Variazioni sul tema

 

Variazione sul tema, questo vano

antico, ineluttabile tornare:

languido il tempo scivola, lontano,

eterno andare.

 

Nulla si perde, nulla si ritrova

tra i frammenti del giorno. Ora l’oblio

inerte, linea d’ombra, luce nuova,

non altro. Addio.

 

Addio a ciò che non si è: la meraviglia

grida l’ansia dell’attimo, catene

al di là di quei cocci di bottiglia

rotti, altro bene,

 

unica via d’uscita. L’infinito

là, dove l’occhio attinge l’orizzonte,

limite invalicabile, smarrito,

inique impronte.

 

 

A saperlo, poi, che cosa sia questo benedetto tempo, potrei anche azzardare una risposta. Potrei, intendo, al di là di tutte le infinite elucubrazioni provate sul tema, da che mondo è mondo, arrischiarmi a formulare una mia piccola ipotesi, quasi fossi quel «passero solitario» che «tenta la sua tastiera, / come nel santuario / monaca prigioniera» (G. Pascoli, Il passero solitario, 2-4), se l’avessi. Eppure, continuo a ragionarci su, «come l’uomo che, segnato un gran cerchio per terra, comincia a camminare attorno ad esso dicendo: “Voglio vedere quando arrivo alla fine”» (G. Guareschi, Le lampade e la luce).

Variazioni sul tema, corsi e ricorsi, come nell’intuizione geniale di Vico di coniugare linearità e circolarità, insite in noi e nelle coordinate spazio-temporali in cui ci troviamo immersi, come in quel mare infinito che qualcuno ha scorto al di là della siepe e qualcun altro oltre «un rovente muro d’orto» nel suo «palpitare / lontano di scaglie» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2 e 9-10). La compagnia mi pare anche buona, ma non mi so risolvere a comprendere questa «infinita vanità del tutto» (G. Leopardi, A se stesso, 16). Perché di questo, in fondo, si tratta: tendersi oltre le nostre umane possibilità, «qual è ’l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond’elli indige» (Par. XXXIII 133-135). Ma va bene, va bene così: viviamo pur sempre sulla soglia.

 

 

In questa liminalità sospesa occorre decidere da che parte stare. Al di qua dei «cocci innumeri di vetro / sulla cinta vetusta, alla difesa» (G. Gozzano, La signorina Felicita, I 17-18), in fondo, non mi pare si stia nemmeno troppo male. Ogni tanto si guarda oltre, per cogliere qualche sprazzo di luce, alla ricerca di frammenti perduti da ricomporre nel mosaico di cui ci sfugge, purtroppo, la figura intera. Ma è la sfida, questa, nient’altro. Mi lancerei anche io, nel caso, a gridare: «Miserere del mio non degno affanno» (Rvf LII 12), se il tempo me lo concedesse. Il tempo, certo, quello che non so definire in alcun modo e che pure va e ritorna, come in questo giorno, preludio alla fine e al principio. Anche l’anno ha i suoi riti, le sue pause e le sue accelerazioni, rotazione e rivoluzione di un vortice immoto. Ci si ritrova qui, anche ora, a scandagliare il prima e il poi, dimenticandoci dell’hic et nunc.

 

 

 

© Federico Cinti

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Solstizio invernale

 

Alla tua luce chiara m’abbandono,

trasparente armonia di scaglie rare,

e non sarò mai più quello che sono.

Canto d’allora, naufrago: altro mare

 

ho davanti, altra via. Ricominciare

esule. Nulla intorno, nessun suono,

non sogno oltre una gioia singolare,

oltre la tua dolcezza, ultimo dono.

 

Nuda l’anima, solo vestimento

la nostalgia al crepuscolo del giorno.

Odo appena: una musica leggera

 

s’insinua sussurrando sulla sera.

Adesso e sempre, ennesimo ritorno,

infinito incantesimo nel vento.

 

 

In questa luce chiara, che sa già di vanità crepuscolare, tutto sa d’altrove. Anche il cuore s’abbandona, galleggia sospeso lontano, su una liquida superficie splendente che spinge al di là, che porta oltre, in un «palpitare / lontano di scaglie di mare» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 9-10), anche se «i brevi dì» ora «sembrano tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-14). Oggi in particolare il giorno pare rallenti sull’orizzonte, invictus per definizione a fine autunno e a inizio inverno, quando anche i Romani festeggiavano i Saturnalia in un reciproco scambio di doni.

E il dono è questa luce soffusa in cui sentirsi parte del tutto, in cui «sento che il mio volto / s’indora nell’oro / meridiano» (G. d’Annunzio, Meriggio, 70-72), simile al dono panico dell’estate, quando ci si perdeva «dentro il meridiano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Altra stagione adesso frastorna questo tempo in bilico sulle porte del buio, in cui è così dolce cogliere il bagliore di un sorriso di cielo, occhio che si chiude sul mondo stretto dal freddo cristallino. Anche i rumori soffondono a poco a poco, come eco nell’anima, ricordo di un tempo che va, di un tempo che viene, forse immobile come la nave sull’acqua tranquilla alla ricerca di chissà che porto indecifrabile.

 

 

È sufficiente una voce, musica antica alle orecchie, canto di culla e di oblio, a trascinarmi con sé. Risorge e si confonde in questo tempo il senso delle cose. Forse non tutto è perduto. Il viaggio ricomincia, anche più lieve di prima. Il naufragio in questa chiarità dell’aria risveglia la brace di emozioni mai sopite del tutto. Arde l’ansia dell’ora, il cuore vive e rivive in cerca di un porto sicuro. Fine e inizio di nuovo si confondono nel circolo dell’anno che si chiude, che si apre senza sosta. Ma «il varco è qui?» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19), ci si chiederebbe ancora increduli, mentre tutto è scoperto e «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7).

Ecco, dunque, il segreto, riuscire a dare del tu a questa luce chiara in cui non perdersi, bensì ritrovarsi, in cui adagiarsi per sempre, come in un sogno infinito. Laggiù gli alberi raccontano di nuovo della fine e del principio, del tempo che ritorna e si allontana senza tregua. In questo pomario esiste «la maglia rotta nella rete» (E. Montale, In limine, 14), la via di fuga, la redenzione di queste ombre anelanti alla vita, alla vita vera. È questo il sole che ci irradia di una luce nuova, di quella luce chiara che ci fa amare e sperare.

 

 

 

© Federico Cinti

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Alla Silvia leopardiana

 

Rimane di quel tempo

l’eco di un’eco. Sulla soglia il canto,

dall’antica finestra

il giallo profumato di ginestra

in cui scorgevi il volto del poeta.

Eri quel fiore, incanto

sotto il cielo sereno, eri la vita

in attesa del giorno della festa.

Eri quello che resta, adesso, sulla via,

l’orma della poesia,

sorriso, vano sogno

nell’iride sincera

a inseguire quell’ultima speranza,

eri la primavera

in cui tutto rivive, rimembranza

a cui volgersi indietro,

in un’aria di vetro, a contemplare

per sempre il limitare

nei tuoi occhi ridenti e fuggitivi.

Altro non seppi, null’altro trovai,

Silvia, mentre salivi.

 

 

 

Era il «verone del paterno ostello» (G. Leopardi, a Silvia 19) l’invisibile soglia che separava la voce di Silvia e l’occhio che varcava l’angusto limite degli «studi leggiadri» e delle «sudate carte» (A Silvia, 15-16), ben al di là «di quel lontano mar, quei monti azzurri» (G. Leopardi, Le ricordanze, 21). Tutto già fu, tutto sarà di nuovo, tutto è sempre come la prima volta. Per questo ancora Orfeo ricerca oltre la linea indicibile la sua Euridice cantare nella memoria di un tempo inafferrabile. È il mistero che lega amore e morte, vita e sogno, luce e ombra. Perché Silvia, in fondo, è solo voce, come Eco, «quella vaga / ch’amor consunse come sol vapori» (Par. XII 14-115), è solo canto, «perpetuo canto» (A Silvia, 9) immerso ormai nei «sovrumani / silenzi» (G. Leopardi, L’infinito, 6-7) della rimembranza.

Ecco, allora, la ricordanza e la speranza, da una parte e dall’altra del confine, immagini riflesse nello specchio che si inseguono e ritornano eternamente. Ecco, allora, la poesia, morta nell’Ultimo canto di Saffo, quando già «il prode ingegno / han la tenaria diva, / e l’atra notte, e la silente riva» (G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 70-72), e riemersa nella «canzoncina» delle mummie di Federico Ruysch. Voce risorta dall’aldilà che risuona in eterno per le «quiete / stanze, e le vie dintorno» (G. Leopardi, A Silvia, 7-8) e rimasta tenacemente aggrappata alla vita nel giallo odoroso della Ginestra o il fiore del deserto.

 

 

 

Pensavo più o meno a questo, ieri, mentre dialogavo con un mio studente, per ironia della sorte anch’egli di nome Giacomo, sulla poesia leopardiana. E negli «occhi ridenti e fuggitivi» (G. Leopardi, A Silvia, 4) ci ho rivisto l’iridi sincere» della signorina Felicita (G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità, III 11), ci ho rivisto il viso senza nome di Annetta (o Arletta) e «lo sciame dei suoi pensieri» (E. Montale, La casa dei doganieri, 4). Nulla di nuovo, certo; eppure, Silvia è la poesia che travalica i secoli, è la ginestra del color di croco, come il girasole e i limoni. E dire che già Silvia era un’eco tassiana, assieme alla Nerina delle Ricordanze. È per questo che «il filo s’addipana» e non si sa «chi va e chi resta» (E. Montale, La casa dei doganieri, 11 e 22).

Pensavo questo ieri, che era sabato, giorno dell’attesa per eccellenza, anche in un’epoca in cui è difficile trovare il punto di rottura della ininterrotta connessione. Chissà se tutto è poi rappresentazione o si scoprirà anche a noi, «andando in un’aria di vetro» (E. Montale, Forse un mattino andando in un’aria di vetro, 1), il senso vero delle cose, quello che chiamano significato. Accontentiamoci intanto del significante, della poesia che non può morire anche in un mondo prosastico come quello attuale. È davvero il deserto in cui una voce chiama tra l’infinito e il tutto. Nel poeta è il profeta, vilipeso e sbeffeggiato, come il famoso albatros, re delle nubi, principe dell’azzurro, di baudelairiana memoria. Eppure, in quella solitudine desertica una strada è stata aperta.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Elena

 

Eco d’un giorno, eco d’un anno, volo

lieve del tempo: tra le nostre dita

esile il filo s’addipana solo.

 

Nulla sarà di ciò che fu. Infinita

ascesa tra l’azzurro. Nulla è invano.

La meta è dove è più ardua la salita.

 

Un sorriso dolcissimo. Pian piano

per i portici l’essere, l’andare

passa. Un sogno non fu, non fu lontano

 

il limite di tante gioie rare.

 

 

Non so perché, ma ogni volta mi trovo a parlare del tempo che scivola inesorabile, Elena, soprattutto in questo tuo giorno di fine ottobre. «Croce e delizia», potresti dirmi, tu che sei una verdiana convinta, «delizia al cor». Quando siete stati a Parma per il Simon Boccanegra, anche qui inspiegabilmente, mi è venuto da cantare assieme a Leporello: «questo pezzo di fagiano, / piano piano vo’ inghiottir». Eh, io sono proprio mozartiano: lo ammetto senza riserva alcuna. Me lo perdonerai. Come tante altre cose, del resto, che qui non sto a elencare. Mi è venuto, per esempio, da citare La casa dei doganieri di Montale, «un filo s’addipana» (v. 7), anche se non è esattamente il mio poeta preferito. A te piace molto, invece. Lo affermasti con una certa convinzione, una volta. Ma ci sta, va bene. Oh, intendiamoci: non è che io non lo apprezzi. Anzi, ha testi splendidi. Tuttavia, devo riconoscere che preferisco altri autori.

Non so perché, ma il discorso mi scivola sempre di mano, un po’ come il tempo, sabbia tra le dita di un’invisibile clessidra. Che poi noi pensiamo alla sabbia, ma nel nome c’è l’acqua. Già, la clessidra è un orologio ad acqua. Poi, va da sé, ci può pure essere la sabbia al suo interno. Non è certo L’orologio da rote di Ciro di Pers, ossessione barocca per eccellenza. Ecco, sempre il tempo che incombe. Eppure, vedi, oggi ho fatto tardi a scriverti. Ci ho pensato tutto il giorno. Poi, come scrisse quello, «ed è subito sera» (S. Quasimodo, Ed è subito sera, 3). Comunque, sono qui a non lasciare passare invano questo giorno.

Anche l’anno scorso mi ritrovai così, in un dialogo con te, in un Dialogo con Elena. Alle volte non mi dispiace nemmeno citarmi, vezzo antico di chi se lo può permettere. Perché oggi, lo sappiamo, non è un giorno come gli altri. Ne prendiamo atto. Non sto a dirti altro. Ami le feste lunghe, anche più e più giorni. Questo è solo l’inizio. Te l’ho sentito ripetere. In quest’autunno così particolare tutto è sempre in procinto di sembrare altro, quasi il volo di uccelli che partono per chissà dove. È bello pensare che vadano per tornare, perché il bello del viaggio è il ritorno.

© Federico Cinti

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A Valeria

 

Vaga per l’aria una dolcezza appena

autunnale, un pulviscolo dorato

levita intorno al vento, cantilena

ebbra di nostalgia, di ciò che è stato.

 

Rimane l’ombra rara del passato

in bilico sull’anima serena.

Ancora un passo, un sogno sussurrato

visita il cuore, un brivido alla schiena.

 

Era il tempo sull’orlo, era la foglia

nata sul filo azzurro all’orizzonte

tra le case e due bianche spennellate,

 

ultimo incanto, adesso, dell’estate

ridente tra le cose, sotto il monte,

inizio (o fine?) sull’eterna soglia.

 

 

Ed è un nulla, così, voltare pagina, inizio e fine di qualcosa che non si sa, che non si vuole sapere fino in fondo. Ci si sforza di procedere come se nulla fosse; eppure, sappiamo bene dell’ingranaggio. Risuonano le parole di Orazio, quam minimum credula postero (carm. I 11, 8). Domani non c’è ancora e non ci sarà più. Leopardi lo aveva detto, parlando in un linguaggio segreto: «Lungi dal proprio ramo, / povera foglia frale, / dove vai tu?» (Imitazione, 1-3). Lo aveva detto, inseguendo il fluttuare nel vento delle foglie sul principio d’autunno. Ecco, forse è la malinconia autunnale, questa luce particolare che da sempre mi affascina e mi sgomenta.

Tra i rami degli alberi il sole sembra indugiare, come dimentico o smarritosi, mentre il vento canta antiche cantilene, miti senza età che sanno di vita e di ricordo. È l’estate fuggita chissà dove, chissà quando, impercettibile immagine oltre il margine, dentro l’«incartocciarsi della foglia / riarsa» (E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 2-3) nulla di nuovo, certo; eppure, ritornano sensazioni ed emozioni senza tempo. Un giorno come gli altri, certo, un giorno come nessuno, un giorno in cui fare festa.

Resto così a fissare il tacito scorrere delle cose, non certo senza un rassegnato piacere. È il pomifero autunno, nella sua giovane antichità ad attirare la mia immaginazione. Nulla di più, credo, nulla di meno. Il resto fluttua altrove, tra i rami protesi all’infinito nella loro fissità pensosa. E penso anch’io a queste parole che forse non rileggerò.

 

 

 

© Federico Cinti

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Le terzine smarrite di Dante a Guido

 

Guido, i’ vorrei che tutto fosse ancora

possibile, l’amore, la poesia,

l’incantamento, l’animo d’allora.

 

Fu soltanto un abbaglio, una follia

presumere d’andare, di sognare;

Virgilio mi raccolse per la via.

 

Rischiai dopo il naufragio d’annegare

in quel pelago; eppure, dalla riva,

con la morte negli occhi guardai il mare.

 

Riguardai, qualche cosa in me moriva

per sempre, qualche cosa sopravvisse:

spenta non era in me la fiamma viva.

 

Guido, lo so, tuo padre me lo disse

con le sue amare lacrime silenti

che era rinato in te l’antico Ulisse.

 

Compresi chi noi fossimo, gli eventi

vissuti insieme, il tuo intimo disdegno,

la sorte tua tra le perdute genti.

 

Ti condannò l’altezza dell’ingegno,

lanciato a precipizio oltre i riguardi

d’Ercole, estrema linea, ultimo segno.

 

Guido, lo sai, adesso è troppo tardi:

su di te il mare già si chiuse nero,

come altrui piacque; ora in eterno tu ardi.

 

Fu altro il cammino per vedere il vero,

per lo gran mar dell’essere: felice

mi mostrò il santo volto del Mistero

 

la donna mia, l’altissima Beatrice.

 

 

Chissà se Dante, quando esprimeva al «primo de li suoi amici» (Vita nuova, III), Guido Cavalcanti, il desiderio di essere «messi in un vasel, chad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio» (Rime, LII, 3-4), immaginasse non solo che avrebbe tolto a «l’uno» e «a l’altro Guido / la gloria de la lingua» (Purg. XI 97-98), ma soprattutto che lo avrebbe perso in quel mare tanto vagheggiato nel plazer, dopo un naufragio in «acqua perigliosa» (Inf. I 24)? A quel tempo, negli anni della Vita nuova, quando verosimilmente compone il sopracitato sonetto, era tutto ancora possibile, «ragionar sempre d’amore» (Rime, LII 12), discettare della poesia in cui «il buono incantatore» (Rime, LII 11), mago Merlino secondo l’interpretazione di Gianfranco Contini, avesse «la formula che mondi potesse aprire» (per dirla con Eugenio Montale, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, 9), restare in compagnia degli amici e delle donne amate, come «monna Vanna e monna Lagia poi / con quella che è sul numer de le trenta» (Rime, LII, 9-10). Eppure, qualche cosa mancava: non era con loro Beatrice Portinari, «la donna de la salute» (Vita nuova, III). E Guido lo sapeva: sapeva benissimo che la sua «monna Giovanna» aveva il nome di «Primavera», perché doveva preparare l’arrivo di Beatrice (cfr. Vita nuova, XXIV), alla prima di molto superiore.

Era forse soltanto una follia «guardare oltre, sognare», perché non sempre «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II, 9-10, credere che tutto fosse razionalmente conoscibile, presumere in ultima analisi di non avere bisogno di Dio. Da quel sogno Dante si ridesta in «una selva oscura» (Inf. I 2), che altro non è se non l’oggettivazione del sonno della ragione in cui si è ritrovato senza nemmeno sapere come, senza comprendere che proprio Beatrice vegliava su di lui, sul suo lungo, tortuoso viaggio, anche dopo «la decenne sete» (Purg. XXXII 2). È l’inizio della salvezza, la presa di coscienza che deve uscire «fuor del pelago» (Inf. I 23) di Guido, aggrappandosi alla seconda tavola del pentimento, e abbandonarsi alla grazia. Proprio davanti a Virgilio, apparsogli «nel gran diserto», (Inf. I 64) grida «miserere di me… / qual che tu sii, od ombra od omo certo!» (Inf. I 65-66). Era stata la «Vergine Madre, figlia del suo Figlio» (Par. XXXIII 1) a chiedere l’intervento di «Lucia, nimica di ciascun crudele» (Inf. II 100), che a sua volta aveva chiamato «Beatrice, loda di Dio vera» (Inf. II 103) e questa era ricorsa a Virgilio, l’«anima cortese mantoana, / di cui la fama ancor nel mondo dura, / e durerà quanto ’l mondo lontana» (Inf. II 58-60). Dante, che aveva abbandonato «la verace via» (Inf. I 12), attraverso l’amore per «la donna de la salute», è toccato dalla luce della grazia.

In quella «selva oscura» (Inf. I 2) la luce era finalmente filtrata, da quel «pelago» (Inf. I 24) Dante era riuscito ad arrivare faticosamente «a la riva» ancora vivo: «nel mezzo del cammin de la sua vita» (Inf. I 1) cominciava il vero viaggio lungo «la diritta via» prima «smarrita» (Inf. I 3) per giungere alla verità da svelare e rivelare. Tra i vari specchi in cui Dante si riflette, nel suo percorso agli inferi, incontra pure quello di Cavalcante, padre di Guido, che si dispera di non conoscere nulla dell’attuale vita del figlio. Dovrebbe essere lì, con l’amico di sempre; ma forse «non fiere li occhi suoi lo dolce lume?» (Inf. X 69). Il padre è più che angosciato: il suo dolce nato potrebbe essere morto o, peggio ancora, non giovarsi più della vivida fiamma della ragione. Dante non gli risponde, nel fraintendimento paterno, quasi a conferma degli inevitabili sospetti: Cavalcante non sa che il pellegrino è stato distratto da un dubbio, perché non si capacita che l’ombra dinanzi a sé non conoscesse il presente, come del resto era successo in vita. Cavalcante annega nelle sue lacrime, altro mare inaccesso, come il più grande di tutti gli eroi navigatori: «supin ricade e più non pare fora» (Inf. X 72).

Dante ha compreso che è stato concesso di «correr miglior acque» alla «navicella del suo ingegno» (Purg. I 1-2) ha capito che è un altro il «pelago» (Par. II 5) per il suo «legno che cantando varca» (Par. II 3): sotto la guida di Beatrice, «quasi ammiraglio che in poppa e in prora / viene a veder la gente che ministra / per li altri legni, e a ben far l’incora» (Purg. XXX 58-60), può finalmente percorrere «l’alto sale» (Par. II 13) del Paradiso, della verità rivelata e conoscibile a intelletto umano, «com’altrui piacque» (Inf. XXVI 145 e Purg. I 133), se si resta all’ombra dell’Altissimo. Non ha attraversato il «varco / folle d’Ulisse» (Par. XXVII 82-83), i «riguardi» segnati da Ercole «acciò che l’uom più oltre non si metta» (Inf. XXVI 108-109). Dante ha potuto attraversare interamente «lo gran mar de l’essere» (Par. I 113), che altro non è se non l’infinita immensità di Dio, sotto la vigile guida della sua Beatrice finché ella, tornata al suo seggio, non lo ha affidato a san Bernardo di Chiaravalle, il «sene / vestito con le genti glorïose» (Par. XXXI 59-60), perché potesse contemplare ciò che nessun uomo ha visto ed è rimasto vivo.

Ecco, si potrebbe dire che il progetto di Dio su Dante, nel racconto di costui, si è realizzato in e per Beatrice, donna sì, ma pure tramite anagogico per giungere fin nell’intimo del mistero, a quell’incarnazione in cui il poeta si specchia definitivamente, anche se ammette che «mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Così era stato fin dall’inizio, fin dal primo incontro, «Nove fiate appresso lo suo nascimento» (Vita nuova, II), a soli nove anni, quando anche «la gloriosa donna de la sua mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che sì chiamare» (Vita nuova, II). Il traviamento era iniziato con l’amico Guido. Eppure, si potrebbe dire, come in fondo già si è detto: Guido, io ti persi. E perdendo costui, Dante salva se stesso.

 

 

 

© Federico Cinti

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Avresti la mia età

 

Inerte il cielo. Un brivido riscuote

la memoria assopita. All’improvviso

affiora, come allora, il tuo sorriso,

rarefatto tra immagini remote

 

in cui trovarsi e perdersi. Vie ignote,

adesso, un filo d’erba ormai reciso.

Chissà che pensi. Tutto quanto è intriso

ancora di quel tempo, delle vuote

 

miserie di quegli anni. Oggi è il tuo giorno.

Passerà, come gli altri, come il resto.

Avresti la mia età, non me lo scordo.

 

Già fosti, un soffio di tra il vento sordo.

Non dimentico, in questo giorno mesto:

avresti la mia età, né fai ritorno.

 

 

Pochi anni o molti che importa? Non ricordo nemmeno più quando fu l’ultima volta, forse subito dopo la fine del liceo. Ci ritrovammo a scuola insieme, per una strana fatalità. Prima si prendeva solo lo stesso autobus. Parlarne adesso mi fa un certo effetto. Veramente un altro mondo, un’altra vita, un’immersione in quel tetro fondo di ricordi. E ancora «cigola la carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1) a ricercare la luce in cui fondersi in questo giorno di settembre, il tuo giorno, anche se poi veramente non lo abbiamo mai festeggiato. Lo seppi anch’io per sbaglio, quando dicesti che compivi gli anni assieme ad Andrea, altro amico di cui ora non so più nulla.

Non mi parve vero venire quel giorno di gennaio a salutarti all’Abbazia di Zola. Lo imparai da Lucia, con le lacrime agli occhi. Forse non è vero nemmeno adesso: non ci hai salutati, non ti sei incamminata per l’oscuro «iter tenebricosum / illuc, unde negant redire quemquam» (Catullo, carm. III 11-12). Sei qui con noi, mentre ti ricordiamo, a distanza di tanti anni. Mi resta di Catullo anche l’immagine del fiore reciso, «cecidisti velut prati / ultimi flos, praetereunte postquam / tactus aratro est» (carm. XI 22-24).

 

 

 

Tengo anch’io in mano il filo dei ricordi «che s’addipana» (G. Montale, La casa dei doganieri, 11), di quel tempo così particolare che non si vede l’ora che passi e poi, una volta fuggito, si rimpiange ogni istante. Avresti la mia età, Ilaria: lo so bene. Tu non ritorni e anche questo so bene. Ma che importa ricordarlo adesso? Volgersi indietro alle volte è necessario, perché «trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 3-4). Narciso oppure Euridice non importa: quel tempo è chiuso chissà dove, emerge solo a improvvise illuminazioni, come la poesia del Porto sepolto, per cui «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7). Così, Ilaria, è la poesia e così la vita.

 

 

© Federico Cinti

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Auguri, Chiara

 

Assorto nel meriggio

un pallore d’azzurro tra le nuvole

galleggia all’inquietudine

umbratile di un fremito impalpabile.

 

Rimane tra le palpebre

il mormorio delle cicale tremule.

Chiara laggiù nell’anima

ha innanzi l’occhio incredulo un’immagine.

 

In quel sorriso labile

abita una vertigine ineffabile.

Rapida all’aria tenue

ancora fugge, ennesimo incantesimo.

 

 

Alla fine di luglio qualsiasi cosa è possibile, soprattutto quando s’affaccia il tempo della vacatio, che non è semplicemente la vacanza vagheggiata a scuola dagli studenti, e forse – azzardo io – anche più dai docenti, ma soprattutto il tempo libero da dedicare a se stessi e alla propria crescita intellettuale, morale e spirituale. Ecco perché, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16) o quando «posa il meriggio sulla prateria» (G. Pascoli, Dall’argine, 1), tanto per citare un autore a me carissimo, la riflessione su se stessi diviene pressoché obbligatoria se non scontata. Dal più alto dei cieli al più profondo del cuore, come in uno specchio, ci si smarrisce e ci si ritrova in un abbraccio inscindibile. Anche i suoni si fanno echi di un mondo fuori del tempo, in un mare affogato di cicale.

Alla fine di luglio tutti i miti si riaffacciano in un rigurgito di sfrenata inerzia a mostrare la loro eterna vitalità, Narciso ed Eco, Orfeo ed Euridice, le cicale e il mare. Tutto veramente si fa possibile, se non reale, nella sonnolenza estatica dell’ora che posa oziosa e si perde lontano, come un ricordo affiorato e subito svanito, come una voce che a poco a poco se ne va per un sentiero ignoto, come una musica appena percepita chissà da dove, chissà da chi. Riaffiorano alla mente i deliri della «gna Pina», errabondi per le campagne riarse di Sicilia, «quando il sole batteva a piombo» (cfr. G. verga. La lupa).

A luglio tutto si fa possibile, anche scrivere gli auguri a un’amica, Chiara Pazzaglia, senza necessariamente cadere in versi d’occasione, perché la poesia nasce di per sé da un’occasione, da un «kairòs», che ne è sua fonte e culmine. Il correlativo oggettivo non se lo è certo inventato Eliot o Montale. Lo ritroviamo già nel mondo antico, anche in un poeta sublime come l’Orazio lirico, per esempio nella fonte di Bandusia, che tanti prima di me hanno studiato, amato e tradotto. Ecco, oggi l’occasione è proprio questo compleanno così particolare, così netto nel traguardo e nelle intenzioni. Alla corsa del tempo ogni tanto ci si può opporre e non con atteggiamento nostalgico, come se si volesse obbligatoriamente volgere indietro, ma solamente per un augurio, come scritto su un muro, quello della memoria.

 

 

 

© Federico Cinti

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Per il mio onomastico

 

Fuggono in cielo nuvole

ebbre di sole, echeggia il canto assiduo

delle cicale fragili

e tutto sa d’inerzia malinconica.

 

Rimango sulla soglia

infinita dell’anima ad attendere,

colmo d’oblio dimentico,

oggi, finché si avveri l’incantesimo.

 

 

Strana la sensazione che oggi sento in me, come se qualche cosa dovesse avverarsi, anche se non so che cosa. Rimango in questa sospensione del cuore, quasi che io dovessi trascendere la soglia che mi separa impercettibilmente dall’incantesimo, dal sogno, dal desiderio. Ecco, là, dovrei andare là, dove non so, dove pure qualche cosa chiama. Forse è l’asintoto tra il tutto e il nulla. In alto il cielo, la «campana fioca» senza confini, per dirla con l’Ungaretti di Solitudine, anche se io l’avrei chiamato «cupola», in basso il cuore che s’allaga all’improvviso nell’attesa irrefrenabile di ciò che non conosce. 

Suoni e colori si susseguono e mi inseguono. Di nuovo la domanda montaliana: «il varco è qui?» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19). Questo il senso profondo che si svela in un giorno di luglio, un giorno particolare, dedicato dalla tradizione secolare al mio onomastico. Interno ed esterno, dentro e fuori. Ma dov’è il confine, la via di fuga che permette di attingere alla verità? Questo forse il senso di straniamento che avverto, che quasi voglio fortemente. La strada da percorrere è ancora lunga, tortuosa, non priva d’insidie. In estate ogni cosa si rende possibile lungo l’eterna azzurrità del cielo.

 

 

 

Sarebbe anche possibile che io vestissi i panni di un improbabile san Federico, per dare senso al giorno che oggi inesorabilmente trascorre nell’opacità di un sole obliquo. A metà estate si può dare anche questo strano caso, di specchiarmi nella santità altrui e di ritrovarmi, come forse dovrebbe essere normale a chi è «ben tetragono ai colpi di ventura» (Par. XVII 24) come sono o come provo a essere. Nulla avviene per caso, perché il caso, con buona pace di chi «il mondo a caso pone», non esiste. Colgo quindi l’occasione per attendere l’avverarsi del sogno, per carpere orazianamente il diem che a poco a poco sta trascolorando nel crepuscolo.

 

© Federico Cinti

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Pennellate di cielo

Pennellate di cielo. Si posa dovunque l’estate.

Una riga limpida l’orizzonte sospeso.

Sussurri di vita. Si celano antichi presagi.

Sogni di sogni negli echi di favole.

Ascoltano gli alberi. Languiscono al sole che avvampa.
Il verde dell’erba già ingiallisce di fieno.

L’autunno ormai bussa. Si stempera lieve nel fresco
che a tratti s’avverte la sera. Si confonde

nell’anima il ciclico ritorno di quanto è passato.
Distilla una musica, voce accennata appena.

S ’allaga l’ora, eternamente fissa, chissà come, chissà dove.

Fermarsi a contemplare la cupola cava del cielo sa già d’infinito, d’altrove. Quanto dura quest’attimo? La frenesia si stempera tra le voci arcane avvertite tra gli alberi inondati di luce. «Divina Indifferenza», la definirebbe Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato, 6: in essa e per essa tutto esiste al di fuori di chi sente il fluire della vita. il velo cala sul confine indicibile e nell’azzurro si scioglie un’elegia, musica dimenticata tra la quotidianità delle nostre giornate così brevi, così stanche.
Pennellate nell’anima di un cielo simile a quello disegnato dai bambini, in cui l’azzurro è una striscia in alto e il sole un disco giallo che ride. In quell’immagine c’è il desiderio di ritornare a vedere la realtà per come veramente è e non nel modo in cui ce la impongono altri. La sfida, questa, cui si è chiamati quasi senza saperlo. Oltre la linea d’ombra l’indecifrabile senso dell’ignoto, cui spesso ci s’abbandona per poi ritrovarsi come dopo un lavacro di purezza. Scrollarsi di dosso il magma dell’ansia ha valore più che catartico: è tornare liberi dopo la coazione di una prigionia senza barriere.
Le pennellate di cielo saziano la fame d’aria che ci soffoca nelle corazze costruiteci addosso dalle inutili convenzioni cui ci si sottopone. Il ritmo del giorno sta nel suo ciclico cadere e ritornare, secondo il magnifico verso di Catullo: «il sole può cadere e ritornare» (carm. V 4). Anch’io allora seguo questo ciclo, seguo questo ritmo e mi ritrovo bambino.

© Federico Cinti
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