A Stefano Orlandi

 

Sogno di sogni, immagine lontana

tra le ombre. Tengo il filo di un ricordo,

ennesimo saluto. S’addipana

fra le dita. Rimasto qui, sul bordo,

 

attendo un segno. Nel silenzio sordo

nulla pare. La via diventa vana,

orma dopo orma. Eppure, non demordo:

odo un sibilo. Il tuo? L’ansia risana.

 

Ride il tuo riso il giorno. Esile un raggio

lambisce il vento fresco del mattino.

Apre l’occhio ceruleo all’infinito

 

nel prato il cielo. Nulla si è smarrito.

Dall’anima un singulto. Quel cammino

insieme non finì, prosegue il viaggio.

 

 

Tu rideresti, lo so. anzi, ti sento proprio prendermi in giro. Queste derive romantiche – così le definivi – non ti erano molto congeniali. Almeno a parole. Sì, perché in fondo ti facevano piacere: vellicavano il tuo amor proprio. Non che tu fossi un narcisista; anzi, tutt’altro. dico solo che sentirsi apprezzati è bello, anche se mette un po’ a disagio. Ma vuoi che non lo sappia? Anche a me succede, quando qualcuno per mia somma delizia e profondissima disgrazia mi fa qualche complimento. Non amavi esternare troppo. Non era un delitto. Chissà, forse era addirittura un pregio: dimostrare ciò che si prova non semplicemente a parole, ma con la vita, credimi, non è da tutti.

Anche avere la fortuna di averti come amico non è da tutti. Lo ammetto con umile orgoglio, soprattutto oggi che è il tuo giorno. Molte volte mi rispecchio in te, nel senso che mi ritrovo non solo in quel che mi dicevi, bensì soprattutto in quel che facevi. Ci sono arrivato dopo, da solo. Questo mi resta più di tante altre cose che pure, nei due anni dacché ci hai lasciato, ho tentato di non dimenticare. Non siamo in ciò che diciamo, bensì in quel che non diciamo, perché le parole hanno un’ombra. Solo chi riesce a vedere l’invisibile possiede il significato ultimo delle cose. Tu ci riuscivi benissimo. Io non lo so, ma mi avresti senza dubbio consigliato di svestire i panni cattedratici. Sai che mi dava fastidio e così affondavi il dito nella piaga. Ma tant’è: qualcuno lo doveva pur fare: era uno dei tuoi tanti sproni.

 

 

 

Adesso anch’io ripeto che «avevamo studiato per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento» (E. Montale, Avevamo studiato per l’aldilà, 1-2). Ti ho sempre detto che i poeti parlano non solo di noi, ma per noi. Era un motto che avevi fatto tuo. Forse per rispetto a me, che tante volte provavo a dedicarti qualche poesia, come oggi, che è il tuo giorno. So che l’aspettavi. Ah, certo, non da te: amici me lo hanno detto. Alle volte strapparti una parola era arduo, soprattutto se si aveva bisogno di una risposta a un dubbio inestricabile. Lì per lì non capivo quasi mai il tuo ragionamento. Era come se rivelassi un segmento del tuo pensiero, senza il prima né il poi. Occorreva ricostruire la via tortuosa che portava, se portava, alla soluzione. Già, perché – e anche questo ci ho messo un po’ a comprenderlo – le risposte che cercavo le avevo già e tu mi aiutavi solo a farle riemergere.

Adesso è un po’ più faticoso, adesso intendo che sono io a tenere in mano il «filo» che «s’addipana» (E. Montale, La casa dei doganieri, 11). Siamo tutti in un labirinto: questa è la verità e la memoria non è sempre un filo attendibile. Saperti qui in alcuni momenti mi basta. O mi basterebbe, se ti sapessi ancora a Savigno, col gatto sulla poltrona e le starne che ripetono quel verso che tanto ti faceva trasalire, soprattutto quando la primavera era in rigoglio. Nel tuo giorno appunto, nel tuo mese, quando tutto ricomincia o mostra che non era finito nulla. Ecco, adesso è così, nella ciclicità del ricordo, dei tempi, delle stagioni. Il viaggio non finisce, finché qualcuno continua a ricordare. E, bada bene, non voglio sembrarti patetico: non lo sopporteresti.  

 

 

 

© Federico Cinti

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Equinozio

 

Nell’anima lo specchio dell’azzurro,

lieve sussurro d’aria, eterea brezza,

dolce carezza eterna nel ritorno

nuovo nel giorno.

 

S’allaga il giorno a un tratto d’esultanza,

luce di danza chiara tra le foglie,

limpide soglie oltre le rosee dita,

sogno di vita.

 

Sogno, realtà di vita, meraviglia,

aurea conchiglia in cui risuona il mondo

nel più profondo, in cui rinasce il fiore

vago d’amore.

 

Senso ultimo, l’amore, occhio di cielo,

dissolve il gelo dell’inverno immoto,

ricolma il vuoto, inanità dolente

di cuore e mente.

 

Mente e cuore, fusione d’infinito,

antico mito, per cui Orfeo felice

vede Euridice al soffio d’un sussurro

tenue d’azzurro.

 

 

Eppure, il vecchio Orazio, lo stesso che diceva al suo amico albio Tibullo che, quando avesse voluto ridere, avrebbe semplicemente dovuto andare a trovarlo, lui che era un ben pasciuto porco dalla pelle assai lucida e curata del gregge di Epicuro (Epistulae, I, 4, 15-16), amava i paesaggi invernali, algidi, rappresi dal gelido cristallo della neve. Anch’io non disdegno l’inverno, anche se il sorriso della primavera riaccende a speranze del tutto mai sopite. Se lo chiede anche il pastore errante o, meglio, lo chiede alla luna, silente pellegrina, «a qual suo dolce amore / rida la primavera» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 73-74), perché in effetti è così, ci si sente meglio, rigenerati, la stessa rigenerazione dell’«Aeneadum Genetrix, hominum divomque voluptas» (T. Lucrezio Caro, De rerum natura, I 1).

insomma, «giunt’è la primavera, e festosetti / la salutan gli augei con lieto canto» (A. Vivaldi, La primavera, 1-2) e ci si sente rinascere. Io almeno mi sento rinascere, nell’aria chiara e tiepida. È come uno zampillo di luce e di gioia fuse insieme e «finite in un rivo canoro» (G. Pascoli, La mia sera, 18). Non so, la primavera ce la si sente addosso e nel cuore. Tutto cambia, come se si fosse varcata un’impercettibile soglia. Psicologico, certo, il senso che se ne ha e se ne trae, ma così dolce e lieto. È come se la poesia si facesse colore, odore, sapore. Si tocca, si sente, si ascolta in modo nuovo, diverso, come quando ci s’innamora e tutto assume un abito rinnovato. Un flusso vitale, ecco. E l’inverno è solo un ricordo, algido sì, ma soltanto un ricordo.

 

 

In qualche modo si era pure festeggiato, stamane, per un compleanno. Una torta verde, al pistacchio, anche se di pistacchio sembrava esserci solo il colore. Chissà, quel verde presagiva già la primavera, oggi che è il compleanno della musica, oggi che è il compleanno di J.S. Bach. Mi adagio a quel suono, racchiuso in conchiglia, dentro i nostri ventricoli del cuore. Pulsa come linfa vitale una musica arcana, lontana. In tal senso, in questo giorno così denso di significato, mi pare di scorgere Orfeo che esce dall’Ade assieme alla sua Euridice, finalmente felice. Era sceso nelle viscere della terra, nell’intimo del suo cuore. Euridice era lì ad attenderlo, in un diafano candore d’asfodelo. Lo attendeva, forse senza saperlo, e la sua poesia l’ha salvata dalla perdizione eterna. Il mito che ritrova vita in una luce nuova, perché tutto riprenda a essere come già è stato, in un ciclico ritorno. Anche Proserpina si commuove all’amore che salva e rigenera. Ecco perché mi sento anch’io Orfeo e salverò la mia Euridice.

 

 

 

© Federico Cinti

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Al mio amico Cesare

 

Attesa vana. L’attimo

caduco si disperde oltre le pagine

eterne. Antiche nuvole

si specchiano nell’anima e si perdono.

 

Al tempo il nulla cosmico

rimane indifferente. Impercettibile

estasi tra le palpebre

chiuse il fumo azzurrino tra le chiacchiere.

 

Adesso e sempre, il palpito

lontano che ci abbraccia, che ci libera,

assorti nell’ingenua

brezza del giorno tra gli impegni inutili.

 

Ride dell’inquietudine

esistenziale l’ultima vertigine.

Si sa, si è qui, nel pallido

esilio dove tutto passa rapido.

 

 

Ieri era il compleanno del mio amico Cesare. Non c’è nulla da fare: prima o poi ci si vede – o rivede – allo specchio. Negli infiniti spazi interstiziali si trova il senso vero delle cose. Il vuoto non esiste: me ne convinco sempre più. O, meglio, potrebbe anche esistere, ma solo se gli permettiamo che occupi spazio fuori e dentro di noi. È l’horror vacui, chiamiamolo pure così. Alle volte sembra quasi rincorrerci. Il più sta nel non farsi prendere. In fondo è un’insensata dimostrazione della nostra esistenza. Spesso si procede solo per questa vana smania di apparenza. Ho parlato di specchio, ma mi riferivo soprattutto a chi via via, nel nostro percorso, si ha la ventura di conoscere.

Ecco, Cesare è uno di costoro. Ho sempre l’impressione sia in una attesa infinita. Durante la boccata d’aria si riprende il contatto con la realtà. Lo seguo, come posso e quando posso, nelle sue evoluzioni metafisiche. Qualcuno potrebbe pure dire chiacchiere, io stesso le chiamo così. Ma c’è di più, molto di più- mi è capitato più volte di cogliere una profondità in lui che quasi non vuole emergere. Resta chiusa, così, o dischiusa. Occorre spirito d’osservazione per scorgere lo spiraglio, il filo di luce che torna in superficie. Sulla balaustra sporta sul nulla tutto si riacquisisce. A ciò forse porta quella lunga attesa.

Mi viene da pensare che sia una soglia, una delle tante su cui mi trovo a camminare. Una lama di luce, ecco, che squarcia le ombre. Questo mi è stato concesso, questo mi sono conquistato nel tempo. All’ora d’aria aggiungerei il caffè, momento topico come si sa. Perché al caffè, come amo ripetere, come del resto al cuore, non si comanda. Io almeno non so comandare. Aggrega, tutto qui, negli anfratti più reconditi del mondo si coagula attorno a quell’aroma intenso. Penso sia così pure per lui. Non gliel’ho mai chiesto, così, esplicitamente. Non si può parlare di tutto, almeno a parole.

Naturalmente così lo vedo io. Lo vedo per modo di dire, nel senso che mi occorre attendere che l’ombra mi divenga luce prima che io riesca davvero a oltrepassare la linea che mi separa dall’altra parte dello specchio. Nelle corse quotidiane mi stupisco di cogliere dall’esterno le fughe spericolate verso l’ignoto. Già, perché molti – forse troppi? – furoreggiano all’impazzata senza un perché. Anche Cesare la pensa così. Credo perlomeno. Il giudizio lo ha già espresso più volte a riguardo. Nello spazio interstiziale del corridoio tutto si fa possibile (o almeno così mi pare).

 

 

 

© Federico Cinti

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Acquerello per Sara

 

Pennellate di sole. Ride l’aria

ebbra d’azzurro. Palpiti di vita

riempiono il cuore. Sulla via smarrita

sogna l’anima fragile, precaria.

 

Al cuore una dolcezza immaginaria

rampolla, ardua vertigine infinita

adesso e sempre. Labile salita,

caducità dell’ora che non varia.

 

Antica novità di primavera,

presaga del trascorrere dei giorni,

oggi vestita d’una luce chiara.

 

L’ora trascorre, adesso, forse ignara,

lungo i mille sentieri dei ritorni,

in cui tutto sarà come già era.

 

 

Come nasce una poesia? qualcuno di recente me lo ha chiesto. Me lo sono domandato sempre pure io. Spesso mi sono visto da fuori, seduto al mio tavolo, digitare sequenze arcane di lettere. Al mio tavolo, certo, oppure sulla sedia, sul divano, in autobus. Una posa, ovvio: si è sempre fatto così. Eppure, credo che una poesia non nasca: la poesia esiste già, tra le pieghe nascoste delle cose, nell’aria che si respira, nel senso che si scopre a poco a poco, come un miracolo, come una rivelazione. È come se qualcuno ce la dettasse. Il vate ebbe a spiegare che «i’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV 52-54). Un’ipostasi bella e buona, questo suo «Amor», l’entità che per gli scolastici era «voluntas animi», la forza che eleva dal moto discensivo del desiderare (de sideribus) a quello elativo del considerare (cum sideribus).

Nella realtà, non altrove o chissà dove, è insita la poesia, perché «c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d’antico» (G. Pascoli, L’aquilone, 1-2). Straordinaria dichiarazione, questa, di quell’inesprimibile «qualcosa» – altri avrebbe detto «non so che» – «di nuovo» e «d’antico» inscindibilmente insieme. Un unico afflato, un unico senso permea e trascorre gli infiniti piani in cui ci si muove e ci si trova. Ecco dunque che in una pennellata di sole, in un po’ di colore oltre le case si coglie ciò che tutti abbiamo dentro da sempre. in questo la parola crea e ricrea ogni istante, invisibile sibilo del cuore, perché sono sempre «parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 5-7).

Va colta, tutto qui e non altro, la poesia, fiore dolcissimo di campo. Perché la poesia si può donare, come omaggio fuori del tempo e dello spazio, come momento di condivisione immateriale. Non a caso l’occasione, il kairòs, è ciò che muove lo svelamento dalla misteriosa unità al momento particolare in cui si plasma, si dà forma e sostanza allo sciame dei nostri pensieri o emozioni. Non è mai indifferenza o atto cortese, bensì sempre una necessità ineludibile. Non il poeta, quindi, canta e fa versi, bensì il sentimento di cui si fa strumento. anche un compleanno a fine febbraio può essere motivo poetico da onorare, principio e fine di un ciclico ritorno.

 

 

 

Non altro, almeno mi pare, sulla questione. I più faranno finta di capire che cosa significhi questo travaglio interiore. Eppure, l’arte è anche mestiere e non ci si improvvisa nemmeno ad «accordare le sillabe dei versi / sul ritmo eguale dell’acciottolio» (G. Gozzano, La signorina felicita, III 47-48). Anch’io ci ho impiegato tanto a oltrepassare la linea d’ombra che permette di comprendere, seppur velatamente e in modo impreciso, questo groviglio inestricabile. tanti si limitano a fare a pezzi la fragile struttura di cristallo di una poesia, come se il bello di un fiore fosse la sequela ordinata dei petali o la corolla vivisezionata sotto il vetrino del microscopio. La profonda unità tra sostanza significante e significata non può essere oggetto di analisi, pena la scomposizione artificiale di un mistero che continua, nonostante tutto, a restare tale. Chissà, la critica letteraria origina in qualcuno non dallo scambio di idee, bensì dall’impossibilità di averne di proprie e dalla voluttà di distruggere le altrui. La primavera esiste nonostante l’occhio di chi pretende di spiegarla scientificamente. Ma la retorica serve pure a questo, a velare di falsa epistème la dòxa più vera.

 

 

 

© Federico Cinti

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A me stesso – nel giorno del mio compleanno

 

Anch’io, certo. Chi sfugge a questo rito?

Fui già, lo so. Forse sarò. Vedremo.

Era l’esserci sempre, all’infinito,

dopo l’ultimo salto, il volo estremo.

 

Esce la nave mia: all’azzurro il remo

ritrova lo spettacolo del lito

in lontananza. Anch’io mi volgo, temo

cielo e mare: trasecolo stupito.

 

Oggi, il mio giorno. Luccica un gabbiano

candido, lieve. Tutto sa di sale.

Inutile sperare nel ritorno.

 

Nuova la via nell’anima. Dintorno

tace l’ansia dell’ora. A nulla vale

il tempo per procedere lontano.

 

 

oggi capita a me: una volta all’anno succede. Bene, se ne prende atto e si prosegue come nulla fosse. Perché, mi sono accorto, se mi fermo a pensarci troppo, non trovo più il bandolo della questione e la matassa s’ingarbuglia al punto di divenire un glomerulo inestricabile. Gadda, perlomeno, avrebbe usato un’espressione simile. Quando leggevo il Pasticciaccio restavo incantato anche dalle acrobazie verbali. Era un tuffo, un immergersi in un mare ignoto. Del resto, non è così ogni giorno? Non è perché si compiono gli anni che ci si ferma a riflettere. Credo io, intendiamoci. Qualcuno non lo fa mai, figuriamoci in questo benedetto giorno in cui in qualche modo ci si trova a fare i conti con il tempo che passa. E meno male che passa, altrimenti sarebbe pure peggio. Ieri e oggi, due facce di una stessa, inequivocabile medaglia. All’appello manca sempre l’oggi. Eppure, è un giorno speciale, per me, oggi. Fare festa è giusto: il giorno lo esige. Non mi si chieda perché, ma io lo sento così, anche se qualcuno, non molti giorni fa, mi ha detto che non sono nessuno. Già, vero: una goccia nell’abisso. Non che io pretendessi di essere chissà chi, ma un minimo di riconoscimento me lo sarei aspettato. Me lo do da solo e tanto basta.

Uno sproloquio, lo so; ma, quando si inizia, non si sa mai dove si vada a parare. Qualcuno lo chiama pomposamente flusso creativo. Potrebbe essere. Altrimenti, anche andare a ruota libera non mi pare del tutto lontano da quel che si fa di solito. Si segue un pensiero e si va, come spinti da una forza superiore. Alle volte pensiamo allo scrittore come a uno seduto a tavolino, che di tanto in tanto scruta nel vuoto a cercare chissà che parola. Potrebbe pure essere. Io mi vedo così, alle volte, ma poi so che non sono io, perché mi ritrovo a buttare giù qualche cosa alla boia d’un Giuda, seduto chissà dove, col computer sulle gambe oppure sdraiato sul divano. Certo, sempre ammesso si possa dire che io sia scrittore. Diciamo che scrivo, ecco, scrivo e tanto basta. Quando faccio vedere i miei libri, c’è sempre qualcuno che, con un sorrisetto, mi chiede quanti soldi io abbia guadagnato. Soldi? Ma la scrittura è un piacere che supera la viltà di ogni moneta. Ma come si fa a spiegare a chi non lo sa? Non dico di professione, perché ormai non conosco più persone che scrivono di professione. Mi piacerebbe, certo, potermi fregiare del titolo; ma sarebbe, e forse lo è proprio, anacronistico.

 

 

 

Potersi fare da solo gli auguri di compleanno è privilegio di pochi. i grandi sono serviti e riveriti, come si suol dire. Io, che volete mai, dal mio piccolo punto di vista, dalla mia aiuola, che pure non mi fa tanto feroce, mi ritaglio un momento per me. Ecco, questo è il regalo più bello che io possa ricevere. Anzi no, ce ne sarebbe un altro, ma è inconfessabile. O meglio sarebbe, se non mi fossi già incamminato per questo strano sentiero. Già, perché è qualcun altro che scrive per me, come afferma il vate delle donne angelicate: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV 52-54). Ecco, se potessi esprimere un desiderio, mi piacerebbe che una donna angelicata mi facesse i suoi auguri, con la sua voce melodiosa, quasi di nenia al dondolio infinito d’un attimo lontano. Le sarei grato: quella voce mi è entrata nel cuore, chiara, limpida com’è. Il resto è tutto come sempre, nella norma. Gli amici i parenti, la torta. Quest’anno capita pure di domenica. Se sono a scuola, infatti, di solito gli studenti mi portano in trionfo come i generali Romani. Non mancano nemmeno i «lazzi turpi e matti» (G. Carducci, Congedo, 5) di chi non è poeta e li pretende negli altri.

Già, si fa in fretta a dirsi poeta solo perché si scrivono versi. Io diciamo che ci provo. Per gli altri ho una discreta facilità. Per me, francamente, non so che dire. Parlare di me non è il mio forte. Mi vedo piuttosto come l’Ulisse navigatore sul suo piccolo legno alla ventura. È il mare che conduce, non certo il nocchiere. Le onde vanno solcate e abbracciate. Dico Ulisse, ma vorrei dire l’Ulisse vero, quello che Dante mi racconta nella Commedia, se stesso. Quello è il viaggio che vorrei compiere «per lo gran mar de l’essere» (Par. I 113). Ecco, il mio viaggio continua sulla via tracciata da altri. Mi auguro di esserne capace. Io mi ci metto, con umiltà. Il resto sta nel viaggio, nei libri che si leggono, nei porti cui si giunge, nelle persone che s’incontrano, anche in quella donna che vorrei stringere per sempre a me. Ecco, tutto è ignoto, nel senso che è quasi impossibile determinare il successo del viaggio, finché non lo si fa, non lo si porta a termine. Io procedo, e «prego anch’io nel suo porto quiete» (U. Foscolo, In morte del fratello Giovanni, 11). Il resto sono solo chiacchiere, cui piacevolmente so anche abbandonarmi.

 

 

 

© Federico Cinti

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Confessione a un amico

 

Magmatico mosaico, ritrovarsi

a un tratto altrove, sulla via smarrita,

riscoperta per sbaglio tra gli sparsi

cocci senza più età di un’altra vita.

 

Era il fluttuare instabile del giorno

tra vane verità scritte nel vento

ubriaco di sole, era il ritorno

languido dopo l’ultimo tormento.

 

La pagina si fa di nuovo bianca

innanzi agli occhi increduli di neve:

ci si rivede, un altro ci si affianca,

immagine d’immagine più lieve.

 

Chi si è, chi non si è più? Nel nuovo il vecchio,

essere dentro l’essere lontano.

Rimane imperscrutabile lo specchio

oasi nel tempo, refrigerio vano.

 

 

tutto era pronto per andare in scena, oggi, 3 gennaio, a casa dell’Ingegnere. Anch’io ero pronto, da vecchio giullare, a rievocare il compleanno di Cicerone. Lo faccio non dico da sempre, ma dacché ci si conosce sì. Ed è trascorso ben più di un quarto di secolo. Me lo ha ricordato lui, l’Ingegnere intendo, la notte dell’anno. io inseguivo, come di consueto, le mie divagazioni letterarie. Quel ricordo mi ha fatto trasalire, simile all’incauto Morvàn che «un dì trasecolò nella boscaglia» (G. Pascoli, Breus, I 2). Il tempo si era annullato, d’un tratto, chissà. Oppure c’eravamo annullati noi nel tempo, capricciosa variabile come è. Iniziava il ventisettesimo anno, che è poi questo appena iniziato. Rimasi come sospeso, come Oreste i cui «occhi gli andavano lì, a quello strappo», quell’Oreste che «insomma, diventava Amleto» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Fissavo pure io «quel buco nel cielo di carta», senza pretese amletiche ovviamente, quasi incredulo.

 

 

 

Ero pronto a sedermi nel mio posticino, sul lato corto del tavolo, all’ingresso della cucina quadrata. di sicuro l’avrei ascoltato nelle sue divagazioni storiche, quasi centenarie. Il tono oracolare gli si confà particolarmente, nulla da eccepire. Eppure, è figlio del mondo del pressappoco anch’egli, come me, più che dell’universo della precisione. Perché siamo consapevoli entrambi che l’oggettività non esiste, checché ne dicano. Mi siede di fianco, a volte parlandomi sottovoce, come dovesse rivelarmi un grande segreto. Lo ascolto con reverenza filiale, anche se è poi nato qualche mese dopo di me. Non importa. Da tempo ormai ho compreso che solo chi riesce a vedersi da fuori ha qualche speranza di carpire un pur minimo brandello di senso. Altre volte, invece, conciona ex cathedra, consapevole di affermare il principio su cui poggia il panta rhei. Su quell’immaginario palcoscenico rimugino, tra me, il famoso verso: «Soffri e sii grande: il tuo destino è questo» (A. Manzoni, Adelchi, III, I,). Recitiamo, tutto qui, e in quel mentre mi capita di astrarmi da me, «come quei che con lena affannata, / uscito fuor del pelago a la riva, / si volge a l’acqua perigliosa e guata» (Inf. I 22-24), mi capita insomma di vedermi.

tutto era pronto, certo. O meglio sarebbe stato, perché ogni volta si finisce a recitare a soggetto. Perché si cambia, è innegabile, di volta in volta, di anno in anno. E succede pure di vedere le cose in modo diverso e, dovremmo pure ammetterlo, in quelle cose ci siamo pure noi. Sì, proprio così: ci pare di non essere più noi, quelli di prima, come se un giorno ci fossimo guardati allo specchio senza riconoscerci. Se mai ci siamo conosciuti veramente, è ovvio. Secondo la profezia, per giungere a venerabili età, non bisognerebbe conoscersi. Non bisognerebbe, in ultima analisi, avere il privilegio di vedersi, lungo la linea di demarcazione che genera il distacco, per cui si passa dal riso alla commozione, da fuori. È così che, pur restando sempre noi, siamo sempre diversi. E mi sento diverso io in primis, senza che altri vengano a dirmelo. Oddio, se devo essere sincero, l’Ingegnere lo trovo sempre uguale: del resto, lo vedo da fuori e – credo – lo conosco bene. So che attendeva il mio affondo su Cicerone, il genio incontrastato della parola. Resta pur sempre il suo compleanno, oggi, da quel lontano 106 a.C., quando nacque ad Arpino. Su tutto il resto si ritornerà, ne sono sicuro.

 

 

 

© Federico Cinti

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Variazioni sul tema

 

Variazione sul tema, questo vano

antico, ineluttabile tornare:

languido il tempo scivola, lontano,

eterno andare.

 

Nulla si perde, nulla si ritrova

tra i frammenti del giorno. Ora l’oblio

inerte, linea d’ombra, luce nuova,

non altro. Addio.

 

Addio a ciò che non si è: la meraviglia

grida l’ansia dell’attimo, catene

al di là di quei cocci di bottiglia

rotti, altro bene,

 

unica via d’uscita. L’infinito

là, dove l’occhio attinge l’orizzonte,

limite invalicabile, smarrito,

inique impronte.

 

 

A saperlo, poi, che cosa sia questo benedetto tempo, potrei anche azzardare una risposta. Potrei, intendo, al di là di tutte le infinite elucubrazioni provate sul tema, da che mondo è mondo, arrischiarmi a formulare una mia piccola ipotesi, quasi fossi quel «passero solitario» che «tenta la sua tastiera, / come nel santuario / monaca prigioniera» (G. Pascoli, Il passero solitario, 2-4), se l’avessi. Eppure, continuo a ragionarci su, «come l’uomo che, segnato un gran cerchio per terra, comincia a camminare attorno ad esso dicendo: “Voglio vedere quando arrivo alla fine”» (G. Guareschi, Le lampade e la luce).

Variazioni sul tema, corsi e ricorsi, come nell’intuizione geniale di Vico di coniugare linearità e circolarità, insite in noi e nelle coordinate spazio-temporali in cui ci troviamo immersi, come in quel mare infinito che qualcuno ha scorto al di là della siepe e qualcun altro oltre «un rovente muro d’orto» nel suo «palpitare / lontano di scaglie» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2 e 9-10). La compagnia mi pare anche buona, ma non mi so risolvere a comprendere questa «infinita vanità del tutto» (G. Leopardi, A se stesso, 16). Perché di questo, in fondo, si tratta: tendersi oltre le nostre umane possibilità, «qual è ’l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige» (Par. XXXIII 133-135). Ma va bene, va bene così: viviamo pur sempre sulla soglia.

 

 

In questa liminalità sospesa occorre decidere da che parte stare. Al di qua dei «cocci innumeri di vetro / sulla cinta vetusta, alla difesa» (G. Gozzano, La signorina Felicita, I 17-18), in fondo, non mi pare si stia nemmeno troppo male. Ogni tanto si guarda oltre, per cogliere qualche sprazzo di luce, alla ricerca di frammenti perduti da ricomporre nel mosaico di cui ci sfugge, purtroppo, la figura intera. Ma è la sfida, questa, nient’altro. Mi lancerei anche io, nel caso, a gridare: «Miserere del mio non degno affanno» (Rvf LII 12), se il tempo me lo concedesse. Il tempo, certo, quello che non so definire in alcun modo e che pure va e ritorna, come in questo giorno, preludio alla fine e al principio. Anche l’anno ha i suoi riti, le sue pause e le sue accelerazioni, rotazione e rivoluzione di un vortice immoto. Ci si ritrova qui, anche ora, a scandagliare il prima e il poi, dimenticandoci dell’hic et nunc.

 

 

 

© Federico Cinti

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Nel giorno di Natale

 

Era un canto dolcissimo di culla,

silenzio e nulla per l’aria tutto intorno;

tenue contorno un volto di fanciulla

e poi fu giorno.

 

Riso e pianto, il germoglio della vita

stretto tra dita, tra le braccia al seno,

amore pieno, soavità infinita

tra paglia e fieno.

 

Un palpito di luce per la via,

rara armonia di pace, trascolora

nel cuore ancora quella gioia pia,

oggi, d’allora.

 

 

Non riesco a non fermarmi davanti al presepio, sacra rappresentazione certo, ma di un dramma, quello della vita. il tempo lineare, nella sua circolarità, ci permette di rispecchiarci, santo specchio dell’anima, in ciò che siamo e in ciò che dobbiamo essere. Tutto qui, forse. Altre questioni non mi pare di trovarne, così, come qualcuno avrebbe detto, «sedendo e mirando» (G. Leopardi, L’infinito, 4) davanti all’Ineffabile che si fa infans, letteralmente senza parola. Ecco, l’immensamente grande nell’immensamente piccolo. Appunto, come provavo a esprimere, non c’è poi altro da dire.

Di per sé la festa è questa, ritrovarsi, quasi per la prima volta, a pensare al Mistero. Negli abissi della scienza resta la «foresta di simboli» di baudelairiana memoria, per dare un accento poetico a ciò che non si può sapere. È l’abisso del consiglio di cui ci canta pure Dante, ma andatelo a ripetere a chi non trova senso nei segni. Anche noi lo siamo, simbolo e figura. Tutto è metafora; anzi, meglio: tutto è allegoria, soprattutto oggi che ogni dettaglio insignificante si trasforma in icona. Averne coscienza, ecco: mi accontenterei di questo.

In questo giorno celebriamo il Natale, festa delle feste, fine e principio. Il sole nascente, al termine di un anno e al principio del seguente. E tutto non è simbolo? È accorgersene la difficoltà maggiore. Io ci ho messo tanto, non lo nascondo; ma, alla fine, qualche cosa riesco a intravedere. Oh, non tanto: solo un barlume, forse nemmeno quello, ma l’idea di una luce che salva. E salva per davvero! Per questo ci tengo a soffermarmi anche solo un attimo, su quella soglia. Non è il giorno in cui si può rimanere indifferenti. E poi è il compleanno pure di tanti amici. Non posso ricordarli tutti, ovviamente: sarebbe un catalogo lungo e noioso. Già io mi sento così terribilmente noioso e il mio professore di lettere del liceo sarebbe pure d’accordo con me, su questo punto, lui che mai mi ha dato ragione, per partito preso. Ma lo scrivo, perché so che non mi leggerà. Tra noi c’è sempre stata quest’intesa: «Tu scrivi pure», mugugnava ridendo tra i denti, «e io non leggo». E così abbiamo continuato fino a oggi, fino a Natale.

Ecco, il giorno di Natale, il giorno della luce che sorge e ci rischiara. Mi basta questo. Non è un augurio: è una certezza. Si fa, intendiamoci, si fa l’augurio; ma c’è molto di più. O almeno mi pare. Lo dico anche a chi ogni tanto mi si accosta e mi chiede qualche cosa. Non ho risposte, ovviamente. Ho l’idea, questo sì, anche perché qualcuno ce l’ha rivelata. Qualcuno mi si accosta e chiede, come di recente una mia studentessa, Ester, che mi chiedeva il senso della letteratura. E che le potevo rispondere io? Mi sono stretto nelle spalle e ho abbozzato qualche cosa. Ecco, le mie certezze le ho, prima o poi gliele dirò, ma intanto mi accontento di farle gli auguri di questa festa, perché è la sua festa, il suo compleanno. Ecco, è la festa della luce, del sole nascente: davanti a questo sole mi fermo

 

 

 

© Federico Cinti

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A Sisi nel giorno del suo compleanno

 

Figlia del sole, nacqui nel suo giorno;

strali dorati, trama del mio trono,

la mia corona, intreccio di splendore,

la mia dimora, luce nella luce,

al cui tramonto anch’io cadrò nel buio.

 

 

 

Poesia liberamente tratta, ma poi nemmeno troppo, dai Winterlieder, i Canti d’inverno, di un’eccezionale autrice, l’imperatrice più famosa – e meno conosciuta – d’Austria, Sisi. Ha quasi cinquant’anni (siamo infatti nell’ottobre del 1887) quando, ironizzando sul giorno in cui è nata, il giorno del sole, in tedesco Sonntag, vede dall’esterno la sua sorte e il suo destino. Ricorda quel lontano e felice 24 dicembre 1837, quella domenica in cui l’astro più lucente, nel suo giorno, aveva rivolto i suoi strali d’oro sul suo trono, quando lo splendore le aveva intrecciato una corona inestricabile sul capo, quando la luce era divenuta dimora eterna della sua vita. e dire che in Baviera nascere la domenica, e per di più con un dente già spuntato, come era successo a lei, era considerato segno d’elezione. Nulla era per lei la fama, nulla la gloria dell’ostro e del manto: tutto era attesa del tramonto di quel fulgore in cui anch’ella si sarebbe eclissata per sempre dalla scena di questo mondo, senza far rumore.

Questo l’originale, questi i versi di Sisi:

 

 

Ich bin ein Sonntagskind, ein Kind der Sonne;

Die goldnen Strahlen wand sie mir zum Throne,

Mit ihrem Glanze flocht sie meine Krone,

In ihrem Lichte ist es, dass ich wohne,

Doch wenn sie je mir schwindet, muss ich sterben.

 

 

Nel suo Poetische Tagebuch, il suo Diario poetico, Sisi riflette, quasi si mettesse allo specchio, la vera essenza di quella luce, di quel sole di cui ella è figlia. Era soltanto un sogno la leggenda della sua vita che con scrupolo aveva contribuito a costruire, l’incomparabile bellezza regale di cui era circonfusa per grazia naturale, le trecce dorate di lunghissimi capelli che le incorniciavano il capo e l’esile figura, la gabbia d’oro della corte austriaca in cui era stata rinchiusa per amore e per forza fin da quella lontana domenica 19 agosto 1853, quando si era fidanzata con l’imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo Lorena e aveva cominciato a ripetersi: «Se solo non fosse imperatore».

Poesia, solo poesia. nulla le resta se non il rimpianto di quella vita, se non il desiderio di liberarsi e librarsi, simile a Titania, la regina shakespeariana delle fate da lei tanto amata, simile al gabbiano che non ha patria, che non ha confini. In alto, lontano, oltre le convenzioni di un mondo che non le appartiene, che non le è mai appartenuto. Questo sarebbe stato essere vera figlia della domenica, di un giorno senza tramonto, perché tutto del sole. Di lei lascia immagini e ritratti, di lei lascia versi e parole di un diario fuori del tempo, come un cuore allagato d’infinito. E così vola ancora quel gabbiano, senza che alcuno possa raggiungerlo, senza che alcuno possa ingabbiarlo, nemmeno il sole.

 

 

 

© Federico Cinti

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In questo giorno – all’Ingegnere

 

Attardarsi sul limite. Nebbiose

lontananze nell’anima, un sussurro,

una voce insondabile tra cose

chiare d’azzurro.

 

Antichi sogni. Lieve nostalgia

muta per l’aria, nel silenzio assorto

appare ciò che fu. Lungo la via

noia e sconforto.

 

Trema un sibilo d’ala. Scuote il vento

emozioni d’un attimo. Oltre il velo

chimere d’una vita, lo sgomento

che chiama al cielo.

 

Hanno gli alberi un fragile torpore

in sé. Tutto fu già, tutto è ritorno

nell’oblio di quest’essere incolore,

in questo giorno.

 

 

Nascere in autunno, in particolare in questo giorno, mi pare un privilegio. In altre epoche della mia vita non mi avrebbe mai sfiorato nemmeno l’idea di pensarlo. Si cambia, è necessario, e pure con un insano gusto per la metamorfosi, tutto qui: la coerenza non è sempre una virtù e soprattutto non lo è relativamente a certe questioni. Anche perché, bisognerà pure ammetterlo, il tempo è un congegno strano. Ero quasi tentato di lanciarmi su «ordigno», ma poi mi sarebbe sembrato di scadere nel ghiribizzo della citazione, da Dante in su o in giù. Sì, proprio il sommo vate, perché impiega questo termine per dare una visione d’insieme di Malebolge, «di cui suo loco dicerò l’ordigno» (Inf. XVIII 6). Probabilmente ordo gli sarà risultato troppo neutro, troppo poco diabolico intendo, anche se è vero che «l’occhialuto uomo […] inventa gli ordigni del suo corpo» (I. Svevo, La coscienza di Zeno). Niente di più, non volevo esagerare. Forse è la malinconia autunnale, una rivisitazione della noia leopardiana. Del resto, anche io ho l’impressione «che per tutto nel mondo è novembre» (G. Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno, 56), in uno spleen tutto nostro, tutto bolognese, «in un tedio che dura infinito» (v. 60).

Eppure, il mio amico Ingegnere è nato proprio a novembre, in particolare in questo giorno. Me lo ripete sempre, con una certa aria di superiorità: «Tu sei molto più vecchio di me». Ed è vero, purtroppo. Così, nel mio posticino solito, sul lato corto del tavolo della sua cucina, mi stringo nelle spalle e annuisco. Perché sì, è la verità. Poi, lo guardo dritto, pure un po’ dispiaciuto, e gli confido in tutta sincerità: «Lo so, lo so: sta’ tranquillo, ché te lo scrivo sulla lapide». A quel punto si placa ogni moto di superbia. Oh, io non sono nato a novembre: e che ci posso fare? È «un piacer serbato ai saggi», questo: l’ho già ammesso con rammarico.

Chi glielo va a raccontare, poi, all’Ingegnere del treno? Sì, del «mostro, conscio di sua metallica / anima» (G. Carducci, alla stazione in una mattina d’autunno, 29-30), quello per cui «per tutto nel mondo è novembre»? intendiamoci, non so determinare con esattezza, ma nemmeno Heisenberg ci era riuscito, figuriamoci se ce la posso fare io, i danni irreversibili della scienza e della tecnica. Anche’Ntoni di Padron ’Ntoni non si era rovinato per colpa del treno che lo aveva staccato, povera ostrica inesperta, dallo scoglio di Acitrezza, per portarlo a fare il servizio militare a Napoli? È l’inizio della fine, quando tutto cambia perché nulla cambi. È «la fiumana del progresso», chiamiamola pure così con le parole di Verga: sopraggiunge inaspettata e distrugge un equilibrio secolare, millenario alle volte. Un’ondata più forte sull’arenile e tutto è da rifare perché torni come prima.

Insomma, chi glielo va a spiegare all’Ingegnere che anche Mattia Pascal, quando non era ancora fu, si perde (o si ritrova? Io sono ancora incerto sulla vera risposta) sul treno di ritorno da Montecarlo, con un bel gruzzolo in tasca, in quel di Ventimiglia? Tutto a un tratto, all’improvviso, come per epifania inaspettata, apprende la notizia di essere morto. Già, morto, mica altro, non certo smarrito. Sapere la verità può essere una rivelazione terribile. Io non me la sento. No, non ho il coraggio di parlargli del treno, all’Ingegnere intendo, lui che ci è tanto affezionato. Anche l’avvocato della Carriola esce di testa sul treno, di ritorno da Perugia. E non parliamo di Belluca, nel Treno ha fischiato. Sì, è vero, Pirandello è un po’ una delle mie ossessioni, ma se non ne parlo a un amico di vecchia data, più di cinque lustri, direi quasi sei per esagerare, tanto chi va a controllare?

 

 

 

Sarà per questo che, ultimamente, si è spostato a studiare il trasporto aereo. Già, quegli strani oggetti che violano i cieli, una volta così belli a poterli guardare senza che nessuno ci avesse tracciato rotte così iperboliche. E parlavano di tracotanza a proposito degli Argonauti. Ma oggi, i miti, ditemi voi, chi li legge più? Eppure, parlavano di noi. Ecco, l’Ingegnere mi avrebbe fatto notare che, appunto, «parlavano di noi», mentre ora parlano di un mondo che non esiste più, rottami romantici da archiviare per sempre. Già, perché il laudator temporis acti sono io. Anche questo lo ammetto e lo sottoscrivo pure claris verbis. Gli scheletri li tengo fuori dell’armadio, in bella vista, senz’altra pretesa che mi ricordino chi avrei voluto e non sono stato in grado di essere. Il resto non conta, non ha mai contato. Il mio posticino sul lato corto del tavolo non me lo toglie nessuno. Potrei chiamarlo il mio posticino al sole, se non guardasse di sbieco la terrazza che dà sul cavedio interno, multietnica tavolozza variopinta.

In questo giorno, come «aus nebliger Ferne», per riprendere le parole di Sisi, «dalle nebbiose lontananze», guizza qualche pensiero, simile a «un’ombra errante / con sopra il capo un largo fascio» (G. Pascoli, Nella nebbia, 19-20). Nella nebbia, mare senza onde, in cui gli alberi sottili si confondono, come ciò che sappiamo, come ciò che vediamo e sentiamo. È questo il mare della conoscenza, perché in fondo sapere è non sapere. L’Ingegnere lo sa, forse anche più e meglio di me, che «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Così, insieme, ci si inoltra in questa foresta di simboli viventi, che è il mondo, anche interiore.

 

 

 

© Federico Cinti

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