A Francesco in un giorno d’estate

 

Fragile nel pallore meridiano

rimane il sole, attonita parvenza

al confine sul margine lontano,

nella sua vacuità presente assenza.

 

Canto antico di sogno, reverenza

estatica nel blu, riflesso vano,

scuotono il cielo le cicale senza

chiederne più il perché, sempre più piano.

 

Opaca sonnolenza sulla sponda

piatta del cuore, sembra fermo il giorno

in un attimo eterno che dilegua.

 

Eppure, il tempo incalza senza tregua,

rincorre ciò che fu, dolce ritorno

in una ricorrenza, onda dopo onda.

 

 

A Francesco, un amico carissimo. So che non fa d’uopo indugiare su certi particolari, e infatti non mi ci soffermerò troppo; eppure, oggi non posso fare a meno di dedicargli qualche verso. Nulla di che, intendiamoci, un acquerello a tenui tinte. Anche a lui credo basti questo. So che gli fa piacere, almeno auguro. Anzi, glielo auguro: un augurio non si nega a nessuno, soprattutto in determinate ricorrenze. La ciclicità del tempo s’innesta sulla linearità della storia, alfa e omega in un eterno ritorno. Tutto qui. Chissà, forse è al mare: di solito ne aveva l’abitudine in questo suo giorno. Va da sé che qualche cosa si è incrinato.

Ecco, a Francesco oggi dedico questi versi. Mi piace non lasciare nulla al caso, anche perché mi convinco sempre più che non esista. Ci sforziamo a dimostrare che una mente ordinatrice non c’è; eppure, nulla è più vero di questo. La dissacrazione del pensiero potremmo definirla, con Virgilio, una prisca fraus, un segno di cui si deve prendere coscienza; altrimenti, il redde rationem rischia di essere molto rischioso. Perché, ammettiamolo una buona volta, fingiamo di essere autosufficienti, senza poterlo essere. Ricordo quel che Dante dice a Cavalcante: «Da me stesso non vegno». Che poi altro non è se non il giovanneo «a me ipso non veni» (Gv 7,28). Ecco, se non comprendiamo questo, scivoliamo nel «vanitas vanitatum».

Chissà poi perché questi discorsi, oggi, in cui dovrei solo dedicare a Francesco qualche verso in questa ricorrenza. In ogni caso, come ho potuto e saputo, l’ho fatto. E mi auguro, e gli auguro, di esserne sodisfatto. Alla riva di questo mare abbandono la mia amicizia, come «onda dopo onda», tanto per citarmi, come se tutto fosse già scritto. Insomma, nulla di più che un eterno «panta rhei».

 

 

 

© Federico Cinti

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L’ultimo naufragio

 

Azzurro il cielo, libera

nuota la fantasia. Placida l’anima

giace in un sogno etereo,

ennesimo librarsi tra le nuvole.

 

Lassù tutto è possibile,

in quel supremo scorrere dell’attimo,

caducità in cui essere

ancora e sempre ciò che si desidera.

 

Danzano in mezzo agli alberi

immagini di un tempo ormai perdutosi,

rarefazioni pallide

in cui specchiarsi, come antiche favole

 

eterne d’incantesimi

nel cuore. Poi il risveglio a un tratto. Liquido

zampilla all’occhio incredulo

obliquo il sole, l’ultimo naufragio.

 

 

Ecco, un sogno che si spazia nell’azzurro dove cielo e mare si congiungono, una fantasia senza limiti pronta ad andare oltre, a superare ogni ostacolo. Nulla resta precluso a chi sa guardare con occhio libero ciò che fissa con il desiderio di conoscere. Così immagino una giornata estiva, di questo agosto in cui il vento sembra una carezza calda su cui volare alla ricerca di un incantesimo. È poi la magia di un tempo eterno, contradictio in terminis, certo, nel perpetuo scorrere del tutto in cui abbandonarsi. Chissà, forse nacque così la mitologia sulle sponde delle acque in mezzo alle terre, quelle acque che ondando sarebbero diventate il Mare nostrum.  

In questa prospettiva un sabato d’agosto diviene una festa, una linea d’ombra da attraversare senza troppo pensarci. Un giorno, nulla più, ma di quelli che scorrono via e lasciano traccia nella memoria. Potrei diffondermi molto di più, per evitare zone di oscurità, ma chi deve capire credo abbia già intuito. Un augurio si può fare anche senza esplicitarlo. Alcune volte l’ho fatto, come oggi pure, in un sabato in cui il pomeriggio appare piatto dopo il solito meriggio. Insomma, direi che angelica lo sappia e tanto basta. Ad altri suoi amici ho scritto, ad altri no. Prima o poi dovrò recuperare. Il fatto è che non si scrive a comando. Mi accontento di una divagazione azzurra al di là del limite. Questo il mio augurio.

 

 

© Federico Cinti

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Auguri, Chiara

 

Assorto nel meriggio

un pallore d’azzurro tra le nuvole

galleggia all’inquietudine

umbratile di un fremito impalpabile.

 

Rimane tra le palpebre

il mormorio delle cicale tremule.

Chiara laggiù nell’anima

ha innanzi l’occhio incredulo un’immagine.

 

In quel sorriso labile

abita una vertigine ineffabile.

Rapida all’aria tenue

ancora fugge, ennesimo incantesimo.

 

 

Alla fine di luglio qualsiasi cosa è possibile, soprattutto quando s’affaccia il tempo della vacatio, che non è semplicemente la vacanza vagheggiata a scuola dagli studenti, e forse – azzardo io – anche più dai docenti, ma soprattutto il tempo libero da dedicare a se stessi e alla propria crescita intellettuale, morale e spirituale. Ecco perché, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16) o quando «posa il meriggio sulla prateria» (G. Pascoli, Dall’argine, 1), tanto per citare un autore a me carissimo, la riflessione su se stessi diviene pressoché obbligatoria se non scontata. Dal più alto dei cieli al più profondo del cuore, come in uno specchio, ci si smarrisce e ci si ritrova in un abbraccio inscindibile. Anche i suoni si fanno echi di un mondo fuori del tempo, in un mare affogato di cicale.

Alla fine di luglio tutti i miti si riaffacciano in un rigurgito di sfrenata inerzia a mostrare la loro eterna vitalità, Narciso ed Eco, Orfeo ed Euridice, le cicale e il mare. Tutto veramente si fa possibile, se non reale, nella sonnolenza estatica dell’ora che posa oziosa e si perde lontano, come un ricordo affiorato e subito svanito, come una voce che a poco a poco se ne va per un sentiero ignoto, come una musica appena percepita chissà da dove, chissà da chi. Riaffiorano alla mente i deliri della «gna Pina», errabondi per le campagne riarse di Sicilia, «quando il sole batteva a piombo» (cfr. G. verga. La lupa).

A luglio tutto si fa possibile, anche scrivere gli auguri a un’amica, Chiara Pazzaglia, senza necessariamente cadere in versi d’occasione, perché la poesia nasce di per sé da un’occasione, da un «kairòs», che ne è sua fonte e culmine. Il correlativo oggettivo non se lo è certo inventato Eliot o Montale. Lo ritroviamo già nel mondo antico, anche in un poeta sublime come l’Orazio lirico, per esempio nella fonte di Bandusia, che tanti prima di me hanno studiato, amato e tradotto. Ecco, oggi l’occasione è proprio questo compleanno così particolare, così netto nel traguardo e nelle intenzioni. Alla corsa del tempo ogni tanto ci si può opporre e non con atteggiamento nostalgico, come se si volesse obbligatoriamente volgere indietro, ma solamente per un augurio, come scritto su un muro, quello della memoria.

 

 

 

© Federico Cinti

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Nulla è mai invano

 

Antica eco di sogno, nell’azzurro

nuota il sorriso limpido del sole,

nel cuore inconfondibile un sussurro.

 

Attesa che si scioglie, nello specchio

ritornano alle labbra le parole,

orma del tempo, il nuovo dentro il vecchio.

 

Chiamo e non vedo. Un palpito lontano

ci unisce e ci divide sulla via.

Ho un sussulto. Lo so: nulla è mai invano.

In questo giorno tutto è nostalgia.

 

 

Mi fermo sulla soglia a rimirare quello che non è più. Nel tempo tutto cambia, anzi si trasforma inesorabilmente. Non dico sia un male. Semplicemente si tende a non accorgersene, quasi che ogni cosa debba rimanere sempre uguale a se stessa. Il tempo di per sé, sempre ammesso esista davvero, è un eterno fluire, un punto dinamico sulla retta dell’infinito. Andare avanti o indietro? Questa la domanda senza risposta. A un certo punto della storia il progresso si è interrotto per lasciare spazio ai vagheggiamenti di ciò che non sarebbe mai più potuto essere e tutto ha cominciato a incrinarsi irrimediabilmente. In quel punto estremo comincia la dialettica tra lineare e circolare. O almeno così mi pare.

Anche un compleanno, come quello di una mia compagna di liceo, può generare tali excursus spazio-temporali, perché «nulla è mai invano». La soglia è simile allo specchio in cui ci si riflette, senza mai essere tuttavia identici a prima, figuriamoci a dopo. Quello non sono io, non posso essere io, né ne ha la pretesa, almeno credo, anche se ci si affanna a trovare il senso – o forse solo un senso – a quell’immagine. Non so se sia veramente il perturbante, come avrebbe asserito Sigmund Freud. Mi ci perdo, labirinto di idee senza forma, simili a nebulosa, simile all’abisso di cui parla il sommo Dante: «Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa» (Inf. IV 10-12). O forse, più semplicemente, mi accontento di intravvedere qualche cosa di lontano, di cogliere un pur vago senso nell’immenso mistero delle cose.

 

 

 

Ero poi qui per fare gli auguri, ma il sentimento del tempo, come avrebbe suggerito il vecchio Ungaretti, mi ha trascinato altrove. Anzi, mi ha portato sicuramente nella direzione giusta, oggi che si ha la pretesa di vivere in un eterno presente. Meglio sarebbe vivere alla presenza eterna, ma molti fingono di poterne fare a meno. Il solito delirio di rifiutare ciò che si ha in vista (o in virtù?) di ciò che non si ha. Ripeto, anche perché l’ho detto io, «nulla è mai invano». Anche il sentimento del tempo, che tanto sgomenta e spaura, si fa di tutto per allontanarlo. Ecco, allora, ciò che fu e ciò che sarà, senza mai prendere coscienza di ciò che è. Ma va bene, ho forse parlato pure troppo di quel che non importa più a nessuno. Siamo qui a fare gli auguri, null’altro, e gli auguri facciamo, ad Anna.

 

 

© Federico Cinti

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A mio padre, nel giorno del suo compleanno

 

Era ieri, papà: lo so benissimo

che era il tuo compleanno. Non dimentico.

È che il tempo si perde in cose inutili,

senza senso. Il sei luglio

 

era festa. Anche adesso. Un’ombra fragile

di quei momenti. Resta solo un dialogo

muto. Nel cuore un’eco di silenzio

alberga in me, impalpabile

 

ricordo d’un sorriso. Ecco, nell’essere

ancora qui, nella tua casa, il brivido

che tutto è come allora. Il giorno scivola

di nuovo impercettibile,

 

ma ti parlo, ti sento. La tua seggiola

è vuota, è sempre lì dalla domenica

in cui ci hai salutato al raggio pallido

dell’alba addormentandoti.

 

Ieri era la tua festa. Eri nell’aria,

eri tra noi. Nell’anima la semplice

gioia di questo giorno etereo, labile

d’autentica letizia.

 

 

 

Non riesco a non fermarmi a pensare, anche per poco. È più forte di me, anche quando la tirannia del tempo trae altrove. Un giorno passato un po’ in sordina, ieri, tra visite di amici e telefonate. Eppure un pensiero, un tarlo agiva in me. il giorno è trascorso così, senza che io riuscissi ad abbozzare nemmeno un ricordo. Ma vedi, papà, tu facevi di tutto perché non ci ricordassimo che compivi gli anni. È avvenuto di nuovo così, ma noi Non abbiamo dimenticato. E come potremmo? Non potevamo nemmeno allora, quando, arrivato a sera, ci guardavi per vedere se fingessimo o facessimo per davvero. Dare soddisfazione non era il tuo forte: dimostravi il tuo affetto in altro modo. In questo un po’ ti somiglio. Sì, va bene, non solo in questo; ma non è il momento di sottilizzare troppo.

Devo ancora farti gli auguri: non dimenticarlo. Il giorno dopo credo possa andare lo stesso. Non ti formalizzerai troppo, ora che sei fuori del tempo, ora che ti sento sempre con noi e so che sai bene quel che ci passa per la testa e nel cuore. Era il giorno in cui passavi in rassegna i compleanni di tutti. Ora che siamo rimasti soltanto noi, continuiamo quel gioco. Noi ti vogliamo ricordare come eri, sempre allegro e sereno. Il resto non ci interessa: sappiamo già il finale della storia. Insomma, papà, auguri, anche se il giorno dopo, auguri di un felice compleanno.

 

 

 

© Federico Cinti

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Un fiore novello in mezzo ai fiori

Non si fa, stare zitti non è bello,

oggi poi che il maestro di tralice,

vede e non vede, dice e poi non dice,

escogita qualcosa nel cervello.

Levigo qualche verso col cesello,

lavoro un po’ di lima, come Nietzsche

o qualche altro filosofo infelice,

batto e ribatto il ferro col martello.

Alla fine, qualcosa uscirà fuori.

Lo so che dovrei scrivere gli auguri

di compleanno al nostro caro Baldo,

oggi che è il giorno giusto, il giorno caldo.

Non taccio. Tutto è puro per i puri.

Insomma, è nato un fiore in mezzo ai fiori.

Un po’ di timore ce l’ho, lo confesso: la matita rossa e blu, Novello, la tiene sempre in mano. certo, sono poi i suoi colori preferiti, rosso e blu, quelli del Bologna. lo ricordo leggere simultaneamente lo “Stadio” e la “Gazzetta dello Sport”, il lunedì, sempre ammesso glielo dessero libero. Le fatiche calcistiche della domenica lo spossavano non poco. Chissà adesso che sono spalmate su quasi tutta la settimana. Non voglio pensarci, anche perché ci pensa già abbastanza lui. Per riprendere uno dei suoi motti preferiti, «ognuno ha i professori che si merita». A distanza di anni, sento tutto il sapore dell’excusatio non petita, ma è un mio retropensiero. E poi lo ripeto pure io ai miei studenti, oggi che malauguratamente mi sono incamminato per la sua via. Malauguratamente per me, naturalmente, perché raggiungere le sue vette è pressoché impossibile. Anzi, mi hanno incamminato, anche perché qualche cosa nella vita bisogna pur fare per sopravvivere.

Mi permetto di divagare un po’, anche perché immagino che non perderà tempo a leggere questi miei pensieri in libertà. Pensieri e versi, diciamolo pure. So che ha una sensibilità acutissima e quindi avrebbe ritrovato il labor limae, la doctrina, il lepos tipico dei poetae novi. Ecco, la novitas per Novello: direi che calzi proprio bene, a pennello. Gli auguri, in fondo, sono una cosa seria ed egli stesso potrà testimoniarmelo. Anzi no, perché non leggerà: ci scommetto. Sarà sommerso di auguri, oggi, di incontri al vertice e alla base, di strette di mano, di baci e abbracci. Io me ne resto in disparte, nel mio cantuccio da venticinque lettori suppergiù. Non se ne avrà a male.

Come tutti sanno, omnia munda mundis, per riprendere il motto paolino della Lettera a Tito: «tutto è puro per i puri». Come Matelda, cantiamo e scegliamo pure «fior da fiore» (Purg. XXVIII 41) da donare a un amico. Che è poi egli stesso un fiore, un fior novello! So che l’ironia è il suo forte e, se caso mai dovesse capitare in quest’angolo oscuro del mio giardino, si troverà perfettamente a casa propria. Si finirà «come le star / a bere del whisky al Roxy bar», per citare uno dei suoi cantanti. O almeno credo che lo sia, se non ha cambiato gusti in questi tempi di rivolgimenti da rerum novarum cupiditas. Avvieremo un dialogo ciceroniano sui massimi sistemi del mondo, alla faccia di chi cavilla sul nulla, e troveremo il vero senso delle cose. Un giorno è già capitato, anni fa è capitato che egli mi sia venuto a trovare al bar, mentre festeggiavo con i miei studenti la fine della scuola.

Che dire di più all’amico Novello? Auguri. Ecco, gli faccio gli auguri. Per questo mi sono azzardato a mettere mano all’aratro e a dissodare questo campo da Indovinello veronese. «Auguri» va poi bene. Come sosteneva qualcuno, ne quid nimis. Insomma, Novello, auguri. Te lo ripeto, tanto so che non leggerai: auguri.

 

 

© Federico Cinti

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Giorno d’estate

 

Affiora arcana all’anima

un’aura di dolcezza indefinibile:

già fu nella memoria

un tempo dileguato oltre ogni limite.

 

Rivedo aeree immagini

in controluce, su uno sfondo tenue,

appeso quasi all’attimo,

come chi, per un fragile incantesimo,

 

ha sognato il miracolo

indicibile, il mare azzurro al lucido

alito a cui s’increspano

riflessi liquescenti d’oro tremulo.

 

Ancora brevi brividi

vagano in cielo sulla nera linea

adagiata sul concavo

nulla in cui tutto sembra tra le nuvole.

 

Nel cuore si dissolvono

i dubbi, le incertezze: solo gioia

nell’ora che dilegua

inerte in questo giorno di tripudio.

 

 

Nel perpetuarsi dell’attimo nulla è dato per sempre, pur divenendo eterno memoriale di ciò che è stato e di ciò che sarà. L’intuizione diretta, il punto dinamico sulla retta dell’infinito che chiamiamo presente, va colto, come si fa e sempre si è fatto, in immagini di sinestetica liquescenza sonora, visiva, olfattiva, quasi «coi brividi brevi del vento» (G. Pascoli, Lapide, 20) per dirla con le parole dell’ultimo figlio di Virgilio. Nell’incantesimo estivo tutto diviene possibile al di qua e al di là della linea che separa l’azzurro, in una traslucida armonia senza limiti e confini. Chissà, se tutto è metafora di tutto, se noi possiamo volare oltre quell’estremo margine in una reale fantasia o in una realtà fantastica?

Tutto si rende visibile all’occhio abbagliato dal sole, nel caldo abbraccio del vento. Le ricorrenze si susseguono, quasi ostacoli da superare con scaltrita facilità. Resta un’orma nel cuore, la soddisfazione di esserci stati, di avere partecipato al momento propizio, mentre il tempo fugge. Tutto si fa insondabile motivo di gioia, dal compleanno alla laurea al semplice riposo, mentre si ascolta la ritmica voce del mare, il richiamo ancestrale al superamento del tangibile che abbiamo di fronte. Una nuova meraviglia si scorge, vinta l’ultima resistenza. L’ignoto ci si mostra senza veli, senza infingimenti. Il vero peccato sarebbe fermarsi, sarebbe accontentarsi. Ai più la foresta di simboli resta un libro chiuso dalle pagine bianche.

 

 

 

Abbandonarsi al languido sospiro dei giorni estivi ha il senso dei sogni vissuti e mai più dimenticati. Così termina il giorno, così inizia di uovo, con un senso rinnovato di soddisfazione per ciò che si era e non si è più. Eppure, in estate tutto si rende possibile, quasi vivesse di vita propria, in un tempo infinito. Nell’assordante canto delle cicale l’attaccamento all’essere, non al divenire. Nulla è più importante di questa testimonianza. La formica non lo capisce, perché vive sempre nel domani, mai nel presente. Ecco le antiche favole, ecco i miti, ecco noi stessi a guardarci riflessi in ciò che non siamo, ma sembriamo. Dove siamo nascosti? Al di qua o al di là dello specchio? E se quella linea s’infrangesse, se mancasse il contatto e non sapessimo più chi siamo? L’oscuramento del mondo comincerebbe proprio dal non poterci mostrare più, ma solo dall’essere mostrati dagli altri. In un giorno d’estate, chissà, forse pure questo potrebbe essere possibile.

 

 

© Federico Cinti

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Inno a santa Veronica Giuliani

 

Veronica, dolce sorella,

risuoni il tuo nome nel Cielo

e simile a incenso si elevi

il canto che adesso ti offriamo.

 

Vivesti in perfetta letizia

nell’umile nascondimento

e amasti, credesti, sperasti

nell’unico nome che salva.

 

Nel chiostro del cuore tu fosti

amabile figlia del Padre,

discepola saggia del Verbo

e sposa che amò il Santo Spirito.

 

Servisti in letizia il Signore

con animo puro, obbediente,

finché contemplasti il suo volto

in mistica unione con lui.

 

Gesù ti donò le sue piaghe,

le stimmate sante d’amore,

l’eterno sigillo che rende

visibile in chi ama il Mistero.

 

Tu fosti ogni istante di Dio,

a immagine sua e somiglianza,

soffrendo con lui e per lui

l’ingiusto dolore del mondo.

 

Veronica, sia gloria a Dio

che adesso contempli beata,

sia gloria al Signore che viene,

che era e che è eternamente.

Amen.

 

 

Nel giorno in cui si ricorda il felice transito al cielo di santa Veronica Giuliani, avvenuto il 9 luglio 1727, ricevo questa grazia singolare, che il mio inno a lei dedicato sia cantato nella solenne liturgia dalle Clarisse Cappuccine che oggi vivono in clausura proprio nella casa natale della santa. Un dono, questo, di immenso sollievo e di indicibile dolcezza, lo devo confessare. Non me lo sarei mai aspettato il giorno in cui ne ho conosciute alcune, sempre per grazia, certo. Ho avuto netta l’impressione che santa Veronica mi fosse venuta a cercare per farsi dedicare un inno. Ne avevo composti per lei altri, ma non erano all’altezza. Col consiglio e il sostegno di una Cappuccina questo piccolo miracolo si è compiuto e gliene rendo grazie davanti a chi ci ha guidati in questo compito non facile.

Già dai primi vespri, a Mercatello sul Metauro, dove santa Veronica vide la luce e che oggi è monastero, mentre le sue spoglie mortali riposano a Città di castello, si sono intonati questi miei versi. Per me è un’emozione forte. Perché a questo deve servire la poesia, alla letizia del cuore, al riconoscimento della verità e al compimento del disegno per cui si scrive. Poter condividere è uno dei sensi di quest’arte così sublime e così difficile, perché richiede l’umiltà di divenire voce di tutti, interpreti di un messaggio che trascende. La preghiera si eleva come incenso al cospetto dell’Eterno, in un incessante atto di ringraziamento.

 

 

 

Ecco, sapere che oggi è una solennità grande riempie il cuore di soddisfazione, oggi dico che a Mercatello si festeggia la santità della gloriosa santa Veronica, una sorella che si è donata interamente a Dio, che ha sofferto con lui anche nel corpo attraverso le stimmate della Passione di Gesù, che si è fatta discepola saggia del vangelo. Nulla valeva per lei se non stare per sempre con il Salvatore. Questa è la sua più grande eredità: aver lasciato un tesoro di virtù da imitare e seguire, senza stancarsi mai, senza venire mai meno alla fedeltà alla gioia, soprattutto oggi che tutto sembra chiamare altrove. Ecco, sono felice di poter partecipare nel mio piccolo a quest’immensa letizia che le sorelle di Mercatello mi comunicano ogni volta che posso parlare con loro, la letizia vera di chi ha scoperto che la croce sta immobile e tutto il mondo le ruota attorno. Grazie, santa Veronica, grazie, Clarisse Cappuccine che ne perpetuate la memoria e ne custodite il modello dell’autentica vita cristiana.

 

 

© Federico Cinti

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Alla Musa

 

Miraggio estivo. Bianche spennellate

i sogni in cielo. Un’armonia di vento

riecheggia al sole in liquide cascate.

 

Intorno aleggia un silenzioso andare,

antica fissità, trasalimento

misterioso, tra eterne onde di mare.

 

Musica di dolcezza le cicale

umbratili: si spande per la via

sottile il suono uguale, sempre uguale

a sé, voce d’aerea nostalgia.

 

 

In questo strano giorno d’estate gli echi tornano, come tante immagini, alle carezze del vento. Tutto sembra immoto nel suo perpetuo scorrere. È la magia di questa stagione così unica, eppure sempre diversa. tutto è reale, anche se appare come un miraggio, e assume un senso altro da sé. Non si rivive invano quel che già si è vissuto: è il senso più profondo del ricordo, quasi fossero sistole e diastole che si rispondono eternamente. In cielo le «bianche spennellate» di pascoliana memoria (G. Pascoli, Patria, 9-10: «erano in ciel due sole / nuvole, tenui, rose»), divengono per analogia le parvenze di sogno che si rincorrono alla luce del sole che scivola in limpide cascate.

Sembra di galleggiare in un mare senza fine, senz’onda, come l’antico Oceano che circondava le terre emerse. Esisteva, certo, esisteva, prima che si scoprisse la rotondità del globo terracqueo in cui viviamo. Anche quello era un sogno, l’immagine di perfezione che si cercava e si desiderava. Le figlie di Mnemosine cantavano ai poeti, come oggi le cicale alle nostre orecchie sorde, verità inafferrabili. Anch’io oggi parlo alla mia musa, che ispira parole alate, in cerca di una patria lontana. Questo il senso della nostalgia, del dolore del ritorno.

 

 

 

In questo giorno giunge a perfezione L’arco temporale di cui già scrissi l’anno passato, per l’amica Miriam, che oggi compie gli anni. Sarebbe pure il compleanno di mio padre, di cui scriverò domani, se mi sarà consentito, per non dimenticare. La memoria ha bisogno dei suoi riti, delle sue scadenze. Anche comporre gli auguri diventa – o rischia di diventare – una cosa tremendamente seria. Eppure, non dico di no; eppure, mi fa piacere, come fa piacere a chi li riceve questi auguri. Il resto sono solo chiacchiere…

 

 

© Federico Cinti

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Auguri a Giacomo

 

Galleggia l’ora. Tra le vie assolate

il sole indugia languido in attesa.

Alita il vento, antica eco sospesa,

canto arcano, incantesimo di fate.

 

Ombre d’ombre le immagini sognate,

musica dentro l’anima indifesa,

orme del tempo, della vita arresa,

variazioni al variare dell’estate.

 

Entusiasmi s’inseguono. Lontano

nuota il cielo silente. Ecco il momento

tanto invocato: il ciclo si conclude,

 

unicità dell’attimo che illude

rapido nel ritorno dell’evento

allagato di luce. Nulla è invano.

 

 

nell’estate appena cominciata non riesco a non avvertire prepotente l’eco della Sera fiesolana, in cui il vate posa il suo sguardo « su ’l grano che non è biondo ancora / e non è verde, / e su ’l fieno che già patì la falce / e trascolora»(G. d’annunzio, La sera fiesolana, 25-28), in cui il Recanatese forse torna a contemplare la luna che «pendeva allor su questa selva / sì come or fai, ché tutta la rischiari» (G. Leopardi, alla luna, 4-5) nel giorno del suo compleanno, in cui Socrate e Fedro si allontanano da Atene in un mare di cicale nell’omonimo dialogo platonico. Letture, certo, rimembranze lontane, eppure così vive e così vere in questa liquida luminescenza senza un prima né un poi. Tutto forse già fu, tutto ancora sarà di nuovo e per sempre, fino al momento in cui verrà mietuto il grano, come nell’episodio di Giovanni in cui il Messia incontra la «femminetta / samaritana» (Purg. XXI 2-3) a Sicar presso il pozzo di Giacobbe e preconizza: «Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi  che già biondeggiano per la mietitura” » (Gv 4,35).

In questo languore estivo tutto galleggia, simile al sole nell’azzurrità del cielo, e prende vita, quella che deve avere nella pienezza, quando la primavera è già un ricordo lontano e il declinare dell’autunno è ben lungi dall’essere ancora immaginato. È quindi un privilegio riuscire a cogliere distintamente «il frutto / del mattin, della sera / del tacito, infinito andar del tempo» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’asia, 70-72), sapersi fermare sulla soglia a contemplare l’infinito per poi immergervisi completamente a metà del viaggio, del nostro viaggio. E ancora Leopardi, il cui giorno natale ricorre proprio oggi, ce lo rammenta, naturalmente al modo dei poeti, tramite immagini cariche di senso, valenti di per sé e per altro, come è giusto che sia, se davvero tutto è metafora di tutto.

Chi crede che la letteratura – e la poesia in particolare – debba essere oggetto di studio erra dal vero. Certo, la letteratura è studium, zelo e desiderio di attingere attraverso ciò che si vive l’autentica essenza delle cose. Nascere oggi è, forse, un altro grande privilegio, come capita al mio amico Giacomo, cui oggi mi rivolgo e scrivo le mie piccole riflessioni a latere, non richieste né volute, ma tanto tanto necessarie, almeno a chi scrive non per professione, bensì per passione. Ecco, l’estate ha il suo volto di luce e di calore, un moto primordiale che abbraccia e avvince. È il momento dell’anno in cui tutto si rende possibile. e intanto giugno se ne «va», lievemente, col suo «pigolio di stelle» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, 16)

Che cosa manca, pertanto, ancora da dire? Auguri, Giacomo.

 

 

© Federico Cinti

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