Guido, i’ vorrei che tutto fosse ancora
possibile, l’amore, la poesia,
l’incantamento, l’animo d’allora.
Fu soltanto un abbaglio, una follia
presumere d’andare, di sognare;
Virgilio mi raccolse per la via.
Rischiai dopo il naufragio d’annegare
in quel pelago; eppure, dalla riva,
con la morte negli occhi guardai il mare.
Riguardai, qualche cosa in me moriva
per sempre, qualche cosa sopravvisse:
spenta non era in me la fiamma viva.
Guido, lo so, tuo padre me lo disse
con le sue amare lacrime silenti
che era rinato in te l’antico Ulisse.
Compresi chi noi fossimo, gli eventi
vissuti insieme, il tuo intimo disdegno,
la sorte tua tra le perdute genti.
Ti condannò l’altezza dell’ingegno,
lanciato a precipizio oltre i riguardi
d’Ercole, estrema linea, ultimo segno.
Guido, lo sai, adesso è troppo tardi:
su di te il mare già si chiuse nero,
come altrui piacque; ora in eterno tu ardi.
Fu altro il cammino per vedere il vero,
per lo gran mar dell’essere: felice
mi mostrò il santo volto del Mistero
la donna mia, l’altissima Beatrice.
Chissà se Dante, quando esprimeva al «primo de li suoi amici» (Vita nuova, III), Guido Cavalcanti, il desiderio di essere «messi in un vasel, chad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio» (Rime, LII, 3-4), immaginasse non solo che avrebbe tolto a «l’uno» e «a l’altro Guido / la gloria de la lingua» (Purg. XI 97-98), ma soprattutto che lo avrebbe perso in quel mare tanto vagheggiato nel plazer, dopo un naufragio in «acqua perigliosa» (Inf. I 24)? A quel tempo, negli anni della Vita nuova, quando verosimilmente compone il sopracitato sonetto, era tutto ancora possibile, «ragionar sempre d’amore» (Rime, LII 12), discettare della poesia in cui «il buono incantatore» (Rime, LII 11), mago Merlino secondo l’interpretazione di Gianfranco Contini, avesse «la formula che mondi potesse aprire» (per dirla con Eugenio Montale, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, 9), restare in compagnia degli amici e delle donne amate, come «monna Vanna e monna Lagia poi / con quella che è sul numer de le trenta» (Rime, LII, 9-10). Eppure, qualche cosa mancava: non era con loro Beatrice Portinari, «la donna de la salute» (Vita nuova, III). E Guido lo sapeva: sapeva benissimo che la sua «monna Giovanna» aveva il nome di «Primavera», perché doveva preparare l’arrivo di Beatrice (cfr. Vita nuova, XXIV), alla prima di molto superiore.
Era forse soltanto una follia «guardare oltre, sognare», perché non sempre «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II, 9-10, credere che tutto fosse razionalmente conoscibile, presumere in ultima analisi di non avere bisogno di Dio. Da quel sogno Dante si ridesta in «una selva oscura» (Inf. I 2), che altro non è se non l’oggettivazione del sonno della ragione in cui si è ritrovato senza nemmeno sapere come, senza comprendere che proprio Beatrice vegliava su di lui, sul suo lungo, tortuoso viaggio, anche dopo «la decenne sete» (Purg. XXXII 2). È l’inizio della salvezza, la presa di coscienza che deve uscire «fuor del pelago» (Inf. I 23) di Guido, aggrappandosi alla seconda tavola del pentimento, e abbandonarsi alla grazia. Proprio davanti a Virgilio, apparsogli «nel gran diserto», (Inf. I 64) grida «miserere di me… / qual che tu sii, od ombra od omo certo!» (Inf. I 65-66). Era stata la «Vergine Madre, figlia del suo Figlio» (Par. XXXIII 1) a chiedere l’intervento di «Lucia, nimica di ciascun crudele» (Inf. II 100), che a sua volta aveva chiamato «Beatrice, loda di Dio vera» (Inf. II 103) e questa era ricorsa a Virgilio, l’«anima cortese mantoana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto ’l mondo lontana» (Inf. II 58-60). Dante, che aveva abbandonato «la verace via» (Inf. I 12), attraverso l’amore per «la donna de la salute», è toccato dalla luce della grazia.
In quella «selva oscura» (Inf. I 2) la luce era finalmente filtrata, da quel «pelago» (Inf. I 24) Dante era riuscito ad arrivare faticosamente «a la riva» ancora vivo: «nel mezzo del cammin de la sua vita» (Inf. I 1) cominciava il vero viaggio lungo «la diritta via» prima «smarrita» (Inf. I 3) per giungere alla verità da svelare e rivelare. Tra i vari specchi in cui Dante si riflette, nel suo percorso agli inferi, incontra pure quello di Cavalcante, padre di Guido, che si dispera di non conoscere nulla dell’attuale vita del figlio. Dovrebbe essere lì, con l’amico di sempre; ma forse «non fiere li occhi suoi lo dolce lume?» (Inf. X 69). Il padre è più che angosciato: il suo dolce nato potrebbe essere morto o, peggio ancora, non giovarsi più della vivida fiamma della ragione. Dante non gli risponde, nel fraintendimento paterno, quasi a conferma degli inevitabili sospetti: Cavalcante non sa che il pellegrino è stato distratto da un dubbio, perché non si capacita che l’ombra dinanzi a sé non conoscesse il presente, come del resto era successo in vita. Cavalcante annega nelle sue lacrime, altro mare inaccesso, come il più grande di tutti gli eroi navigatori: «supin ricade e più non pare fora» (Inf. X 72).
Dante ha compreso che è stato concesso di «correr miglior acque» alla «navicella del suo ingegno» (Purg. I 1-2) ha capito che è un altro il «pelago» (Par. II 5) per il suo «legno che cantando varca» (Par. II 3): sotto la guida di Beatrice, «quasi ammiraglio che in poppa e in prora / viene a veder la gente che ministra / per li altri legni, e a ben far l’incora» (Purg. XXX 58-60), può finalmente percorrere «l’alto sale» (Par. II 13) del Paradiso, della verità rivelata e conoscibile a intelletto umano, «com’altrui piacque» (Inf. XXVI 145 e Purg. I 133), se si resta all’ombra dell’Altissimo. Non ha attraversato il «varco / folle d’Ulisse» (Par. XXVII 82-83), i «riguardi» segnati da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inf. XXVI 108-109). Dante ha potuto attraversare interamente «lo gran mar de l’essere» (Par. I 113), che altro non è se non l’infinita immensità di Dio, sotto la vigile guida della sua Beatrice finché ella, tornata al suo seggio, non lo ha affidato a san Bernardo di Chiaravalle, il «sene / vestito con le genti glorïose» (Par. XXXI 59-60), perché potesse contemplare ciò che nessun uomo ha visto ed è rimasto vivo.
Ecco, si potrebbe dire che il progetto di Dio su Dante, nel racconto di costui, si è realizzato in e per Beatrice, donna sì, ma pure tramite anagogico per giungere fin nell’intimo del mistero, a quell’incarnazione in cui il poeta si specchia definitivamente, anche se ammette che «mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Così era stato fin dall’inizio, fin dal primo incontro, «Nove fiate appresso lo suo nascimento» (Vita nuova, II), a soli nove anni, quando anche «la gloriosa donna de la sua mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che sì chiamare» (Vita nuova, II). Il traviamento era iniziato con l’amico Guido. Eppure, si potrebbe dire, come in fondo già si è detto: Guido, io ti persi. E perdendo costui, Dante salva se stesso.

© Federico Cinti
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