha alcun valore:

lo conduce la forza dell’amore.

 

«Ritornatene in fretta alla tua spiaggia!

Ritornatene subito al tuo mare!

Qui tra le asprezze del paese alpino

solo amaro dolore incontrerai».

 

Si vuole riposare nel canneto

e spiare in tralice il proprio amato;

da lì deve calarsi volteggiando

alto sopra le cime degli abeti.

 

E ripensa, ripensa ai lunghi anni,

in cui tutto, in cui tutto gli donava,

in cui visse e soffrì solo per lui,

sempre pronto a qualsiasi sacrificio.

 

«Ritornatene in fretta alla tua spiaggia!

Ritornatene subito al tuo mare!

Qui tra le asprezze del paese alpino

solo amaro dolore incontrerai».

 

Guarda, ora giunge il piccolo sparviero,

e il cuore batte rapido al gabbiano;

ma il gabbiano indispone lo sparviero

e quest’oggi ne ostacola ogni volo.

 

E la furia sfrenata del suo becco

colpisce dritto il cuore innamorato,

finché, ferito a morte per lo strazio,

non diventa di fredda, dura pietra.

 

«Ritornatene in fretta alla tua spiaggia!

Ritornatene subito al tuo mare!

Qui tra le asprezze del paese alpino

solo amaro dolore incontrerai».

 

Caldo sangue del cuore, rossi cerchi

nella profondità verde dell’acqua,

e l’eco manda un gemito sommesso:

«Una volta che è lì, è lì per sempre!».

 

 

Erano ormai lontani i giorni del «divino soggiorno a Ischl», come ebbe a definirlo Franzi, nell’agosto del 1853, il «divino soggiorno» dell’incontro e del fidanzamento, quando Sisi compose questi versi. Dopo più di trent’anni – siamo nell’agosto del 1885 a Ischl – di matrimonio nulla o quasi era più intatto, se non forse il trasognato ricordo del ventitreesimo compleanno dell’imperatore, il 18 agosto, e la benedizione con acqua santa del parroco della piccola cittadina termale, alle 11 del 19 agosto, presso cui si erano recati per scambiarsi le reciproche promesse di matrimonio. Da allora in poi la villa imperiale avrebbe avuto la forma di una «E», in onore di Elisabeth, nome di cui Sisi era diminutivo.

 

 

 

Sisi non era più la ragazzina intimorita di quei giorni estivi. Il gesto della zia Sofia, futura suocera, di cederle il passo all’ingresso della chiesa, ligio al cerimoniale di corte spagnolo, unica legge della famiglia imperiale, non l’avrebbe lasciata indifferente come quel giorno luminoso. Ormai, Sisi era il gabbiano in continua fuga dal mondo e da se stesso. Era sì imperatrice d’Austria, apostolica regina d’Ungheria etc., come iniziava il suo lungo titolo nobiliare, ma era soprattutto una donna infelice contro cui il destino non aveva ancora smesso d’accanirsi. Era finita per sempre «la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 29-31), l’amore che era stato promesso eternamente.

Il gabbiano, die Möve, ritorna dal Mare del Nord al lago incantato di Alm, dove l’attende der klein Sperber, il piccolo sparviero, per straziarle il cuore innamorato. Di nuovo, senza pietà, Caesar […] accipiter velut (Orazio, carm. I 37, 16-17) macchia le acque limpide di puro sangue. Eppure, il gabbiano fugge, fugge ancora e per sempre da quell’animale così piccolo e così molesto. Resta lo strazio di un cuore infranto che, per sopravvivere alla contingenza e alla storia, si deve fare freddo come il metallo e duro come la pietra.

 

 

 

Restano le acque del lago austriaco di Almsee a narrare gli eventi. Questa lirica è la prima di quattro, disposte in successione, nello scrigno segreto dei Nordseelieder (Canti del Mare del Nord), primo dei tre libri del Diario poeticoDas poetische Tagebuch – di Sisi. Anche se non è letterale, credo la mia traduzione colga il profondo senso poetico di questa confessione così amara e distaccata, una vera e propria leggenda che respira ancora tra quei monti incantati, in cui la verde profondità dell’acqua si fa specchio al nero delle nubi.

 

 

 

Di seguito l’originale tedesco:

 

 

Steile Wände, kahle Zacken

Und ein Wasser, tief und grün,

Wo sich schwarze Wolken spiegeln,

Wie sie ernst darüber zieh’n.

 

Eine Möve kommt geflogen

Von dem fernen Norden her,

Achtend nicht des weiten Weges;

Denn die Liebe führt sie her.

 

«Kehr’ zurück zu deinem Strande!

Kehr’ zurück zu deiner See!

Hier im rauhen Alpenlande

trifft dich doch nur bitt’res Weh!».

 

In dem Schilfe will sie rasten

Und nach dem Geliebten späh’n,

Dorten muss er niederkreisen

Über jenen Tannenhöh’n.

 

Und sie denkt der langen Jahre,

Wo sie alles ihm geweiht,

Nur für ihn gelebt, gelitten,

Jedes Opfers froh bereit.

 

«Kehr’ zurück zu deinem Strande!

Kehr’ zurück zu deiner See!

Hier im rauhen Alpenlande

trifft dich doch nur bitt’res Weh!».

 

Sieh’, da kommt der kleine Sperber,

Und ihr Herz schlägt höher auf;

Doch sie ist ihm ungelegen,

Hindert heute seinen Lauf.

 

Und den Schnabel unbarmherzig

Stösst er in ihr liebend Herz,

Dass es, bis zum Tod getroffen,

Fest erstarrt zu kaltem Erz.

 

«Kehr’ zurück zu deinem Strande!

Kehr’ zurück zu deiner See!

Hier im rauhen Alpenlande

trifft dich doch das schwerste Weh!».

 

Warmes Herzblut, rote Kreise

In dem Wasser, tief und grün –

Und das Echo wimmert leise:

«Einmal hin, ist ewig hin! ».

 

 

 

© Federico Cinti

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Auguri ad Anna

 

Attesi sulla via. Di nuovo il giorno,

nulla dintorno, proprio come ieri.

Nel sogno c’eri, ma smarrii il ritorno.

 

Aureo contorno, pallidi sentieri,

ricordi veri, pure tu lo sai,

opachi ormai, indicibili pensieri.

 

Canti sinceri quelli che cantai,

che conservai nel tempo che divora.

Ho in mente ancora ciò che ti donai.

 

Io lo imparai: era l’alito dell’ora.

 

 

 

Un tuffo nei ricordi, nulla più, nelle parvenze – me lo si conceda– di «colüi che sognando vede, / che dopo ’l sogno la passione impressa / rimane, e l’altro a la mente non riede» (Par. XXXIII 58-60), in un giorno così particolare. Un viaggio all’indietro, eppure senza ritorno, simile a quello di Orfeo per la sua Euridice. All’interno di sé, nel proprio petto, come nel cuore della terra. Ma mai volgersi indietro: questo lo s’impara un po’ per volta a proprie spese. A me almeno è capitato così. Echi di echi, in cui s’ «ascolta nella cava ombra infinita / le grandi querce bisbigliar sul monte» (G. Pascoli, Alexandros, VI 59-60).

Nel tempo che scorre inesorabile ci si sente, «dopo il naufragio» – leopardiano? – «un superstite / lupo di mare» (G. Ungaretti, Allegria di naufragi, 4-6). Ripensare a quella piazzetta che obloquitur numeris septem discrimina vocum (Virgilio, Aeneis VI 646), oggi, fa un certo effetto. Eppure, piazza San Michele, nei pressi di Casa Rossini, dove abitava il grande pesarese, beh… fa un certo effetto. Non so più nemmeno quante volte ci sono passato e quante volte, ancora, ci passerei, se me ne fosse data la possibilità. Un luogo incantato, perché luogo della memoria, della mia memoria. Le lancette dell’orologio, del mio vecchio orologio, si sono fermate allora. Lo ammetto così, con un moto di triste meraviglia, ma forse nemmeno troppo triste.

 

 

 

Va bene così. Si tratta solo di non perdere il passo nella corsa. L’impressione che ho, adesso, è di vedere tutto come di lontano, nel film in cui l’attore è un altro. registro, non c’he che dire. Mi rivedo da fuori, in quei luoghi, immerso in quei pensieri. Ogni età ha i propri riti, i propri luoghi. Ora ne sorrido, certo. Il resto non conta più, anche se sono qui a parlarne, come mi capita dopo l’ultimo libro che ho letto. L’impressione è vivissima, tanto che ce lo si sente addosso. Ma va bene, va bene così. Altri forse ne parlerà meglio di me, anche se i nomi non saranno quelli che ho in mente io. Perché in fondo, in una ricorrenza come questa, nulla si può dare per scontato. Lo ripeteva spesso il nostro professore di latino, Novello Baldoni, che qui evoco perché tanto so che non legge, che ognuno ha ciò che si merita. Oggi lo posso affermare con una certa tranquillità pure io: homo faber fortunae suae. Ma ci sta, perché il nostro dialogo non termina qui, come non termina la mia corsa. E questo giorno pure passerà, come gli infiniti altri in cui ci sarà dato ritrovarci, anche solo per poco, come alla fine di una pagina.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Alla mia mamma

 

A maggio ride l’anima. Si librano

libere per l’azzurro aureo le rondini.

Lampi di sogno il sole,

ali d’una vertigine,

 

musica senza età. Nell’incantesimo

ignoto ogni germoglio si rigenera.

Assorto il cuore ascolta

muta la nenia solita.

 

A maggio tutto sa d’eterei palpiti,

malinconie in cui perdersi nell’attimo

mistico di una festa

antica sempre vivida.

 

 

 

Nel mese in cui fioriscono le rose tutto sa di buono, tutto sa di vero. Più che altro, più di tutto, è una condizione dell’anima, un nascere e un rinascere continuamente nell’eterna ciclicità del tempo. Un azzurro permea ogni singolo angolo del mondo, in un’infinita festa, la festa della vita. anche il sole si riversa sul mondo a liquide cascate, un profumo dolce di sogno. Ci si sente come presi per mano, come quando si era bimbi. È un tepore antico, eppure sempre nuovo. Se ne ha bisogno, come se qualcuno voltasse le pagine della nostra memoria a cercare ciò che già fummo e che quindi saremo. In fondo, guardare avanti è un modo diverso di specchiarsi nel passato.

Nel mese in cui profumano le rose, sul finire dei giorni, tra una fine e un inizio, compie gli anni la mia mamma. È festa di colori, come se tutto fosse reso da un’ebrezza incontenibile. Siamo qui e siamo altrove, sulla retta che ci ha condotto a questo punto. Ogni volta si sfoglia un vecchio album di fotografie, immagini sbiadite di chi vorremmo ancora essere. Ma è la festa della mamma, della mia mamma. Per questo il sole brilla tra le case, sulle cose. I giardini brulicano di colori odorosi, aperti alla luce, alla vitale energia di cui sono intrisi. Me ne stupisco e mi stupisco di stupirmene ogni volta.

 

 

 

Nel mese della festa della mia mamma le rondini hanno già fatto ritorno, brillano in alto, punti luminosi di una libertà che forse non avremo mai o non avremo mai così. Lassù, in alto, dove tutto è possibile, sulle ali del vento e della musica. È tutto un germogliare di verde, di speranza senza fine. forse è questa la festa che tanto mi alberga nel core e che tanto aspetto ogni anno, tutto l’anno. Domani sarà già un’altra cosa, sarà già un altro mese. Attenderemo di percorrere di nuovo il cerchio che ci separa da questo giorno, in attesa di cantare di un nuovo germoglio di vita.

 

 

 

© Federico Cinti

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