Il 2 novembre

 

Luce fioca, sul margine l’azzurro

ultimo tra le case. Tra le cose

corre sommesso un fragile sussurro.

 

Attesa vana. Il tempo ormai si mostra

breve. Sparsi qua e là sogni di rose,

ombre d’antichi giorni in questa nostra

 

nebbia di latte in cui vagare. Solo

adesso il senso, incerta nostalgia.

Fu nel cuore un sussulto, un arduo volo

e il proseguire ancora per la via.

 

 

Era il giorno dei morti, il 2 novembre. Eppure, caso strano, conosco molte persone nate in questa data per i più nefasta. Intendiamoci, nefasta solo perché si pensa a chi non c’è più e quindi viene a mente un tempo trascorso e mai più presente. Niente di che, si fa per dire. Di solito, mi ricordo di fare gli auguri, in particolare a uno, a Luca, immerso nelle nebbie d’Oltremanica. Già, la famosa «nebbia di latte» (G. Pascoli, L’assiuolo, 10), che poi riprende pure la «nebbia mattutina» oltreché al «crisantemo, il fiore della morte» (G. Pascoli, I gattici, 3 e 14). Sì, certo, mi perdonerà le ubbie pascoliane, ma che ci posso fare? Del resto, uno studio particolare sul sonetto pascoliano prima o poi dovrò farlo: ci penso da tanto, ormai. È il tempo che manca. Ma stiamo al mio amico.

Ogni anno, dicevo, colgo l’occasione, potrei dire il kairòs, per dedicargli qualche cosa. Abitudine vana, oggi, in cui tutto scivola nel chronos infinito. Ma mi sento, e non a caso, uomo d’altri tempi, un superstite, una sorta di naufrago alla stregua dell’Ungaretti dell’Allegria. Anche in questo caso si fa per dire. All’inizio di novembre non mi viene nulla di meglio. Sarà un difetto, questo. Lo confesso senza tema di smentita. Mi si deve prendere come sono. E sono proprio così. Non so nemmeno perché, dovendo parlare di altri, parlo poi solo di me. Deformazione professionale: chi scrive parla sempre e solo di sé. Vexatissima quaestio, naturalmente, ma ci sta che si faccia ancora finta che non sia così.

Insomma, credo Luca sia ancora lì che aspetti che io dica qualche cosa di lui. Mi perdonerà, come tante altre volte. È il suo giorno, sì, anche se in ritardo. Un ritardo mio, certo, ma perché non sono stato benissimo. Dopo la presentazione di sabato scorso lo scioglimento della tensione, l’emozione, il freddo mi hanno distrutto. Ecco, il 2 novembre ero mezzo morto anch’io. Un bel risultato, certo. Ero così, sul crinale, a connessione intermittente. Mi perdonerà. Del resto, anch’egli è come me «tra color che son sospesi» (Inf. II 52), per dirla con l’amico Dante. Restiamo così, come la luce fioca di un lampione a illuminare una porzione d’ombra. Già, perché il buio non esiste, come dice Pirandello. Esiste solo se noi lo illuminiamo.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Elena

 

Eco d’un giorno, eco d’un anno, volo

lieve del tempo: tra le nostre dita

esile il filo s’addipana solo.

 

Nulla sarà di ciò che fu. Infinita

ascesa tra l’azzurro. Nulla è invano.

La meta è dove è più ardua la salita.

 

Un sorriso dolcissimo. Pian piano

per i portici l’essere, l’andare

passa. Un sogno non fu, non fu lontano

 

il limite di tante gioie rare.

 

 

Non so perché, ma ogni volta mi trovo a parlare del tempo che scivola inesorabile, Elena, soprattutto in questo tuo giorno di fine ottobre. «Croce e delizia», potresti dirmi, tu che sei una verdiana convinta, «delizia al cor». Quando siete stati a Parma per il Simon Boccanegra, anche qui inspiegabilmente, mi è venuto da cantare assieme a Leporello: «questo pezzo di fagiano, / piano piano vo’ inghiottir». Eh, io sono proprio mozartiano: lo ammetto senza riserva alcuna. Me lo perdonerai. Come tante altre cose, del resto, che qui non sto a elencare. Mi è venuto, per esempio, da citare La casa dei doganieri di Montale, «un filo s’addipana» (v. 7), anche se non è esattamente il mio poeta preferito. A te piace molto, invece. Lo affermasti con una certa convinzione, una volta. Ma ci sta, va bene. Oh, intendiamoci: non è che io non lo apprezzi. Anzi, ha testi splendidi. Tuttavia, devo riconoscere che preferisco altri autori.

Non so perché, ma il discorso mi scivola sempre di mano, un po’ come il tempo, sabbia tra le dita di un’invisibile clessidra. Che poi noi pensiamo alla sabbia, ma nel nome c’è l’acqua. Già, la clessidra è un orologio ad acqua. Poi, va da sé, ci può pure essere la sabbia al suo interno. Non è certo L’orologio da rote di Ciro di Pers, ossessione barocca per eccellenza. Ecco, sempre il tempo che incombe. Eppure, vedi, oggi ho fatto tardi a scriverti. Ci ho pensato tutto il giorno. Poi, come scrisse quello, «ed è subito sera» (S. Quasimodo, Ed è subito sera, 3). Comunque, sono qui a non lasciare passare invano questo giorno.

Anche l’anno scorso mi ritrovai così, in un dialogo con te, in un Dialogo con Elena. Alle volte non mi dispiace nemmeno citarmi, vezzo antico di chi se lo può permettere. Perché oggi, lo sappiamo, non è un giorno come gli altri. Ne prendiamo atto. Non sto a dirti altro. Ami le feste lunghe, anche più e più giorni. Questo è solo l’inizio. Te l’ho sentito ripetere. In quest’autunno così particolare tutto è sempre in procinto di sembrare altro, quasi il volo di uccelli che partono per chissà dove. È bello pensare che vadano per tornare, perché il bello del viaggio è il ritorno.

© Federico Cinti

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Elegia delle nuvole

 

Pallido il sole, appeso alla lontana

elegia delle nuvole. Silente

ricordo di un’immagine ormai vana

adesso l’ora, immobile presente.

 

Non suono, eco di un’eco evanescente

dove tutto già fu, dove un’insana

rapsodia oscilla tra l’immenso e il niente

eterno, orma d’oblio, ombra profana.

 

Autunno malinconico, infinito

respiro oltre ogni limite, ogni foglia

umbratile, pulviscolo dorato

 

in cui si specchia tutto ciò che è stato,

sogno o realtà d’un tempo sulla soglia

inerte, prima d’essere sfiorito.

 

 

Mi ritrovo così, di fine ottobre, trascinato da un murmure lontano. Dentro o fuori di me? Non lo so dire. Mi ritrovo, ritrovo insomma me stesso, nel fluire incessante di un’ora immobile, accoccolato al sole pallido di un giorno senza età. anch’io non ho età, adesso, tra il fluttuare dei pensieri. Mi sovviene la domanda rivolta dal Recanatese alla «povera foglia frale, / dove vai tu?» (G. Leopardi, Imitazione, 2-3). Dove vado io e da dove vengo? Sulla linea retta dell’infinito mi sento un punto dinamico che respira nell’intuizione diretta del presente. Perché tutto è presente, sempre presente. Agostino ce lo aveva suggerito, ma siamo troppo impegnati a seguire ciò che fugge. Quod sequitur fugio, quod fugit ipse sequor (Ovidio, Amores, II 219).

È questa malinconia, forse, che scava nell’anima informe solchi in cui seminare «in questa giornata sementina» (G. Pascoli, I gattici, 2). La malinconia non è tristezza, bensì il sentimento della tristezza. Guardarsi dentro, tutto qui, ascoltando musiche arcane o dimenticate. È questa malinconia, forse, il vero volto dell’autunno, in cui il tutto muta immobilmente, torna ciò che era e che sarà eternamente, oscillando tra il l’immensità del tutto e l’eternità in cui tutto s’annulla per ricevere il suo senso vero, pieno.

 

 

 

Si cammina, così, lungo la soglia invisibile, segnata dalle foglie a terra, perché «d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, finché ’l ramo/ vede a la terra tutte le sue spoglie» (Inf. III 112-114). Si va, udendo «tra giardini ed orti / di foglie un cader fragile» (G. Pascoli, Novembre, 10-11); si va, cercando comunque tutto ciò che illumina il torpore di queste giornate, come il volto di un amico o di una persona cara con cui parlare, con cui stare per un po’ e condividere il proprio percorso. Nulla di più. Il tempo non può toglierci la gioia di un sorriso fraterno.

 

 

© Federico Cinti

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Variazione sul tema dell’autunno

 

Fruga l’ansia del tempo. L’infinito

rampolla dentro l’anima, alle soglie

ancestrali dell’essere. Assopito

nulla si coglie,

 

cascame in mezzo agli alberi. La via

espia l’ora al crepuscolo. Dintorno

silenzi d’ineffabile armonia

chiudono il giorno.

 

Obliquano i pensieri. Un guizzo estremo

tra un migrare di rondini lontano,

ultimo sguardo a quello che saremo

già stati, invano.

 

Naufrago il cuore nuota oltre il confine

ondoso. Là la meta, il senso appare

limpido, senza veli, inizio e fine,

immenso mare.

 

 

Variazione sul tema dell’autunno, anche oggi, mentre ripenso a quel mio Estremo cielo, dove il «raggio di sole» di Quasimodo (Ed è subito sera, 2), risuonava in me nella versione prosastica – si fa per dire, ma qui tutto è fatto per dire – della Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa al Fu Mattia Pascal di Pirandello: «Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri?».

Non sto nemmeno a ricordare che, nella stessa Premessa, anche se si tende a non accorgersene, il nostro geniale Pirandello aveva alluso pure a Leopardi, sì, al Leopardi della Ginestra, quando scrive: «Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?». Mi pare proprio che le parole del Recanatese, «non pur quest’orbe, promettendo in terra / a popoli che un’onda / di mar commosso un fiato / d’aura maligna, un sotterraneo crollo / distrugge sì che avanza / a gran pena di lor la rimembranza» (G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto, 105-11) siano riecheggiate con grande perizia e umorismo.

Quei «vermucci», del resto, in Leopardi assumono la sembianza, come è noto, delle formiche: «Come d’arbor cadendo un picciol pomo, / cui là nel tardo autunno / maturità senz’altra forza atterra, / d’un popol di formiche i dolci alberghi, / cavati in molle gleba / con gran lavoro, e l’opre / e le ricchezze che adunate a prova / con lungo affaticar l’assidua gente / avea provvidamente al tempo estivo, / schiaccia, diserta e copre / in un punto; così d’alto piombando, / dall’utero tonante / scagliata al ciel profondo, / di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina, infusa / di bollenti ruscelli, / o pel montano fianco / furiosa tra l’erba / di liquefatti massi / e di metalli e d’infocata arena / scendendo immensa piena, / le cittadi che il mar là sull’estremo / lido aspergea, confuse / e infranse e ricoperse / in pochi istanti: onde su quelle or pasce / la capra, e città nove / sorgon dall’altra banda, a cui sgabello / son le sepolte, e le prostrate mura / l’arduo monte al suo piè quasi calpesta» (G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto, 202-230).

Non parlerò dell’allusione pascoliana a questo capolavoro leopardiano, nel Ciocco dei Canti di Castelvecchio. Lo faccio così, di traverso, senza nulla a pretendere. Eppure, Leopardi un po’ c’entra, nella mia divagazione sull’infinito e sul naufragio, sul mare come simbolo eterno dell’immensità e dell’assoluto in cui tutto si compie e a cui tutto tende. Così pure si chiudono le Myricae, «udivasi un fruscìo / sottile, assiduo, quasi di cipressi; // quasi d’un fiume che cercasse il mare / inesistente, in un immenso piano: / io ne seguiva il vano sussurrare, / sempre lo stesso, sempre più lontano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 11-16).

 

 

 

Volevo solo scrivere un biglietto per il compleanno di un mio studente, francesco. I compagni volevano fargli una festa a sorpresa durante la festa che egli stesso aveva organizzato. Quel giorno, tuttavia, avevo parlato di Leopardi, anche se l’autunno si mostrava in tutto la sua prepotente malinconia. Così è nato questo testo, questo piccolo omaggio. Nulla di più. Questa l’occasione, perché ogni testo ha un’occasione, un kairos, inserito nel chronos del fluire della vita. spero resti il pensiero, non altro.

 

 

 

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A Valeria

 

Vaga per l’aria una dolcezza appena

autunnale, un pulviscolo dorato

levita intorno al vento, cantilena

ebbra di nostalgia, di ciò che è stato.

 

Rimane l’ombra rara del passato

in bilico sull’anima serena.

Ancora un passo, un sogno sussurrato

visita il cuore, un brivido alla schiena.

 

Era il tempo sull’orlo, era la foglia

nata sul filo azzurro all’orizzonte

tra le case e due bianche spennellate,

 

ultimo incanto, adesso, dell’estate

ridente tra le cose, sotto il monte,

inizio (o fine?) sull’eterna soglia.

 

 

Ed è un nulla, così, voltare pagina, inizio e fine di qualcosa che non si sa, che non si vuole sapere fino in fondo. Ci si sforza di procedere come se nulla fosse; eppure, sappiamo bene dell’ingranaggio. Risuonano le parole di Orazio, quam minimum credula postero (carm. I 11, 8). Domani non c’è ancora e non ci sarà più. Leopardi lo aveva detto, parlando in un linguaggio segreto: «Lungi dal proprio ramo, / povera foglia frale, / dove vai tu?» (Imitazione, 1-3). Lo aveva detto, inseguendo il fluttuare nel vento delle foglie sul principio d’autunno. Ecco, forse è la malinconia autunnale, questa luce particolare che da sempre mi affascina e mi sgomenta.

Tra i rami degli alberi il sole sembra indugiare, come dimentico o smarritosi, mentre il vento canta antiche cantilene, miti senza età che sanno di vita e di ricordo. È l’estate fuggita chissà dove, chissà quando, impercettibile immagine oltre il margine, dentro l’«incartocciarsi della foglia / riarsa» (E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 2-3) nulla di nuovo, certo; eppure, ritornano sensazioni ed emozioni senza tempo. Un giorno come gli altri, certo, un giorno come nessuno, un giorno in cui fare festa.

Resto così a fissare il tacito scorrere delle cose, non certo senza un rassegnato piacere. È il pomifero autunno, nella sua giovane antichità ad attirare la mia immaginazione. Nulla di più, credo, nulla di meno. Il resto fluttua altrove, tra i rami protesi all’infinito nella loro fissità pensosa. E penso anch’io a queste parole che forse non rileggerò.

 

 

 

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Inno a san Matteo Apostolo ed Evangelista

Eri un giusto tra gli ultimi,

Matteo; ti rese Apostolo

Gesù, dicendo: «Seguimi!»,

e lo seguisti subito.

Accogliesti il suo annuncio

con umile fiducia

e abbandonasti il tavolo

d’esattore a Cafarnao.

Fosti lo scriba autentico

del regno che, per scrivere,

prendesti dalle pagine

cose nuove e antichissime.

Tu raccontasti l’unica

salvezza al mondo naufrago,

Gesù, Figlio Unigenito

del Padre nella gloria.

Ispirò il Santo Spirito

il tuo Vangelo, autentica

testimonianza fervida

dell’amore salvifico.

Vedesti Gesù ascendere

in cielo tra le nuvole

insieme coi discepoli

nei pressi di Betania.

Portasti il lieto annuncio

dovunque, a tutti i popoli,

nel nome dell’Altissimo,

del Figlio e dello Spirito.

Santo Apostolo e martire,

Evangelista nobile,

con te fa’ che nei secoli

a Cristo diamo gloria.

Amen.

Nel giorno della memoria liturgica dell’Apostolo ed Evangelista Matteo, il 21 settembre appunto, propongo l’inno che ho scritto per cantarne le virtù eroiche, anche perché ne mancava uno ad hoc. O, per dirla tutta, c’era pure, ma in latino, e di nuova composizione, naturalmente sempre in dimetri giambici, come da tradizione. Questo il motivo per cui io ho scelto il settenario sdrucciolo, onde ricalcarne il ritmo nella lettura grammaticale e poter sovrapporre il testo italiano al modulo con cui si canta in gregoriano. Va da sé che il mio non è completamente avulso dall’originale latino, anche perché una traduzione vera e propria è impossibile. Sarebbe più corretto dire una trasposizione o una versione. Ma il dibattito sulla resa, tradere an vertere, per usare un dilemma antico come le parole usate per esporlo, resta un problema insolubile ed è, mea sententia, il suo fascino.

Di seguito riporto l’originale latino:

Praeclára qua tu glória,

Levi beáte, cíngeris,

laus est Dei cleméntiae,

spes nostra ad indulgéntiam.

Telóneo quando ássidens

nummis inhæres ánxius,

Matthaee, Christus ádvocans

opes tibi quas praeparat!

Iam cordis ardens ímpetu

curris, Magístrum súscipis,

sermóne factus ínclito

princeps in urbe caelica.

Tu verba vitæ cólligens

Davídque facta Fílii,

per scripta linquis áurea

caeléste mundo pábulum.

Christum per orbem núntians

conféssus atque sánguine,

dilectiónis vívidæ

suprémo honóras pígnore.

O martyr atque apóstole,

evangelísta nóbilis,

tecum fac omne in saeculum

Christo canámus glóriam.

Amen.

A rileggere questi due inni l’uno dopo l’altro, lo ammetto con umile orgoglio, non mi pare venuto male il mio. Insomma, ne sono soddisfatto: questo intendevo dire. Poi, si sa, il giorno odierno passerà, magari senza che alcuno si ponga il problema di un testo da cantare. Mala tempora currunt, nostraheu tempora! Diciamo pure così, stringendoci nelle spalle, come i personaggi di Pirandello.  

© Federico Cinti

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A Francesca

 

Allora e sempre. Un palpito d’azzurro.

Fu così, lo ricordo, fu un lucente

raggio quella mattina il tuo sussurro.

 

Adesso e allora, tra l’eterno e il nulla,

nel sole obliquo, in mezzo a ignota gente,

c’eri tu, dolce viso di fanciulla.

 

Eri così, lo sai. Tutto è immutato,

silente tra le immagini dintorno.

Chiamo il tuo nome, soffio d’un passato

ancora così lieve in questo giorno.

 

 

Eppure, fu così, non so nemmeno più quanti anni fa né, forse, è importante saperlo: il tempo è una variabile soggettiva tanto nei ricordi quanto nei sogni. Per questo, un giorno lontanissimo è come ieri, è come oggi. Infondo, è come se si vivessero e rivivessero emozioni, quasi dentro lo specchio di noi stessi, alla ricerca di quello che eravamo. In questo 16 settembre tutto si rifà presente, tutto acquisisce il senso che non si era mai pienamente percepito, che io non avevo mai veramente compreso. Un giorno come gli altri, certo; eppure, un giorno unico, come quello in cui un raggio di sole entrò nel buio di un’aula scolastica una mattina.

Nella mia memoria, dopo l’ingresso dalla parte di via Maggia, nel centro di Bologna, l’albero si trova ancora attaccato al muro della palestra piccola, il cortile ha ancora i due canestri e le righe bianche a segnare un campo un po’ dissestato. Era il Minghetti di allora, l’antico palazzo Lambertini vestito da scolaro indisciplinato. Era il primo giorno, tutto qui, in cui si dava avvio a una nuova stagione. Tutto era ancora da venire, nel fascino dell’ignoto. Non lo sapevo, non lo potevo sapere. Oggi il ricordo è proprio quel raggio di sole nella stanza buia al primo piano, dai muri scalcinati, con la cartina della Grecia classica tra la porta e la lavagna.

Un filo d’azzurro il cielo tra le case, gli occhi di una compagna così particolare, così speciale da ricordarla tuttora, in questo giorno in cui compie gli anni, in cui il ricordo si fa tutt’uno con lei. Oggi è il giorno di Francesca. Il tempo non sembra essere trascorso e forse non lo è nemmeno. Siamo ancora quelli di allora, sui banchi verdi, alcuni ancora con il buco per il calamaio. Che strano ripensarci adesso che mi sento un superstite dopo il naufragio. Eppure, questo giorno è una consolazione per me, un augurio per Francesca.

 

 

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Avresti la mia età

 

Inerte il cielo. Un brivido riscuote

la memoria assopita. All’improvviso

affiora, come allora, il tuo sorriso,

rarefatto tra immagini remote

 

in cui trovarsi e perdersi. Vie ignote,

adesso, un filo d’erba ormai reciso.

Chissà che pensi. Tutto quanto è intriso

ancora di quel tempo, delle vuote

 

miserie di quegli anni. Oggi è il tuo giorno.

Passerà, come gli altri, come il resto.

Avresti la mia età, non me lo scordo.

 

Già fosti, un soffio di tra il vento sordo.

Non dimentico, in questo giorno mesto:

avresti la mia età, né fai ritorno.

 

 

Pochi anni o molti che importa? Non ricordo nemmeno più quando fu l’ultima volta, forse subito dopo la fine del liceo. Ci ritrovammo a scuola insieme, per una strana fatalità. Prima si prendeva solo lo stesso autobus. Parlarne adesso mi fa un certo effetto. Veramente un altro mondo, un’altra vita, un’immersione in quel tetro fondo di ricordi. E ancora «cigola la carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1) a ricercare la luce in cui fondersi in questo giorno di settembre, il tuo giorno, anche se poi veramente non lo abbiamo mai festeggiato. Lo seppi anch’io per sbaglio, quando dicesti che compivi gli anni assieme ad Andrea, altro amico di cui ora non so più nulla.

Non mi parve vero venire quel giorno di gennaio a salutarti all’Abbazia di Zola. Lo imparai da Lucia, con le lacrime agli occhi. Forse non è vero nemmeno adesso: non ci hai salutati, non ti sei incamminata per l’oscuro «iter tenebricosum / illuc, unde negant redire quemquam» (Catullo, carm. III 11-12). Sei qui con noi, mentre ti ricordiamo, a distanza di tanti anni. Mi resta di Catullo anche l’immagine del fiore reciso, «cecidisti velut prati / ultimi flos, praetereunte postquam / tactus aratro est» (carm. XI 22-24).

 

 

 

Tengo anch’io in mano il filo dei ricordi «che s’addipana» (G. Montale, La casa dei doganieri, 11), di quel tempo così particolare che non si vede l’ora che passi e poi, una volta fuggito, si rimpiange ogni istante. Avresti la mia età, Ilaria: lo so bene. Tu non ritorni e anche questo so bene. Ma che importa ricordarlo adesso? Volgersi indietro alle volte è necessario, perché «trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 3-4). Narciso oppure Euridice non importa: quel tempo è chiuso chissà dove, emerge solo a improvvise illuminazioni, come la poesia del Porto sepolto, per cui «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7). Così, Ilaria, è la poesia e così la vita.

 

 

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Sul finire d’agosto

 

Attesa vana il tempo che va via:

rosa un filo sull’ultimo orizzonte,

Bersaglio al cuore, antica nostalgia;

torna azzurro il sereno dietro il monte.

Lenti i ricordi affiorano, pensieri,

ombre d’ombre su fragili sentieri.

Narciso, eterna immagine che muore,

di nuovo si rigenera in un fiore.

 

 

Non s’attende passare il tempo: lo si vive o lo si uccide, lo si prende o lo si perde. Starsene sul confine dei mondi è come starsene su quello dei mesi: una vertigine difficile da reggere. O di qua o di là, appesi al filo della decisione. Una scelta è guardarsi indietro o procedere. Nulla è mai dato invano, anche nell’apparente casualità degli avvenimenti. Ci si ferma a riflettere, questo sì, come Narciso dinanzi alle acque del fiume che eternamente scorre, il fiume della vita, le cui acque non sono mai le stesse, come le immagini che troviamo per la prima volta e ritroviamo per sempre. Anche l’identità del fiume esiste solo nella nostra ansia di catalogare l’universalità dell’essere. Tutto scorre nell’infinito vortice del fiume.

 

 

 

Anche attendere è un passaggio, un trascorrere lento dell’ora. Lontano un filo rosa, «cirri di porpora e d’oro» (G. Pascoli, La mia sera, 20), mentre a poco a poco, quasi impercettibilmente, «torna azzurro il sereno» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 16), una linea d’ombra che scivola tra il cupo in cui tutto si smarrisce. Nulla è più come prima, anche se tutto pare essere rimasto uguale. Ricomponiamo di volta in volta soltanto i pezzi di un mosaico che va in frammenti, ascoltando «in rime sparse il suono» (Rvf I 1) la voce della nostra antica coscienza.

Restano forse gli «esuli pensieri» (G. Carducci, San Martino, 15) su quel confine «tra le rossastre nubi» (G. Carducci, San Martino, 13) a consolarci dell’eterno trascorrere del tempo, dopo che il sole obliquo ha percorso nuovamente il suo tragitto. Transito, null’altro che un transito, all’esterno e all’interno di noi. Ricordi di ciò che fu, di ciò che forse sarà, come in un altro quadro Di fine agosto, tesoro senza fine dentro il cuore. Era un giorno così, come questo, eppure così malinconico già allora. Lo vissi e lo rivissi, fino a trattenerne il pulviscolo dorato dentro l’anima, come se eternamente scendesse «tra gli olmi il sole / in fasce polverose» (G. Pascoli, Patria, 7-8).

Narciso di nuovo e per sempre attende, nella fissità della nostra fantasia, sull’argine del fiume, di trasformarsi nuovamente in fiore, nella sua vera essenza di bellezza pura e algida. Di qua e di là dal quadro due verità si specchiano e si rispecchiano, l’una più autentica dell’altra. Il tempo non finisce e non comincia in questo ciclo di corsi e di ricorsi, dalla creazione al finale giudizio. Coglierne i progressi e i ritorni diventa esercizio di alta speculazione ermeneutica cui non ci si può sottrarre ingenuamente. Eppure, il tempo corre e noi con lui.

 

 

© Federico Cinti

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Placida nostalgia

 

Assorta l’ora pallida

giace, eco impercettibile nell’anima

inerte. Antiche immagini

udite oltre l’abbaglio, linea fragile

 

laggiù, oltre l’ombra vacua

in cui sognare. Ennesimo rifugio

appena conoscibile,

musica ignota, eppure così prossima,

 

eppure così vivida,

laggiù, nel quieto margine in cui perdersi:

come in un incantesimo,

hanno i pensieri il volto delle favole.

 

Inutile rivolgersi

ora indietro a cercare: in questa placida

nostalgia lento indugia

il desiderio ad ascoltare un palpito.

 

 

In questa fine d’agosto sembra sul punto di finire l’estate, anche se ancora un mese ci separa da quello che Orazio definiva malinconicamente pomifer autumnus (carm. IV 7, 11), nel ciclico avvicendarsi delle stagioni, la cui eco ritrovo in questi versi carducciani, «m’asconda ella gl’inanimi / fiori del giovin anno: / essi ritorneranno, / tu non ritorni più» (G. Carducci, Primavera classica, 21-24), seppur invertiti di segno. Nella contemplazione della natura che inesorabile procede si risolve ogni contraddizione, l’anticipo di quel che già sappiamo e che un poeta esprime con forza meglio di qualsiasi ulteriore riflessione: «Autunno. Già lo sentimmo venire / nel vento d’agosto, / nelle piogge di settembre / torrenziali e piangenti / e un brivido percorse la terra» (V. Cardarelli, Autunno, 1-5).

In questo scorcio d’agosto tutto torna, anche il sole obliquo in attesa della sera. Così almeno mi pare, in giorni sempre più brevi e quasi lontani da quel giugno ristorato, diciamo pure così, «di luce e di calor» (G. Carducci, Pianto antico, 8), come il famoso «muto orto solingo» (Id., Ibid., 5). Senza stupore, certo, ritorna il pensiero di ciò che fu in ciò che sarà. Penso a me, alla linea che separa questi giorni dagli impegni professionali e mi risento nei versi pascoliani in cui si ricorda che «chioccola il merlo, fischia il beccaccino; / anch’io torno a cantare in mio latino» (G. Pascoli, O vano sogno, 11-12), che altro non è se non la citazione di uno dei più grandi fedeli d’amore di «cantin[n]e gli auselli / ciascun in suo latino» (G. Cavalcanti, Rime, I, 10-11). Eppure, anche questo ha un suo fascino ineludibile, il fascino della fuga verso lidi lontani, dove la fantasia apre a mondi senza limiti e confini.

In quest’ultima decade d’agosto ogni cosa pare ancora sospesa, tra il qui e l’altrove in cui tutto si fa possibile, come un’antica musica lontana, nell’anima, sentita e risentita «come in conchiglia murmure di mare» (G. Pascoli, Alexandros, IV 6). perché si vive, certo, si vive in questo punto dinamico sulla retta dell’infinito, con alle spalle ciò che non è più e innanzi agli occhi quel che non c’è ancora. È una sfida continua oltreché un tornare ritornare alla propria isola, in fuga da Calipso, dal nascondimento in cui alle volte ci si smarrisce. Il sole estivo può dare tali dolcezze dabbagli0.

In questo tornare e ritornare, è ovvio, qualche cosa può restare indietro. Ecco, non dico d’aver fatto apposta, ma, per riprendere il venusino più famoso degli ultimi duemila anni, Orazio, damna tamen celeres reparant caelestia lunae (carm. IV 7, 13). Ebbene, tutto resta poi al fondo di quella conchiglia che è il cuore umano a ripetere le emozioni già vissute e mai scordate. In questo non ci sono giorni uguali agli altri, ma un continuo fluire ininterrotto. E tornano a biondeggiare i campi prima che la falce mieta le messi così prospere, così vere, e torna quindi a rosseggiare, come nei dipinti bucolici dell’età dell’oro cantata da Virgilio, l’uva dalle siepi.

 

 

 

© Federico Cinti

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