Fuoco perpetuo d’amore – Amoris ignis perpetuus (Sambucus XL)

 

Guarda la torcia: di qua lenta consuma al suo fuoco,

di là in una fiammata rapida si dissolve.

Vede l’amante l’amata dolcissima e triste si strugge;

è colto, pure assente, da piaga insanabile.

 

 

Niente di eccezionale, convengo; ma, davanti agli emblemata, io non riesco a non fermarmi, almeno un attimo. Li leggo, li rileggo, mi ci specchio. Non mi so sottrarre al certame e gareggio, mi provo pure io. Togliere la polvere ai secoli è un attimo. Qualcuno mi direbbe, forse con qualche ragione, quieta non movere. Eppure, non ne posso fare a meno, soprattutto oggi che tutto si riduce a una forma nuova di trasfigurazione emblematica: titolo, immagine, didascalia. Semplice, no? Intuizione geniale di Andrea Alciato, più giurista che poeta, almeno nella sua vita. quando leggo questa produzione apparentemente così lontana da noi, mi viene sempre da chiedermi se nasca prima l’occasione o la poesia. la risposta è insita nella domanda, è chiaro; ma quanto più è breve il testo tanto più si fa legittima. Ci pensavo a proposito di Marziale e dei suoi quindici libri di epigrammi. E dire che mi avevano anche chiesto di tradurlo. All’epoca non ne sarei stato capace. Adesso? Chissà, adesso mi potrebbe pure venire l’uzzolo di cimentarmici.

Eppure, di che cosa si deve parlare se non dell’amore? Qui è rappresentato da una torcia, una fiaccola che arde perpetuamente, come dice il titulus. Si consuma interamente da una parte e dall’altra è un fuoco inestinguibile. Tutto nasce dal verso petrarchesco «che da lunge mi struggo et da presso ardo» (Rvf CXCV 14), come ricorda il commento a corredo del quarantesimo Emblema di Sambucus, Amoris ignis perpetuus. Nello stesso commento ci si rifà anche alla passione amorosa di Saffo per Attide, la giovane appartenente al tiaso gestito dalla decima Musa, e a Didone, la pulcherrima per eccellenza, che caeco carpitur igni (Aen. IV 60).

 

 

 

Era il mio mondo e lo capii al meglio proprio quando mi fu chiesto di collaborare a un’antologia sulla poesia petrarchista del Cinquecento. Una vita fa, lo ammetto. Io stesso ero ben altro da quel che sono, anche se non sarei mai ciò che sono diventato senza quel percorso così strano cui mi hanno condotto i miei interessi, scoperti un po’ per gioco e un po’ per caso. In quell’antologia famosa, Lirici europei del Cinquecento (Milano, Rizzoli,) 2004) mi immersi completamente in quel mondo e ne uscii diverso. C’era un po’ di tutto, c’era pure Iohannes Sambucus, strano personaggio anche nel nome, passato pure da Bologna, autore di poesie alle volte quasi al limite dell’oscurità. Questa sull’amore mi è piaciuta, anche se non la inserii nel novero. Ci sarebbe stata, certo ed era pure nel novero delle immagini petrarchiste. Ma so bene che sarebbe tutto da rifare, oggi che padroneggio meglio gli strumenti. All’epoca ero più sprovveduto di ora, anche se lo resto parecchio. Amo imparare, ecco, visto «ch’altro piacer che d’imparar non provo» (Petrarca, Triumphi, I, 21).

Sull’amore non so quanto io abbia imparato, forse niente di più di quel che si trova scritto nei libri. Ripeto a memoria che «amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione forme alterius sexus», come suggeriva Andrea Cappellano, e mi stupisco. Sì, mi stupisco sentirlo risuonare in me, come eco lontanissima, come nei versi baudelairiani della sconosciuta, apparizione e sparizione degna dei fedeli d’amore, che scorgevano l’amata passare «per via adorna e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute» (G. Guinizelli, Io voglio del ver la mia donna laudare, 9-10). Anche a me è capitato, non lo nego, ascoltando la voce celestiale di una figura eterea e di sentirmi annegare in quella luce senza tempo. Chissà, retaggi letterari. Tutto qui.

 

 

 

Quasi dimenticavo di riportare pure l’originale: sì, lo avevo aggiunto in nota, ma la pigrizia di molti che conosco è superiore a quella di Belacqua.

 

 

Amoris ignis perpetuus.

 

Hinc taedam ut suus ignis edat teretem, vide

Illinc ut rapido male liquitur a rogo.

Visae tabet amans miser igne puellulae:

Absens tabifico haud minùs ulcere carpitur.

 

 

© Federico Cinti

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Il mio «X agosto» a San Lorenzo

 

San Lorenzo, brillasti nel mondo

di luce, la luce che adesso

arde e cade dal cielo profondo,

lassù, in un tuo tenue riflesso.

 

Eri diacono a Roma: il Signore

ti scelse come umile servo

a donare con gioia il tuo cuore

al mondo insensato, protervo.

 

Ai tuoi poveri desti ogni cosa

con anima lieta, arricchita;

alla Chiesa, l’autentica sposa

del Figlio, donasti la vita.

 

Tu vivesti nel nome di Cristo

spargendo il tuo sangue prezioso,

e seguisti la sorte di Sisto

nel santo martirio glorioso.

 

Tu sapevi che questo tragitto

mortale è la via del Vangelo:

il tuo nome in tal modo fu scritto

con quello di Cristo nel cielo.

 

San Lorenzo, ogni stella è un tuo dono

di pace, un tuo dono speciale

a chi spera, a chi chiede perdono

nel mondo mai vinto dal male.

 

 

Non passa anno in cui il 10 agosto, immancabilmente, non si ricordi il fenomeno astrale delle stelle cadenti e in cui non ritornino alla memoria, come un antico ritornello, gli struggenti versi di Giovanni Pascoli: il poeta di San Mauro dedica, infatti, a tale ricorrenza una delle sue più famose Elegie, intitolata appunto X agosto. Sulla valenza simbolica del numero romano del titolo mi sono già lungamente profuso nel mio commento a Myricae (Rusconi, Rimini 2018), cui rimando e su cui non mi profonderò qui, anche perché non vorrei annoiare troppo.

Quest’oggi, nel celebrare una ricorrenza così particolare, ho dedicato qualche verso proprio a San Lorenzo martire, riprendendo il metro pascoliano, una sorta di distico elegiaco – diciamo così – formato da un decasillabo e da un novenario. In particolare, ho cercato di eliminare la barriera consonantica del terzo verso di ogni strofa, come nell’originale, onde creare una sorta di episinalefe. Dettagli tecnici poco importanti, ovviamente, ma che servono a dare l’idea della cura con cui questo mio piccolo omaggio è stato condotto. Ho ripreso anche la dittologia «arde e cade» (v. 3), tra l’altro nella stessa posizione di X agosto, anche se devo ammettere che essa era una tessera tolta da una canzone di Giovanni della Casa, Rime, XXXI, 11: «per lo sereno ciel arde e sfavilla». La poesia è comunque sempre un gioco di specchi, di continue allusioni e citazioni.

Nulla di nuovo sotto il sole, ovviamente, solo un senso di lontana, pacata nostalgia a considerare il nostro piccolo «atomo opaco del male» (G. Pascoli, X agosto, 24). Eppure, proprio san Lorenzo, in questo giorno, testimoniò con la vita la propria fede contro la malvagità degli uomini, proprio come la «rondine» e l’«uomo» di cui ci parla Pascoli. Tutto si tiene in quella struttura chiastica che si trasforma in croce celeste di condanna e redenzione. Anche la poesia ci spinge a guardare in alto, in un moto verticale, a «quel cielo lontano» (G. Pascoli, X agosto, 10). Ecco, allora, veramente si sapeva che cosa fosse quel pianto in figura «di stelle per l’aria tranquilla» (G. Pascoli, X agosto, 2).

 

 

© Federico Cinti

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Di fine dicembre

 

Traslucido il giorno, carezza di fine dicembre,

d’un anno che se ne va, lento nel suo incedere.

 

Vedere gli amici così, di sfuggita, per farsi

un ultimo augurio, mentre tutto trascorre,

 

sulla panchina rossa d’un giardinetto tra trame

tremule nell’azzurro d’un mattino tiepido.

 

Era la vita che pretendeva tenace

di non fermarsi, forte desiderio

 

d’andare ben oltre l’angusto confine dell’ora,

con in mano l’aroma nero e buono del caffè.

 

 

 

Non avrei mai pensato che, a fine dicembre, mi sarei trovato a prendere il caffè con un amico e mio fratello in una piazzetta deserta, al pallido sole di fine dicembre, seduto su una panchina rossa. È successo, è capitato proprio stamattina. Per via solo il fruscio di qualche macchina, per aria le tetre trame protese all’azzurro tenue, oltre a un sole tiepido. Io che ho freddo pure d’estate mi sentivo bene in quell’abbraccio così inusuale. Nel mondo alla rovescia anche il caffè all’aperto sapeva di buono, manteneva il suo calore e il suo sapore nero intenso.

Non avrei mai creduto di poter parlare di letteratura anche davanti a una platea vuota: sul palcoscenico solo tre improbabili attori che improvvisavano la loro parte di felicità. Eravamo salvi: non ci investiva prepotente il «grigio diluvio democratico». Sono convinto che d’Annunzio avrebbe approvato: siamo riusciti a trasformare un saluto in un’opera d’arte. È la potenza evocatrice della parola, anche detta a sproposito. Di frecce per il nostro arco ne avevamo parecchie ed è proprio per questo che non ci siamo risparmiati. Il silenzio del sereno ci induceva a una loquacità insolita. Anzi, no: stimolava la nostra solita parresia. Tutto era così naturale, anche parlare di niente. Perché è vero che si deve privilegiare l’atto comunicativo in sé. Il resto è contorno.

Non avrei mai immaginato di esternare i miei buoni propositi per l’anno nuovo tra quattro case inerti, affacciate a un incrocio cittadino quasi a senso unico. La vita, è proprio vero, si annida dove non si sospetta. Quel sole mi scaldava o, forse, ero io che trovavo un tepore inusuale in quella circostanza così particolare. Anche le crisi sanno regalare momenti d’ascesa lirica. La poesia è a portata di mano: basta allungare il braccio e cogliere quel frutto così dolce. Non ho mai ceduto alla tentazione di pensare ai poeti nel loro studiolo a cercare le parole tra versi altrui. I poeti vivono fino in fondo anche la polvere della strada, perché non esistono semplicemente, ma vivono interamente.

Non avrei mai sognato di poter ringraziare così Gabriele e Massimiliano. Eppure, oggi, quel sogno si è avverato.

 

 

 

© Federico Cinti

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Al crepuscolo

 

Linea d’ombra quella tra il buio e la luce, confine

su cui in equilibrio talvolta s’indugia.

 

Dove comincia e dove finisce il crepuscolo? Andare

seguendo la traccia dei ricordi e del cuore.

 

Non termina la via, ricerca di casa, infinito

racconto, fragilità stanca, domanda di sé

 

e di perché. Indagare tra i sogni e le immagini il senso

reale di quello che accade, esercizio

 

senza tregua. Tenermi ben saldo a quel braccio che guida

mi dà una parvenza di sicura dolcezza.

 

Il tempo mi è addosso, mi cala nell’anima: scruta

quello che vuole essere, quello che non sarà più.

 

Un volto, un sorriso, parole d’azzurre giornate

all’ombra di un bacio, delicato profumo,

 

tinta di neve, lieve sospiro d’amore e abbandono.

Non era forse così? Tutto, sì, tutto finì?

 

Ombre di sogno il cuore richiama al crepuscolo: attende

di nuovo la luce, di nuovo la favola

 

bella. Aggrappato con tutto me stesso a quel filo

stringo ancora il braccio, certo nell’illusione.

 

Dentro o fuori è la luce? Rispondere a me non è dato.

Ma vana è l’indagine: non posso che attendere.

 

 

 

Al crepuscolo un sibilo improvviso tra le cose dintorno. Era una visita che attendevo. Lo so, doveva giungere; eppure, è stata un’emozione forte, quella: mi è parso come se, d’un tratto, ritrovassi qualcosa che era perso. Un sorriso, una voce. Mi sembrava di ritornare ad anni addietro. Quando, ecco, non lo so dire. Basti questo ai ricordi d’un tempo che si frange come onda sullo scoglio. Due parole di cortesia e decidere che fare. L’orizzonte traslucido sembrava una palpebra giunta ormai sul punto di chiudersi a quell’attimo di buio. Il sole morituro si smarriva chissà dove oltre gli alberi e le case.

Al crepuscolo un senso di nostalgica impazienza. Restare oppure andare? Il vialetto correva senza fine, come un filo sospeso lungo i prati. Mi hai preso sotto braccio e siamo andati. Non c’era, forse, molto altro da fare: l’ora invitava a un ultimo passaggio. Un racconto, uno ennesimo, meccanici i miei gesti. Ascoltavi. Perché poi hai sempre avuto così tanta voglia d’ascoltarmi, non so, non l’ho capito ancora dopo tutti questi secoli. Ci passavano intorno mille vite, ma una sola era quella che contava veramente. La via non la finiva mai d’andare e riandare. Quante volte l’avrò fatta in tanti anni? Ora a occhi chiusi ne conosco i segreti più nascosti.

Al crepuscolo tu ascoltavi tutto quel che avevo da dire. Non sapevo nemmeno io se, poi, sarei mai stato in grado di trovare quella forza che ricercavo in te, che mi parevi uno specchio in cui quasi rivedere quello che avevo o non avevo fatto. Tu mi ascoltavi, semplice, paziente, col tuo volto di luce, con quegli occhi color di cielo e quella voce chiara. Nulla sembrava più ciò che era prima alla timida ebrezza dei lampioni. Il racconto finiva o non finiva: non mi ricordo più quel che ti ho detto, se poi ti ho detto proprio tutto quello che avrei voluto o, meglio, avrei dovuto. Al crepuscolo il tempo si fa breve, troppo breve per essere taciuto il segreto che resta dentro il cuore senza saperlo. L’anima si libra e libera nel vuoto, nel deserto che circondava quell’istante eterno.

Al crepuscolo dolce era sognare di una vita migliore, di un domani senza perplessità, senza più dubbi. In questo devo dire che è contato quel nostro viaggio tra il buio e la luce. Tu certo già sapevi. Io l’ho imparato a poco a poco, l’ho imparato in via, facendo e rifacendo quella strada. Eppure, m’ascoltavi e mi dicevi ciò che volevo o io sentivo quello, parvenze di parvenze che le immagini rincorrono tra i sogni e gli incantesimi. Sarei rimasto anche di più, lo sai, ma il tempo non permette dilazioni. Che cosa mi è rimasto? Il senso vano di ciò che non c’è più e che non c’è ancora. Mi mancava il presente tra illusioni e rimpianti di scelte non compiute. Ma forse è questo il senso del crepuscolo.

 

 

 

© Federico Cinti

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Un po’ di nebbia

 

Lento nel grigio cupo di questo silenzio del cuore

scivola il giorno appena, simile a caligine.

 

Voci laggiù lontane sembrano l’eco di un’eco

persa nel vuoto tetro di questo.

 

Un timido raggio di sole attraversa l’immoto

tedio dell’aria sospeso tra le case.

 

Nella mia stanza anch’io rimango così tra le cose,

forse una cosa anch’io, quasi dimenticata.

 

Un po’ di nebbia dentro la sento insistente scavare

solchi irrequieti, volti di nostalgia

 

e di malinconia, chissà poi da dove riemersi

e perché adesso. Tutto pesa, mi pesa

 

fermo così nella stanza silente di grigio pallore,

ormai senza colore nel pomeriggio assorto.

 

L’ozio del giorno attende la sera, che rapida incombe;

e anch’io attendo, anch’io, non so più che dolcezza.

 

 

Oggi passa così; forse non passa affatto, tanto è immobile ogni cosa. Anch’io me ne sto qui: non faccio nulla, se non scrutarmi dentro, in fondo al cuore. Noia e malinconia, specchio dell’anima è questa nebbia informe che scolora all’interno e all’esterno. Ecco, l’attesa della sera, del timido tepore di ciò che è buono potrà dare un senso vero a questa giornata così strana. Un po’ di nebbia, certo, un po’ di nebbia, come scrive Luigi Pirandello nel Fu Mattia Pascal. Lo leggo sempre a scuola, tra la polvere dei secoli.

Eppure, oggi non passa. Ecco la nebbia che entra nel cuore, che si sente addosso. Forse è parte di noi. Non so: non voglio sapere. Scrivo solo quel che sento. Vaga la fantasia oltre la coltre che ci schiaccia la testa, opprime il cuore dimentico di sé. Dovrà finire questa giornata. Tornerà la sera col suo cupo mantello d’incantesimi, di sogni, di speranze per il nuovo giorno. Noi siamo qui, siamo in attesa che questo giorno passi, passi in fretta. Nulla è più come sembra, altra sembianza rispetto forse a quello che vorremmo. Il tempo non risana la ferita.

Un po’ di nebbia. Un senso d’afflizione per ciò che non è stato e non sarà. Dentro lo specchio immagini di sogno, sono anch’io che mi specchio e non mi vedo. Come sarà il mio volto adesso? Adesso, dico, che non mi vedo? Sarà quello d’un altro o sarà il mio? Vacue domande, quesiti ormai insolubili. Mi devo accontentare di restare quello che sono sempre stato e che sarò. Oggi che tutto è icona, tutto è immagine, privilegio davvero singolare questo mio di cui parlo, noto solo a chi conosce ormai la verità. Crediamo di conoscerla vedendo la verità, che resta sconosciuta ai più. Ma nella nebbia tutto è vano, tutto è come non è, come vogliamo che sia, mare senz’onda, immenso piano.

Un po’ di nebbia, certo. Ma tu, nebbia, forse ti specchi in me, forse ti guardi dentro, nel fondo della tua caligine, di quel porto sepolto da cui esce il tesoro che spesso non sappiamo. Tutto è già stato detto, è stato scritto, ma non questa insondabile vaghezza. Dentro o fuori di noi? C’è differenza? Credo proprio di no. Ecco la nebbia, un po’ di nebbia in cui ricerco ancora il senso delle cose che mi pare smarrirsi lentamente e riapparire altrove, non so dove, non so come. Vediamo adesso come in uno specchio, ma verrà il giorno in cui noi ci vedremo come gli altri ci vedono. Quel giorno sparirà finalmente questa nebbia.

 

 

 

© Federico Cinti

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Crepuscolo d’Appennino

 

Eterna carezza, sorriso del verde Appennino,

Ca’ del noce, adagiata sotto un velo d’azzurro,

 

rifugio montano, borgata di sassi e sudore,

in cui trovare pace e refrigerio.

 

E da quel manto lievi cadono doni di vita,

freschi pensieri, battiti all’unisono.

 

Si rincorrono voci soavi d’angelici bimbi,

gioie d’inni alla Madre Vergine, figlia e Sposa,

 

uscita dal cuore puro di chi si consola pregando

devoto la sera, sul sole morente.

 

E il cielo e la terra di nuovo si fondono, amore

narrato dal mito di un’antica Sibilla,

 

ombra d’ombra, latrice di un tempo ormai senza parole,

ricordi ormai spenti d’inutili immagini.

 

Glorie remote, rose appassite già colte

dall’ansia dei giorni, ricerche ora vanite

 

d’un labile soffio, remote memorie nascoste

tra petali gualciti d’insana incuria.

 

E l’eco lontana del canto di chi in mezzo al bosco

trema tra i tronchi, tagliando e cogliendo,

 

solenne presagio che sta terminando l’estate,

sogno che sfuma al giallo delle foglie caduche.

 

Traslucida l’ora sbadiglia alla notte incombente,

mentre la luce e il buio perduti si baciano.

 

 

Appennino, per qualcuno soltanto un nome, per me invece un mondo, una linea verde che sagoma il cielo fino a perdersi nell’azzurro. Sul declinare d’agosto i giorni sempre più brevi hanno un sorriso tutto particolare, tutto loro: sanno già di qualcos’altro, di un non so che di indefinibile. Sotto casa mia passa la Porrettana, la via napoleonica (oggi SS 64) che porta appunto a Porretta, vaghezza di sogni e di ricordi. Ci andai per la prima volta «vent’anni fa o giù di lì», per dirla con uno dei protagonisti di quelle vallate, Francesco Guccini. Conobbi in verità prima il fratello, Pietro. Strinsi amicizia con lui, perché  era venuto a fare il bibliotecario nel mio dipartimento, filologia classica. Avevo avuto solo questo suggerimento: se vuoi andare d’accordo con lui, non chiedergli del fratello, ché non ne può più. Chissà, forse perché era cantautore pure lui. Mi attenni, comunque, rigorosamente alla regola della reticenza e credo lo abbia apprezzato parecchio. Un giorno d’estate andai a trovarlo pure a Pavana, al di là dell’antica dogana del Granducato, dopo Ponte della Venturina. Fu una festa, per entrambi.

Appennino, strano coagulo di sogni lungo il Reno: parlo a livello strettamente personale, in base alla mia ristrettissima esperienza di uomo di pianura. È più d’un fiume, il nostro Reno: è una sorgente di memorie inesauribile. Anche il treno lo costeggiava, quando ogni giorno andavo al liceo di Porretta. Insegnare non è mai stata la mia vocazione, lo ammetto, almeno al liceo; ma a qualche professione bisogna pur votarsi nella vita. Conobbi la cittadina delle terme, in ebollizione già dai tempi dei Romani. Anche Niccolò Machiavelli menziona i «bagni della Porretta» nella Mandragola, per sorvolare sulle più famose porrettane di Sabadino degli Arienti. Piccole (o grandi) glorie locali del buon tempo andato, non c’è che dire. Del resto, Francesco Guccini già l’ho citato e non vorrei indugiarvi troppo. Lo incontrai una volta in edicola, un’altra in trattoria, un’altra ancora alla presentazione di un libro di un amico. Il suo regno è però, come è noto, Pavana, nel comune di Sambuca Pistoiese.

Due cari amici vollero assolutamente sposarsi là. Ci andai, ovviamente: ero pur sempre il testimone di nozze. Quanti anni sono passati! Non ci posso pensare. Le magnificenze di quei luoghi le conosco dai loro racconti. Non starò a ripeterle, anche perché la poesia non va spiegata. Mi colpisce tuttavia la fauna che alberga colassù. Nelle mie tre classi di liceo avevo qualche studente pavanese. Buona gente, già toscana, eppure con influenze ancora emiliane. Le lepidezze si sprecano. Un mondo a sé, questo lo ammetto, un luogo unico e irripetibile. Ci tornai poi tante volte e ne feci esperienza diretta. I bimbi che, di giardino in giardino, si rincorrono incespicando nel ripetere le preghiere dei grandi, le glorie passate di uomini e donne, come film rivisti senza fine, il canto di un taglialegna che ripercorre gli anni come fossero giorni. Insomma, un angolo di cielo da cui, pure, ogni tanto scende qualche gioia leggera.

Appennino, già, ci tornerei, come mi capita di fare, per ritrovare ciò che non sono più o forse non sono mai stato. È questa, forse, la vera elegia di un crepuscolo in cui la luce e il buio si toccano a baciarsi prima del nuovo giorno.

 

 

© Federico Cinti

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Pennellate di cielo

Pennellate di cielo. Si posa dovunque l’estate.

Una riga limpida l’orizzonte sospeso.

Sussurri di vita. Si celano antichi presagi.

Sogni di sogni negli echi di favole.

Ascoltano gli alberi. Languiscono al sole che avvampa.
Il verde dell’erba già ingiallisce di fieno.

L’autunno ormai bussa. Si stempera lieve nel fresco
che a tratti s’avverte la sera. Si confonde

nell’anima il ciclico ritorno di quanto è passato.
Distilla una musica, voce accennata appena.

S ’allaga l’ora, eternamente fissa, chissà come, chissà dove.

Fermarsi a contemplare la cupola cava del cielo sa già d’infinito, d’altrove. Quanto dura quest’attimo? La frenesia si stempera tra le voci arcane avvertite tra gli alberi inondati di luce. «Divina Indifferenza», la definirebbe Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato, 6: in essa e per essa tutto esiste al di fuori di chi sente il fluire della vita. il velo cala sul confine indicibile e nell’azzurro si scioglie un’elegia, musica dimenticata tra la quotidianità delle nostre giornate così brevi, così stanche.
Pennellate nell’anima di un cielo simile a quello disegnato dai bambini, in cui l’azzurro è una striscia in alto e il sole un disco giallo che ride. In quell’immagine c’è il desiderio di ritornare a vedere la realtà per come veramente è e non nel modo in cui ce la impongono altri. La sfida, questa, cui si è chiamati quasi senza saperlo. Oltre la linea d’ombra l’indecifrabile senso dell’ignoto, cui spesso ci s’abbandona per poi ritrovarsi come dopo un lavacro di purezza. Scrollarsi di dosso il magma dell’ansia ha valore più che catartico: è tornare liberi dopo la coazione di una prigionia senza barriere.
Le pennellate di cielo saziano la fame d’aria che ci soffoca nelle corazze costruiteci addosso dalle inutili convenzioni cui ci si sottopone. Il ritmo del giorno sta nel suo ciclico cadere e ritornare, secondo il magnifico verso di Catullo: «il sole può cadere e ritornare» (carm. V 4). Anch’io allora seguo questo ciclo, seguo questo ritmo e mi ritrovo bambino.

© Federico Cinti
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Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Nel giorno in cui Petrarca compie gli anni, il 20 luglio, propongo – anzi, sarebbe meglio dire ripropongo – una mia traduzione di un epitaffio neolatino di George Buchanan, poeta scozzese del Cinquecento, che dedica versi struggenti all’amore di Francesco per Laura. Il testo originale sarebbe in distici elegiaci latini, ma mi è parso buono e giusto rendere con un sonetto. Credo che Petrarca avrebbe apprezzato lo sforzo e forse pure il risultato.

 

 

Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Se ha memoria di sé dopo la morte,

dotto Petrarca, l’animo nel cuore,

se oltre la tomba vive intatto Amore,

morendo non patisti un tanto forte

 

tormento quanto il gaudio avuto in sorte

d’accompagnarti a Laura nel fulgore.

Lei i primi anni subì l’aspro livore

del fato, ti lasciò per vie contorte

 

nel pianto più struggente. D’ora in poi

la folta folla dell’Eliso al Lete

vi vede passeggiare. Beati voi!

 

Né la morte né il rogo estremo ha sciolto

il vincolo d’affetti in cui vivrete,

per i secoli eterni, lieti in volto.

 

 

Di seguito è doveroso che io riporti anche l’originale: non vorrei lasciare nulla, ma proprio nulla, al caso.

 

 

In tumulum Francisci Petrarchae

 

Si memor ipse sui est animus post funera, culte

Petrarcha, et cineri vivit inustus Amor,

 

certe non tantum cepisti morte dolorem,

quam gaudes Laurae nunc comes ier tuae.

 

Quae, fati invidia primis oppressa sub annis,

te summo in luctu liquerat, et lacrymis.

 

Nunc vos Letheae spaciantes margine ripae,

Elysii spectat plebs numerosa fori.

 

Felices animae, quarum dissolvere foedus

mors quoque et extremi non potuere rogi!

 

 

Confesso che non è l’unica volta, questa, che tento una resa di tale epigramma: la mia prima versione fu pubblicata nel 2004, settimo centenario della nascita del sommo vate. A Bologna si teneva un convegno internazionale sul petrarchismo Cinquecentesco, cui ebbi l’onore di partecipare, e in quell’occasione usciva l’antologia Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G.M. Anselmi, K. Elam, G. Forni e D. Monda, Rizzoli, Milano, 2004. Oggi la disconoscerei: non mi ci ritrovo più, perché appartiene ormai a un Federico che non esiste più. E dire che ne andavo molto fiero, e della traduzione e di quel Federico.

L’insoddisfazione mi ha costretto, nel tempo, a riprendere in mano questi distici per dare loro una veste e un respiro nuovi. Il labor limae credo possa essere un inesauribile stillicidio e dare lo sfinimento. Anche quest’anno non ho potuto farne a meno: il testo è cambiato ancora. Quando traduco (e ritraduco), mi torna in mente il verso dantesco « mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Non c’è che dire: ogni volta io muto e la traduzione muta con me. È un gioco di specchi: io mi rifletto nel testo e il testo si riflette in me. il rischio di perdersi per sempre è fin troppo reale. L’ombra di Narciso incombe su questo esercizio così suadente e mai finito. Una competizione: si può azzardare questo giudizio? Già, chi è migliore: il tradotto o il traduttore? Probabilmente non è solo un atto metamorfico, la traduzione, ma una manifestazione di narcisismo in divenire.

 

 

© Federico Cinti

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