Consigli di Marziale a un suo amico (X 47)

 

È questo, mio carissimo Marziale,

a renderci la vita più felice:

ereditare soldi, non sudarli;

campi fertili, stufa sempre accesa;

mai cause, rari impegni, mente quieta;

vigore liberale, corpo sano;

saggia semplicità, vere amicizie;

banchetti in compagnia, cibi senz’arte;

notti non ebbre, libere da affanni;

amori non amari, eppure onesti;

sonni capaci d’abbreviare il buio;

essere ciò che si è, non volere altro;

non temere la morte e non bramarla.

 

 

Mi sono trovato a discettare, e con grande piacere pure, con i miei studenti, l’altro giorno, riguardo a questo epigramma di Marziale (X 47). Riporto ovviamente la mia versione; altrimenti, che gusto ci sarebbe? Non ho saputo resistere alla tentazione di rendere questi bei faleci, anche se qualcuno sostiene ancora l’impossibilità di tradurre, quasi che si facesse per vezzo o per necessità. Non so, discorsi oziosi: è così bello buttarsi nella mischia, lottare con l’autore e alle volte avere pure la meglio. Oh, non voglio certo paragonarmi all’indiscusso maestro dell’arte epigrammatica! Mi diverto, tutto qui, e imparo qualche cosa.

Imparo, sì, perché nel dialogo con Giulio Marziale, l’amico cui indirizza questo breve carme, il più famoso Marco Valerio Marziale indica la ricetta sicura della felicità. Pochi punti, essenziali, attualissimi ancora. Lo sforzo è minimo, sostiene il povero cliens a chi porta il cognomen uguale al suo. Oh, potrebbe pure essere che, nella finzione, sia poi un suo alter ego. Parlare con sé allo specchio è una vecchia pratica che precede il lettuccio dell’analista, anche se non con la stessa soddisfazione.  Questo lo dico io, ovviamente, che continuo a riflettere sui riflessi d’acqua pura, argentea. Sì, lo so: è un’altra storia, ma me la si lasci almeno accennare. Prima o poi la riprenderò come si deve e, se mi sarà consentito, anche dove si deve.

Ammetto che in circa venti secoli le cose non sono poi cambiate più di tanto, anche se Marziale è abile a nascondere dietro ogni ingrediente della felicità quel che gli manca e che non avrà mai. chissà, forse perché non si può avere in assoluto nulla di ciò che si desidera. Siamo alla costante ricerca di ciò che non possiamo avere, come i paladini e le dame di Ariosto nel magico palazzo di Atlante. non so, anche questa è una pagina cui non riesco a non pensare: tutti, a un certo punto, si ritrovano nello stesso luogo a inseguire una cosa diversa, l’oggetto del loro desiderio. Appena credono d’aver trovato quel che più bramano, come per incanto, scompare e ricomincia la corsa. Ma non è proprio così quello che ci succede? Ariosto, un genio che valica i secoli. Come Marziale, non c’è che dire. Facile parlare a Giulio di quel che si deve fare per essere più felici. E lui lo fa? Secondo me vorrebbe, ma è più facile dire agli altri che cosa si deve fare. Oggi mi pare proprio la stessa cosa. A me, almeno capita così, come afferma il conte Leopardi parlando della noia. Ma qui scantono di nuovo e non è davvero il caso.

Insomma, per i più dotti, riporto pure il testo originale:

 

 

Vitam quae faciant beatiorem,

Iucundissime Martialis, haec sunt:

Res non parta labore, sed relicta;

Non ingratus ager, focus perennis;

Lis numquam, toga rara, mens quieta;                            5

Vires ingenuae, salubre corpus;

Prudens simplicitas, pares amici;

Convictus facilis, sine arte mensa;

Nox non ebria, sed soluta curis;

Non tristis torus, et tamen pudicus;                            10

Somnus, qui faciat breves tenebras:

Quod sis, esse velis nihilque malis;

Summum nec metuas diem nec optes.

 

 

Se la traduzione apparisse troppo libera, non c’è difficoltà alcuna: era proprio così che volevo che fosse. In fondo, la traduzione è mia, il testo originale di Marziale. Questioni poetiche, non altro. Lo si è sempre detto che la lettera uccide i testi. Sforziamoci a leggere anche quel che non c’è scritto; anzi, soprattutto quello dobbiamo cercare e trovare. Altrimenti, che gusto c’è a leggere e a non comprendere? Anche questo dicevo ai miei studenti, poveri destinatari di un mio soliloquio. Già, perché nelle mie lezioni finisco sempre a parlare con me stesso e con gli autori che mi si pongono davanti. Triste destino avere la compagnia dei grandi lungo il proprio cammino. Ma credo proprio si siano abituati, i miei studenti intendo, a sopportare le divagazioni di un autore alla ricerca dei suoi personaggi.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

In questo giorno – all’Ingegnere

 

Attardarsi sul limite. Nebbiose

lontananze nell’anima, un sussurro,

una voce insondabile tra cose

chiare d’azzurro.

 

Antichi sogni. Lieve nostalgia

muta per l’aria, nel silenzio assorto

appare ciò che fu. Lungo la via

noia e sconforto.

 

Trema un sibilo d’ala. Scuote il vento

emozioni d’un attimo. Oltre il velo

chimere d’una vita, lo sgomento

che chiama al cielo.

 

Hanno gli alberi un fragile torpore

in sé. Tutto fu già, tutto è ritorno

nell’oblio di quest’essere incolore,

in questo giorno.

 

 

Nascere in autunno, in particolare in questo giorno, mi pare un privilegio. In altre epoche della mia vita non mi avrebbe mai sfiorato nemmeno l’idea di pensarlo. Si cambia, è necessario, e pure con un insano gusto per la metamorfosi, tutto qui: la coerenza non è sempre una virtù e soprattutto non lo è relativamente a certe questioni. Anche perché, bisognerà pure ammetterlo, il tempo è un congegno strano. Ero quasi tentato di lanciarmi su «ordigno», ma poi mi sarebbe sembrato di scadere nel ghiribizzo della citazione, da Dante in su o in giù. Sì, proprio il sommo vate, perché impiega questo termine per dare una visione d’insieme di Malebolge, «di cui suo loco dicerò l’ordigno» (Inf. XVIII 6). Probabilmente ordo gli sarà risultato troppo neutro, troppo poco diabolico intendo, anche se è vero che «l’occhialuto uomo […] inventa gli ordigni del suo corpo» (I. Svevo, La coscienza di Zeno). Niente di più, non volevo esagerare. Forse è la malinconia autunnale, una rivisitazione della noia leopardiana. Del resto, anche io ho l’impressione «che per tutto nel mondo è novembre» (G. Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno, 56), in uno spleen tutto nostro, tutto bolognese, «in un tedio che dura infinito» (v. 60).

Eppure, il mio amico Ingegnere è nato proprio a novembre, in particolare in questo giorno. Me lo ripete sempre, con una certa aria di superiorità: «Tu sei molto più vecchio di me». Ed è vero, purtroppo. Così, nel mio posticino solito, sul lato corto del tavolo della sua cucina, mi stringo nelle spalle e annuisco. Perché sì, è la verità. Poi, lo guardo dritto, pure un po’ dispiaciuto, e gli confido in tutta sincerità: «Lo so, lo so: sta’ tranquillo, ché te lo scrivo sulla lapide». A quel punto si placa ogni moto di superbia. Oh, io non sono nato a novembre: e che ci posso fare? È «un piacer serbato ai saggi», questo: l’ho già ammesso con rammarico.

Chi glielo va a raccontare, poi, all’Ingegnere del treno? Sì, del «mostro, conscio di sua metallica / anima» (G. Carducci, alla stazione in una mattina d’autunno, 29-30), quello per cui «per tutto nel mondo è novembre»? intendiamoci, non so determinare con esattezza, ma nemmeno Heisenberg ci era riuscito, figuriamoci se ce la posso fare io, i danni irreversibili della scienza e della tecnica. Anche’Ntoni di Padron ’Ntoni non si era rovinato per colpa del treno che lo aveva staccato, povera ostrica inesperta, dallo scoglio di Acitrezza, per portarlo a fare il servizio militare a Napoli? È l’inizio della fine, quando tutto cambia perché nulla cambi. È «la fiumana del progresso», chiamiamola pure così con le parole di Verga: sopraggiunge inaspettata e distrugge un equilibrio secolare, millenario alle volte. Un’ondata più forte sull’arenile e tutto è da rifare perché torni come prima.

Insomma, chi glielo va a spiegare all’Ingegnere che anche Mattia Pascal, quando non era ancora fu, si perde (o si ritrova? Io sono ancora incerto sulla vera risposta) sul treno di ritorno da Montecarlo, con un bel gruzzolo in tasca, in quel di Ventimiglia? Tutto a un tratto, all’improvviso, come per epifania inaspettata, apprende la notizia di essere morto. Già, morto, mica altro, non certo smarrito. Sapere la verità può essere una rivelazione terribile. Io non me la sento. No, non ho il coraggio di parlargli del treno, all’Ingegnere intendo, lui che ci è tanto affezionato. Anche l’avvocato della Carriola esce di testa sul treno, di ritorno da Perugia. E non parliamo di Belluca, nel Treno ha fischiato. Sì, è vero, Pirandello è un po’ una delle mie ossessioni, ma se non ne parlo a un amico di vecchia data, più di cinque lustri, direi quasi sei per esagerare, tanto chi va a controllare?

 

 

 

Sarà per questo che, ultimamente, si è spostato a studiare il trasporto aereo. Già, quegli strani oggetti che violano i cieli, una volta così belli a poterli guardare senza che nessuno ci avesse tracciato rotte così iperboliche. E parlavano di tracotanza a proposito degli Argonauti. Ma oggi, i miti, ditemi voi, chi li legge più? Eppure, parlavano di noi. Ecco, l’Ingegnere mi avrebbe fatto notare che, appunto, «parlavano di noi», mentre ora parlano di un mondo che non esiste più, rottami romantici da archiviare per sempre. Già, perché il laudator temporis acti sono io. Anche questo lo ammetto e lo sottoscrivo pure claris verbis. Gli scheletri li tengo fuori dell’armadio, in bella vista, senz’altra pretesa che mi ricordino chi avrei voluto e non sono stato in grado di essere. Il resto non conta, non ha mai contato. Il mio posticino sul lato corto del tavolo non me lo toglie nessuno. Potrei chiamarlo il mio posticino al sole, se non guardasse di sbieco la terrazza che dà sul cavedio interno, multietnica tavolozza variopinta.

In questo giorno, come «aus nebliger Ferne», per riprendere le parole di Sisi, «dalle nebbiose lontananze», guizza qualche pensiero, simile a «un’ombra errante / con sopra il capo un largo fascio» (G. Pascoli, Nella nebbia, 19-20). Nella nebbia, mare senza onde, in cui gli alberi sottili si confondono, come ciò che sappiamo, come ciò che vediamo e sentiamo. È questo il mare della conoscenza, perché in fondo sapere è non sapere. L’Ingegnere lo sa, forse anche più e meglio di me, che «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Così, insieme, ci si inoltra in questa foresta di simboli viventi, che è il mondo, anche interiore.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Elegia delle nuvole

 

Pallido il sole, appeso alla lontana

elegia delle nuvole. Silente

ricordo di un’immagine ormai vana

adesso l’ora, immobile presente.

 

Non suono, eco di un’eco evanescente

dove tutto già fu, dove un’insana

rapsodia oscilla tra l’immenso e il niente

eterno, orma d’oblio, ombra profana.

 

Autunno malinconico, infinito

respiro oltre ogni limite, ogni foglia

umbratile, pulviscolo dorato

 

in cui si specchia tutto ciò che è stato,

sogno o realtà d’un tempo sulla soglia

inerte, prima d’essere sfiorito.

 

 

Mi ritrovo così, di fine ottobre, trascinato da un murmure lontano. Dentro o fuori di me? Non lo so dire. Mi ritrovo, ritrovo insomma me stesso, nel fluire incessante di un’ora immobile, accoccolato al sole pallido di un giorno senza età. anch’io non ho età, adesso, tra il fluttuare dei pensieri. Mi sovviene la domanda rivolta dal Recanatese alla «povera foglia frale, / dove vai tu?» (G. Leopardi, Imitazione, 2-3). Dove vado io e da dove vengo? Sulla linea retta dell’infinito mi sento un punto dinamico che respira nell’intuizione diretta del presente. Perché tutto è presente, sempre presente. Agostino ce lo aveva suggerito, ma siamo troppo impegnati a seguire ciò che fugge. Quod sequitur fugio, quod fugit ipse sequor (Ovidio, Amores, II 219).

È questa malinconia, forse, che scava nell’anima informe solchi in cui seminare «in questa giornata sementina» (G. Pascoli, I gattici, 2). La malinconia non è tristezza, bensì il sentimento della tristezza. Guardarsi dentro, tutto qui, ascoltando musiche arcane o dimenticate. È questa malinconia, forse, il vero volto dell’autunno, in cui il tutto muta immobilmente, torna ciò che era e che sarà eternamente, oscillando tra il l’immensità del tutto e l’eternità in cui tutto s’annulla per ricevere il suo senso vero, pieno.

 

 

 

Si cammina, così, lungo la soglia invisibile, segnata dalle foglie a terra, perché «d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, finché ’l ramo/ vede a la terra tutte le sue spoglie» (Inf. III 112-114). Si va, udendo «tra giardini ed orti / di foglie un cader fragile» (G. Pascoli, Novembre, 10-11); si va, cercando comunque tutto ciò che illumina il torpore di queste giornate, come il volto di un amico o di una persona cara con cui parlare, con cui stare per un po’ e condividere il proprio percorso. Nulla di più. Il tempo non può toglierci la gioia di un sorriso fraterno.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Variazione sul tema dell’autunno

 

Fruga l’ansia del tempo. L’infinito

rampolla dentro l’anima, alle soglie

ancestrali dell’essere. Assopito

nulla si coglie,

 

cascame in mezzo agli alberi. La via

espia l’ora al crepuscolo. Dintorno

silenzi d’ineffabile armonia

chiudono il giorno.

 

Obliquano i pensieri. Un guizzo estremo

tra un migrare di rondini lontano,

ultimo sguardo a quello che saremo

già stati, invano.

 

Naufrago il cuore nuota oltre il confine

ondoso. Là la meta, il senso appare

limpido, senza veli, inizio e fine,

immenso mare.

 

 

Variazione sul tema dell’autunno, anche oggi, mentre ripenso a quel mio Estremo cielo, dove il «raggio di sole» di Quasimodo (Ed è subito sera, 2), risuonava in me nella versione prosastica – si fa per dire, ma qui tutto è fatto per dire – della Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa al Fu Mattia Pascal di Pirandello: «Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri?».

Non sto nemmeno a ricordare che, nella stessa Premessa, anche se si tende a non accorgersene, il nostro geniale Pirandello aveva alluso pure a Leopardi, sì, al Leopardi della Ginestra, quando scrive: «Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?». Mi pare proprio che le parole del Recanatese, «non pur quest’orbe, promettendo in terra / a popoli che un’onda / di mar commosso un fiato / d’aura maligna, un sotterraneo crollo / distrugge sì che avanza / a gran pena di lor la rimembranza» (G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto, 105-11) siano riecheggiate con grande perizia e umorismo.

Quei «vermucci», del resto, in Leopardi assumono la sembianza, come è noto, delle formiche: «Come d’arbor cadendo un picciol pomo, / cui là nel tardo autunno / maturità senz’altra forza atterra, / d’un popol di formiche i dolci alberghi, / cavati in molle gleba / con gran lavoro, e l’opre / e le ricchezze che adunate a prova / con lungo affaticar l’assidua gente / avea provvidamente al tempo estivo, / schiaccia, diserta e copre / in un punto; così d’alto piombando, / dall’utero tonante / scagliata al ciel profondo, / di ceneri e di pomici e di sassi / notte e ruina, infusa / di bollenti ruscelli, / o pel montano fianco / furiosa tra l’erba / di liquefatti massi / e di metalli e d’infocata arena / scendendo immensa piena, / le cittadi che il mar là sull’estremo / lido aspergea, confuse / e infranse e ricoperse / in pochi istanti: onde su quelle or pasce / la capra, e città nove / sorgon dall’altra banda, a cui sgabello / son le sepolte, e le prostrate mura / l’arduo monte al suo piè quasi calpesta» (G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto, 202-230).

Non parlerò dell’allusione pascoliana a questo capolavoro leopardiano, nel Ciocco dei Canti di Castelvecchio. Lo faccio così, di traverso, senza nulla a pretendere. Eppure, Leopardi un po’ c’entra, nella mia divagazione sull’infinito e sul naufragio, sul mare come simbolo eterno dell’immensità e dell’assoluto in cui tutto si compie e a cui tutto tende. Così pure si chiudono le Myricae, «udivasi un fruscìo / sottile, assiduo, quasi di cipressi; // quasi d’un fiume che cercasse il mare / inesistente, in un immenso piano: / io ne seguiva il vano sussurrare, / sempre lo stesso, sempre più lontano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 11-16).

 

 

 

Volevo solo scrivere un biglietto per il compleanno di un mio studente, francesco. I compagni volevano fargli una festa a sorpresa durante la festa che egli stesso aveva organizzato. Quel giorno, tuttavia, avevo parlato di Leopardi, anche se l’autunno si mostrava in tutto la sua prepotente malinconia. Così è nato questo testo, questo piccolo omaggio. Nulla di più. Questa l’occasione, perché ogni testo ha un’occasione, un kairos, inserito nel chronos del fluire della vita. spero resti il pensiero, non altro.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

L’estremo cielo

 

Espia il tempo l’oblio. Sordo cascame

le foglie in mezzo agli alberi. Si frange

il sole occiduo tra le tetre trame

sopra la linea d’ombra. Il cuore piange

 

al soffio della notte, ardua falange

tetra sul petto dell’antico stame.

Obliqua vanità. L’ora rimpiange

rifugi d’altri giorni, d’altre brame.

 

Nulla è più come allora. Lieve il velo

adagiato sull’anima assopita

dentro le cose. Sibila un sussurro

 

acerbo, l’occhio vaga per l’azzurro

muto di nostalgia. Sulla salita

estrema un filo limpido di cielo.

 

 

Oggi ho freddo, chissà. Non lo sopporto. Il chiarore dell’aria che qualcuno (di nome Giosue Carducci?) avrebbe definito «adamantino», anzi meglio «adamàntino», ha un che d’incantato, quasi uscito da un quadro d’altri tempi. Tutto adesso è ormai d’altri tempi, nell’oblio in cui siamo immersi perennemente, espiazione di un’ora immobile all’apparenza in fuga, eppure fissa eternamente. In questo costante crepuscolo tutto appare così, all’improvviso cascare delle foglie, è così, tra «i brevi dì che sembrano tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-13), tutto resta sospeso e indicibile.

Si chiude il giorno come palpebra al soffiare della notte, simile all’eburnea falange «dell’indomita Parca» che recide, per l’ennesima volta, lo «stame» (G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 43-44) arrugginito delle ore. Davvero, sempre di più, nulla è più come prima, anche se nulla poi lo è mai sul serio. Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume, secondo la sentenza dell’Efesio, nell’immoto fluire del tempo, sempre antico, sempre nuovo. Nella vanità delle vanità si risolve ogni giorno e ogni notte. Eppure, questo è noto solo a chi riesce a oltrepassare l’impalpabile linea d’ombra dell’orizzonte.

 

 

 

C’è un velo sottile su ogni cosa, azzurro come l’ombra prima del buio che tutto copre. Io lo sento così, sopra ogni cosa, me lo sento addosso, dentro il cuore. Il segno dell’autunno che fa suonare i suoi violini, ghirigori sonori nel muto vuoto dintorno. impressione che torna e che rifugge, chissà come, chissà dove. Nulla è più come prima, nulla lo sarà mai più. Ci attacchiamo all’ultimo raggio di luce, perché «ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera» (S. Quasimodo, Ed è subito sera). Verità nelle cose, verità dentro di noi, questo l’estremo cielo del mio canto.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

A Valeria

 

Vaga per l’aria una dolcezza appena

autunnale, un pulviscolo dorato

levita intorno al vento, cantilena

ebbra di nostalgia, di ciò che è stato.

 

Rimane l’ombra rara del passato

in bilico sull’anima serena.

Ancora un passo, un sogno sussurrato

visita il cuore, un brivido alla schiena.

 

Era il tempo sull’orlo, era la foglia

nata sul filo azzurro all’orizzonte

tra le case e due bianche spennellate,

 

ultimo incanto, adesso, dell’estate

ridente tra le cose, sotto il monte,

inizio (o fine?) sull’eterna soglia.

 

 

Ed è un nulla, così, voltare pagina, inizio e fine di qualcosa che non si sa, che non si vuole sapere fino in fondo. Ci si sforza di procedere come se nulla fosse; eppure, sappiamo bene dell’ingranaggio. Risuonano le parole di Orazio, quam minimum credula postero (carm. I 11, 8). Domani non c’è ancora e non ci sarà più. Leopardi lo aveva detto, parlando in un linguaggio segreto: «Lungi dal proprio ramo, / povera foglia frale, / dove vai tu?» (Imitazione, 1-3). Lo aveva detto, inseguendo il fluttuare nel vento delle foglie sul principio d’autunno. Ecco, forse è la malinconia autunnale, questa luce particolare che da sempre mi affascina e mi sgomenta.

Tra i rami degli alberi il sole sembra indugiare, come dimentico o smarritosi, mentre il vento canta antiche cantilene, miti senza età che sanno di vita e di ricordo. È l’estate fuggita chissà dove, chissà quando, impercettibile immagine oltre il margine, dentro l’«incartocciarsi della foglia / riarsa» (E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 2-3) nulla di nuovo, certo; eppure, ritornano sensazioni ed emozioni senza tempo. Un giorno come gli altri, certo, un giorno come nessuno, un giorno in cui fare festa.

Resto così a fissare il tacito scorrere delle cose, non certo senza un rassegnato piacere. È il pomifero autunno, nella sua giovane antichità ad attirare la mia immaginazione. Nulla di più, credo, nulla di meno. Il resto fluttua altrove, tra i rami protesi all’infinito nella loro fissità pensosa. E penso anch’io a queste parole che forse non rileggerò.

 

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Sul finire d’agosto

 

Attesa vana il tempo che va via:

rosa un filo sull’ultimo orizzonte,

Bersaglio al cuore, antica nostalgia;

torna azzurro il sereno dietro il monte.

Lenti i ricordi affiorano, pensieri,

ombre d’ombre su fragili sentieri.

Narciso, eterna immagine che muore,

di nuovo si rigenera in un fiore.

 

 

Non s’attende passare il tempo: lo si vive o lo si uccide, lo si prende o lo si perde. Starsene sul confine dei mondi è come starsene su quello dei mesi: una vertigine difficile da reggere. O di qua o di là, appesi al filo della decisione. Una scelta è guardarsi indietro o procedere. Nulla è mai dato invano, anche nell’apparente casualità degli avvenimenti. Ci si ferma a riflettere, questo sì, come Narciso dinanzi alle acque del fiume che eternamente scorre, il fiume della vita, le cui acque non sono mai le stesse, come le immagini che troviamo per la prima volta e ritroviamo per sempre. Anche l’identità del fiume esiste solo nella nostra ansia di catalogare l’universalità dell’essere. Tutto scorre nell’infinito vortice del fiume.

 

 

 

Anche attendere è un passaggio, un trascorrere lento dell’ora. Lontano un filo rosa, «cirri di porpora e d’oro» (G. Pascoli, La mia sera, 20), mentre a poco a poco, quasi impercettibilmente, «torna azzurro il sereno» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 16), una linea d’ombra che scivola tra il cupo in cui tutto si smarrisce. Nulla è più come prima, anche se tutto pare essere rimasto uguale. Ricomponiamo di volta in volta soltanto i pezzi di un mosaico che va in frammenti, ascoltando «in rime sparse il suono» (Rvf I 1) la voce della nostra antica coscienza.

Restano forse gli «esuli pensieri» (G. Carducci, San Martino, 15) su quel confine «tra le rossastre nubi» (G. Carducci, San Martino, 13) a consolarci dell’eterno trascorrere del tempo, dopo che il sole obliquo ha percorso nuovamente il suo tragitto. Transito, null’altro che un transito, all’esterno e all’interno di noi. Ricordi di ciò che fu, di ciò che forse sarà, come in un altro quadro Di fine agosto, tesoro senza fine dentro il cuore. Era un giorno così, come questo, eppure così malinconico già allora. Lo vissi e lo rivissi, fino a trattenerne il pulviscolo dorato dentro l’anima, come se eternamente scendesse «tra gli olmi il sole / in fasce polverose» (G. Pascoli, Patria, 7-8).

Narciso di nuovo e per sempre attende, nella fissità della nostra fantasia, sull’argine del fiume, di trasformarsi nuovamente in fiore, nella sua vera essenza di bellezza pura e algida. Di qua e di là dal quadro due verità si specchiano e si rispecchiano, l’una più autentica dell’altra. Il tempo non finisce e non comincia in questo ciclo di corsi e di ricorsi, dalla creazione al finale giudizio. Coglierne i progressi e i ritorni diventa esercizio di alta speculazione ermeneutica cui non ci si può sottrarre ingenuamente. Eppure, il tempo corre e noi con lui.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Auguri a Giacomo

 

Galleggia l’ora. Tra le vie assolate

il sole indugia languido in attesa.

Alita il vento, antica eco sospesa,

canto arcano, incantesimo di fate.

 

Ombre d’ombre le immagini sognate,

musica dentro l’anima indifesa,

orme del tempo, della vita arresa,

variazioni al variare dell’estate.

 

Entusiasmi s’inseguono. Lontano

nuota il cielo silente. Ecco il momento

tanto invocato: il ciclo si conclude,

 

unicità dell’attimo che illude

rapido nel ritorno dell’evento

allagato di luce. Nulla è invano.

 

 

nell’estate appena cominciata non riesco a non avvertire prepotente l’eco della Sera fiesolana, in cui il vate posa il suo sguardo « su ’l grano che non è biondo ancora / e non è verde, / e su ’l fieno che già patì la falce / e trascolora»(G. d’annunzio, La sera fiesolana, 25-28), in cui il Recanatese forse torna a contemplare la luna che «pendeva allor su questa selva / sì come or fai, ché tutta la rischiari» (G. Leopardi, alla luna, 4-5) nel giorno del suo compleanno, in cui Socrate e Fedro si allontanano da Atene in un mare di cicale nell’omonimo dialogo platonico. Letture, certo, rimembranze lontane, eppure così vive e così vere in questa liquida luminescenza senza un prima né un poi. Tutto forse già fu, tutto ancora sarà di nuovo e per sempre, fino al momento in cui verrà mietuto il grano, come nell’episodio di Giovanni in cui il Messia incontra la «femminetta / samaritana» (Purg. XXI 2-3) a Sicar presso il pozzo di Giacobbe e preconizza: «Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi  che già biondeggiano per la mietitura” » (Gv 4,35).

In questo languore estivo tutto galleggia, simile al sole nell’azzurrità del cielo, e prende vita, quella che deve avere nella pienezza, quando la primavera è già un ricordo lontano e il declinare dell’autunno è ben lungi dall’essere ancora immaginato. È quindi un privilegio riuscire a cogliere distintamente «il frutto / del mattin, della sera / del tacito, infinito andar del tempo» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’asia, 70-72), sapersi fermare sulla soglia a contemplare l’infinito per poi immergervisi completamente a metà del viaggio, del nostro viaggio. E ancora Leopardi, il cui giorno natale ricorre proprio oggi, ce lo rammenta, naturalmente al modo dei poeti, tramite immagini cariche di senso, valenti di per sé e per altro, come è giusto che sia, se davvero tutto è metafora di tutto.

Chi crede che la letteratura – e la poesia in particolare – debba essere oggetto di studio erra dal vero. Certo, la letteratura è studium, zelo e desiderio di attingere attraverso ciò che si vive l’autentica essenza delle cose. Nascere oggi è, forse, un altro grande privilegio, come capita al mio amico Giacomo, cui oggi mi rivolgo e scrivo le mie piccole riflessioni a latere, non richieste né volute, ma tanto tanto necessarie, almeno a chi scrive non per professione, bensì per passione. Ecco, l’estate ha il suo volto di luce e di calore, un moto primordiale che abbraccia e avvince. È il momento dell’anno in cui tutto si rende possibile. e intanto giugno se ne «va», lievemente, col suo «pigolio di stelle» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, 16)

Che cosa manca, pertanto, ancora da dire? Auguri, Giacomo.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Solstizio

 

Esile velo sull’azzurro il vento

chiama al suo soffio l’anima sospesa,

caducità dell’attimo, tormento

etereo che dilegua nell’attesa.

 

S’allaga il cielo, lucida distesa

oscillante tra il nulla e il nuovo evento:

lassù, vinta anche l’ultima difesa,

si stempera ogni corsa a passo lento.

 

Tutto giace. In un languido bagliore

il sole si è adagiato ad ascoltare

tra gli alberi le tremule cicale.

 

Il tempo è fermo. A nulla adesso vale,

ultima riva, l’infinito mare

mosso dalle onde placide del cuore.

 

 

Nel momento in cui sembra fermarsi il sole, in questo giorno così allagato di luce e di calore, tutto acquisisce una «traslucida armonia», una sospensione quasi indescrivibile in un altrove fuori del tempo e dello spazio. In estate ogni sogno pare realizzabile, a portata di mano: un’ebbrezza leggera stordisce quasi i sensi «ed erra», appunto, «l’armonia per questa valle» (G. Leopardi, Il passero solitario, 4). Altra stagione, certo, quella cantata dal Recanatese, mentre l’estate rappresenta la possibilità panica di abbracciare il mondo fino all’estremo confine, come in un lungo viaggio senza termine. È un volo, in cui il remi fanno ali alla fantasia, per dirla con Virgilio (Eneide VI 19), in un’azzurrità soave, celeste. Tutto pare avere di nuovo inizio, in una dimensione onirica, quella del Sogno di una notte di mezza estate, come avrebbe suggerito il bardo d’oltremanica, Shakespeare, e che io ho ripreso temporibus illis.

Ecco che, in questo giorno senza fine, si respira un abbraccio nuovo, un chiarore abbagliante sulle ali del vento. Tra gli alberi antichi poeti, come suggeriva Platone nel Fedro, cantano nenie dimenticate, eppure così simili alla malia delle Sirene. Un tuffo in questo mare di languore, in un pomeriggio che sfuma lentamente nella sera, come i Notturni di Chopin sospesi nel lago del cuore. È l’incantamento di questo giorno in cui il sole si ferma e scruta ascolta tocca le distese sottostanti. Non si può non trattenere il respiro e abbandonarsi di nuovo a un’emozione, quasi che tutto ricominciasse un’altra volta.

Lo sapevano bene gli antichi, coloro che vedevano con occhio ingenuo e stupito, per la prima volta, il mondo così come era e ne traevano raffigurazioni più scientifiche del nostro esatto sapere empirico. Nel solstizio d’estate tutto torna come era, palingenesi di un mondo che ciclicamente ci si dona senza risparmio, da cui noi attingiamo quasi senza accorgercene la forza primigenia. E ci volgiamo al cielo naufraghiamo tra le onde del cuore al di là di ogni siepe, di ogni muraglia, «per lo gran mar de l’essere» (Par. I 113) e ritroviamo noi stessi. Così, in questo solstizio senza tempo, in quest’estate lieve e sonnolenta, tutto si fa possibile e reale.  

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

Sogno il tuo viso

 

Sull’azzurro uno sbuffo di colore,

ombra di un’ombra assorta sul contorno:

gli alberi al vento frusciano dintorno

nenie ignote sul languido torpore.

 

Orme di voci affiorano nel cuore,

impalpabili attese di un ritorno

lontano, lievi immagini d’un giorno

tra il tutto e il nulla, l’anima d’un fiore.

 

Un’eco, tutto qui, riso d’un riso

oggi non più sentito, gioia rara,

vana dolcezza sulla via smarrita.

 

Il tempo fugge insieme con la vita

senza mai soste. Un soffio ci separa

o ci unisce, chissà: sogno il tuo viso.

 

 

 

Esiste l’azzurro, quello del cielo dico? È soltanto l’ennesima illusione, come sapeva bene il sommo Leopardi, quando canta: «E che pensieri immensi, / che dolci sogni mi spirò la vista / di quel lontano mar, quei monti azzurri / che di qua scopro e che varcare un giorno / io mi pensava, arcani mondi, arcana / felicità fingendo al viver mio!» (Le ricordanze, 19-24), cui fa eco l’eccelso Pascoli intonando: «Montagne che varcai! Dopo varcate / sì grande spazio di su voi non pare, / che maggior prima non lo invidïate. // Azzurri, come il cielo, come il mare, / o monti! O fiumi! Era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare: / il sogno è l’infinita ombra del vero» (Alexandros, II, 14-20). Ecco dunque lo «sbuffo di colore» a segnare il punto ignoto, imprevisto, in quell’eterno specchio in cui tutto si smarrisce e si ritrova.

Ecco l’«ombra di un’ombra», simile all’«eco di un’eco» o al «riso di un riso»: a Narciso segue il mistero di Eco, che ama e non è amata, che ripete all’infinito in un gioco perturbante, se vogliamo riferirci a categorie freudiane, quello che desidera e continua a perdere in eterno. Altri azzurri, quindi, altre illusioni, altri giochi di specchi. È il mito come un’antica nenia raccontata dalle ninfe degli alberi, dal sibilare del vento, dallo scrosciare delle acque, favellio inesauribile di senso inconoscibile. Anche il ricordo è un’eco dell’anima, nei ventricoli del cuore, dove il lago si pande senza limiti. Tutto è già come è stato e come non sarà mai.

Il mito lascia orme che scavano solchi, che incidono la via fino a smarrirla chissà dove, chissà come. Ne seguiamo la traccia senza sapere, senza volere. Tutto riacquisisce la sua forma, la sua vera immagine. Il tempo pare immobile nella sua ciclicità, nelle stagioni, fino al solstizio, al sortilegio in cui il sole ferma il suo corso e mira la terra nella sua essenza. Non resta che cogliere quel fiore rimasto lungo il corso d’acqua, quella voce che ci rincorre e ci sfugge. Anche Eco si specchia e si perde, proprio come il suo corrispondente maschile, il suo alter ego. Altra complementarità sinestetica.

Rimane il viso, vista e volto insieme, richiamo e nascondimento, inizio e fine. Nella circolarità del giro tutto si corrisponde e si ritrova. Nulla è mai dato a caso. La conoscenza genera riflessi e riflessioni senza fine. È lo specchio, di nuovo, è l’azzurro che si ritrova nell’acqua e non esiste. È forse ciò a cui si aspira e che non si può raggiungere mai, nemmeno con l’immaginazione. È la forza del racconto, della ricerca incessante, della vita che cerca la sua immagine e la sua somiglianza, mentre non ricorda spesso di essere essa stessa immagine e somiglianza del suo creatore.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati