Dialogo con l’Ingegnere

 

Agita il vento un soffio di memoria.

L’assoluto in un’anima, difficile

unicità da cogliere. Tra il labile

contorno riflettendosi

 

appare ora un sorriso in superficie.

M’interroga. L’interrogo. Dialogo

antico e nuovo. Specchio è l’amicizia

nell’essere e nell’esserci

 

tra gli affanni del giorno. L’ora vacua

esige una risposta. Nel silenzio

cupo di questo tempo in cui si brancola,

cadendo nell’oblio di stanche pagine,

 

ha il nostro cuore un pallido rifugio.

I ricordi svaniscono, il sorridere

non viene meno mai, Luca: distingue

il senso della storia.

 

 

Quanto fa un quarto di secolo? Non troppo, forse. Eppure, mi sembra un tempo immensamente lungo. Da quella sera di capodanno al «Villaggio della rivoluzione» a oggi tutto è stato un punto senza dimensioni. Sempre esistito, certo, sempre presente, sempre dinamico. Ma non devo pensare al tempo: non mi pare esista o almeno, se esiste, non ha poi troppa importanza. L’eternità del presente è fuor di dubbio. Eppure, quella sera fatale sembra essere l’alfa e l’omega. Ma chi è rimasto di allora? Forse anche questo, Ingegnere, non ha poi troppa importanza. Anzi sì: fu l’inizio di un’amicizia. Sai, gli altri già li conoscevo, gli altri dico che si sono persi.

Tu sei sempre stato l’Ingegnere. Lo eri già allora, ben prima di laurearti. Lo resti adesso per antonomasia. Nulla cambia e nulla si trasforma veramente, al di là delle formule alchemiche di vecchi chimici. Le certezze che propali per qualcuno sono solo una vana sicumera. Può essere. Il segreto di tutto è possedere i fondamentali: il resto viene da sé. E se non viene, fa poi lo stesso. Questo col passare degli anni l’ho imparato anch’io. Tu prima di me, ma ti ho sempre detto che di tante cose ti avrei reso merito, come il fatto di essere nato qualche mese prima di te. Testimone dellamemoria, questa è la poesia. Come sai, infatti, o come ti ho spiegato, le Muse sono figlie di Mnemosine.

Ci sono state epoche, se così vogliamo chiamarle, in cui il tuo compleanno era un vero e proprio rito. Non so, ora non è più così. Un po’ me ne dispiaccio, anche se comprendo che questo è l’accidente, non la sostanza: tra potenza e atto si deve pur aprire la strada la nostra interpretazione. Siamo o non siamo res cogitantes? Mettiamola pure su piani cartesiani, cosa che tanto ti piace. Io ti guardo «filosofare pure sui perché» (F. Guccini, Eskimo), come canta il poeta di Pavana, dove ti ritiri per i tuoi divi ozi, credo pure oggi, per espletare il dies natalis secondo tutti i necessari crismi dell’unzione. Anche su per di là ti sei sposato. Un’altra storia, certo, ma pur sempre presente. Non se ne esce, vedi? Oppure, è solo una mia ossessione.

Ecco, io preferisco raggiungerti in via Saffi, sull’antica via Emilia. Quello è il tuo regno. Ne conosci ogni centimetro quadro, ogni mattone. Almeno così la racconti. Io ascolto, non c’è che dire, ascolto ammirato. Da via delle Tofane a Porta San Felice non si fa altro che ammirarti passare. Un reticolo di strade offerto alla memoria della Grande Guerra, un’ansa di Bologna tutta tua. Tutta vostra, scusa: non vorrei dimenticare Elena. Già, perché del famoso matrimonio ero pur testimone anch’io, là sullo «scabro Apennino», come avrebbe detto il Recanatese e come ha scritto nel Pensiero dominante.

 

 

 

Da Saffi a Porta Saragozza è una passeggiata. Tu la fai spesso, tutti i giorni, per andare a Ingegneria. Sulla salita di Risorgimento hai messo le tende. E hai fatto bene, se te lo hanno permesso. Io pure lo avrei fatto, ma non tutte le facoltà sono uguali. Inutile parlare dell’ovvio, soprattutto in questo sabato così grigio, così strano. Sarebbe il tuo compleanno, oggi, e io mi sono perso nei ricordi e nelle mie riflessioni. Non so nemeno se valga la pena di usare le «trite parole che non uno / osava» (U. Saba, Amai), non nel senso della «rima fiore amore, / la più antica, difficile del mondo». Anche le rime mi sono venute a noia. Non perché non mi piacciano, tutt’altro;forse, vedi, hanno fatto il loro tempo. La stessa cosa mi pare delle Due Torri, che restano visibili e le vedevamo da casa tua, nel palazzo con le rifiniture in giallo limone. Quanto risi quella volta: lo diceviconvinto, anche se un sorriso poitradiva, sì, tradiva la verità. Così avevi descritto casa tua dopo il restauro. Forse le Due Torri non le si vedeva, perché di fronte c’era la Caserma Mameli, ma non importa. Eri riuscito a giustificare pure le stravaganti tapparelle azzurre. Sarà, i gusti non li discuto, ma quanti amari calici abbiamo dovuto bere e quanti ancora ne berremo?

Insomma, Ingegnere, io dovevo farti gli auguri, ma ho parlato di nulla. Intendiamoci, un nulla interessante e piacevole, ma pur sempre un nulla. È come quando, parlando, ti accorgi di essere davanti a uno spettacolo e gli occhi ti corrono altrove. Hai presente quando si ritorna a Bologna da lontano? Proprio così: si vede San Luca e ci si sente a casa. Spero tu mi perdoni. Le sciorinate non le sopporto più, se mai le ho sopportate. Ecco, dai, questo il mio augurio.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Luca oltre Manica

Luce lattiginosa tra la nebbia

un po’ dovunque. Nulla intorno, vacua

cantilena ogni voce. Qua e là ambigua

appare appena (in sogno?) qualche sagoma.

Cadono ombre dintorno. Nel silenzio

un frusciare di volti. Sulla soglia

posa un pensiero. Rito è la memoria

adagiata tra i fiori. In questa labile

nudità, Luca, sai, che non dimentico

il mio solito compito, il mio augurio.

Ormai, Luca, ci abbiamo fatto tutti l’abitudine: è quasi una condizione esistenziale. Certo, alla nebbia intendo, a quell’ottundimento così strano in cui ci si sente smarriti pure in luoghi familiari. Da tempo non la si vedeva. Eppure, in questi giorni, più volte ha fatto capolino, soprattutto la mattina, quasi a risvegliarci da un sogno per immergerci in un altro. Già, un sogno. Vorremmo fosse così. Io almeno lo vorrei. L’ottundimento delle nebbiose lontananze ha ispirato tanti poeti. Ricordo tua madre che, con voce grave e profonda, mi ammoniva: «A te piace Pascoli, ma Pascoli è un corruttore». Poi, tirando una boccata d’aria, quella che piaceva a lei, densa, pastosa, quasi come il fumo di Londra, mi ripeteva: «Sì, è un corruttore, perché fa piangere».

Eppure era lei che mi spingeva a leggere testi nebulosi, in senso proprio, di Pascoli: era una condizione esistenziale. Forse pure oggi lo è. L’ottundimento della ragione si concretizza. Nel giorno dei morti, tanto per restare al buon Pascoli, sorregge l’anima in cerca di un conforto. Non so se ti ho mai raccontato di quella volta in cui, in Certosa, mi persi nel tardo pomeriggio autunnale. Intanto, suonava la campanella di chiusura. Un’angoscia mi prese: dove vado? Dove sono? Mi avvicinai a un cartello e lessi: «Voi siete qui». Distopia che si avverava. Poi fortunosamente guadagnai l’alto cancello in ferro battuto nero e riemersi alla superficie. Anche quella era atmosfera poetica, non credi?

Perché poi, nel giorno del tuo compleanno, io ti parli di queste cose, francamente, non te lo so dire. Dovrei farti gli auguri. Tutto questo scritto senza capo né coda sono gli auguri. O almeno a me così pare. Siamo pur sempre immersi in uno psicodramma globale. «Materia per letterati di bassa lega», sì, questo mi diresti. Di un certo effetto, però: su questo converrai. Anche a togliere gli occhiali, che per altro tu non porti più, la nebbia resta comunque. Resta, sai, finché non facciamo chiarezza prima dentro di noi. «Questo è quel mondo? Questi / i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi / onde cotanto ragionammo insieme?»: a Leonina, tua madre, sarebbe piaciuto di più, se mi fossi lanciato sul suo poeta, su Leopardi. Ma forse questa è un’altra storia.

© Federico Cinti

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E tutto a un tratto è sabato

 

E tutto a un tratto è sabato

di nuovo. Un nulla il tempo, antico battito

di ciglia tra la fulgida

luce e il buio. Così la vita e l’attimo.

 

L’occhio scruta. L’immagine

sembra fermarsi, senza farsi cogliere

del tutto, senza remore,

pur sorpresa da tanta improntitudine.

 

Il velo lieve scivola

appena. S’intravvede uno spiraglio

sulla soglia, sul limite.

Vana è la corsa, non è vano attendere.

 

Ogni istante ha un suo proprio

senso. Scoprirlo, questo sì è difficile.

Sola illusione il ciclico

ritorno delle cose che ci sfuggono.

 

Ed è di nuovo sabato,

fine o inizio, chissà. Si scioglie l’ansia

di giungere nel brivido

d’eternità dove riposa l’anima.

 

 

Ecco, ritorna sabato. Eppure, anch’io, a poco a poco, mi sto convincendo che l’istoria – grande o piccola non fa tutta questa differenza – non sia veramente magistra di alcunché, con buona pace di Tucidide e del suo «possesso per sempre». I filosofi, certo, si sono scervellati per dare una risposta all’apparente ripetersi di ciò che accade, ma chi postula l’infinità del tempo contraddice la realtà che si vive. Ogni attimo è unico e irripetibile, stretto tra ciò che sarà e ciò che non è più. Quando ci si è sforzati di far rivivere le glorie di un passato glorioso, è subentrata la nostalgia, dolore di un ritorno ahimè senza ritorno. Il tanto vituperato Medio evo porta nel nome ancora lo stigma di chi si è volto indietro a vagheggiare chissà che, senza trovare nulla.

Ecco che torna sabato, inizio o fine della settimana. Non so dire. Ogni volta mi tornano alla memoria i malinconici versi di Giosuè Carducci, quando il poeta, in una disillusa chiusa struggente, canta: «M’asconda ella gl’inanimi / Fiori del giovin anno: / Essi ritorneranno, / Tu non ritorni piú» (Primavera classica, 21-24). Ma chi legge più i versi del «leone maremmano»? oggi si vive dimentichi del passato, incuranti del futuro, accorgendosi – quasi per momentanea illuminazione – che non si è ascoltata la voce di chi ce lo aveva predetto. Non ci specchiamo più nelle pagine dei vati. Cerchiamo nel virtuale la risposta alla nostra sete d’infinito. Qualcuno spegne l’arsura, spegnendo anche se stesso, in un anonimo annullamento.

Eppure, è ancora sabato. Non è quello del villaggio leopardiano, dell’attesa di qualche cosa che, anche se tarda a venire, non è un male. O forse sì: la vita intera, potrei azzardare, è un’attesa di ciò che si dovrà realizzare. Dove sta il ciclo e dove la condanna? Il tempo è veramente il bene più prezioso che ci è stato dato o che abbiamo a disposizione. Non lo aveva già sostenuto decisamente Seneca? Questo sabato non è uguale a tutti gli altri sabati. Cerco di capire dove si sia persa l’anima, dove sono i pensatori o i poeti che parlano per noi. Oggi la dotta scienza issa il suo vessillo oltre le colonne d’Ercole, fissate in noi «a ciò che l’uom più oltre non si metta». Ma la soglia è superata per sempre?

 

 

© Federico Cinti

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Addio, Stefano

 

Battito d’ala il tuo ultimo

sorridere, la docile letizia

dell’abbandono: il fragile

nostro patire un vano soffio, Stefano.

 

Si annulla il tempo, un attimo

volgersi indietro, l’essere e il non essere,

riflesso d’ombra, immagine

lucida oltre la soglia, azzurra linea.

 

Perdonerai le lacrime

del distacco: tu sai che non è facile,

a nessuna età, perdere

un autentico amico. Ora il silenzio.

 

Continua il nostro dialogo

al di qua e al di là, trito esercizio

di chi a distanza viaggia

assieme lungo vie che si biforcano.

 

So che sei pronto a tendermi,

come sempre, la mano, a darmi il braccio

sulla salita impervia,

eppure così dolce in alto, al termine.

 

Tu sei già lì, sei libero

da quel giogo soave che è l’esistere:

sei nella vita, raggio,

Stefano, senza fine, nella grazia.

 

 

 

Ci dovevamo incontrare presto, Stefano: ce l’eravamo ripromessi al telefono non molto tempo fa. Con gli anni, per non dire con l’età, la frequentazione del dipartimento di Filologia classica, nostro luogo d’elezione, era fortemente calata. L’insegnamento ci aveva chiamati altrove, più per forza che per amore. Triste destino comune, che tuttavia posso gioire d’aver condiviso con te. Tra il 2006 e il 2007 fummo addirittura colleghi a Porretta. Eppure, lo ammettevi anche tu di tanto in tanto, là dispersi sullo «scabro Apennino», per dirla con Leopardi, non ci si era trovati poi così male. Capitava che facessimo il viaggio d’andata in treno insieme, di solito il sabato mattina, quando mi accoglievi sulla porta del primo vagone, secondo un copione ben collaudato, con queste parole scandite lentamente, come era tuo uso: «Friedrich, ti ho riservato il nostro salottino a tre posti».

Oggi, Stefano, mi è motivo di nostalgia pure quel piccolo treno regionale. Non avrei mai creduto potesse essere un momento di tanta aggregazione. Si finiva per parlare di tutto, spesso del sommo vate, di cui amavamo recitare canti interi. Di ritorno, quella volta, presi dal trasporto del XXXIII del Paradiso, non ci accorgemmo di averli zittiti tutti. Zittiti o addormentati? Adesso non ricordo più. Romagnoli s’addormentava comunque. Anche tu non sapevi spiegarti come facesse, due o tre minuti prima di Casalecchio, a svegliarsi e scendere. Era l’inerzia del rollio d’una vita, l’eterno viaggio che a ognuno di noi tocca. Non tutti se ne accorgono: io stesso ci ho messo tanti anni.

Non avevo compreso, lo ammetto candidamente, l’allegoria di quel nostro salire a piedi, Stefano, per sgranchirci un po’ le gambe, attraverso il parco di Porretta. Si camminava e si discettava, mentre le nostre parole diventavano bianche per il gelo che c’era. La soddisfazione di giungere al piccolo cancello con di fronte la scuola la capisco solo ora che ti scrivo, sicuro che annuisci compiaciuto all’evidenza di questa mia tardiva constatazione. Eppure lo si faceva: mi offrivi il braccio e, di tanto in tanto, mi indicavi qualche scorciatoia, soprattutto se eravamo in ritardo. Io sono ancora in via, però, e mi è affidato l’amaro compito della memoria.

Non ho mai assaggiato, Stefano, la pizza di Mariam. Estraevi non so da dove un cartoccio, lo aprivi con cura sacrale ed esordivi: «Sgranocchio qualche cosa». Poi, tacevi un attimo pensoso, e ripetevi: «Te ne posso offrire un po’, Friedrich?». Non avrei mai osato profanare quel momento: ti ringraziavo e sorridendo muovevo la mano destra per assicurarti che non ne volevo; poi, concludevo: «No, grazie: sono a posto così». Non mi sarei mai permesso di infrangere quel rito. Se era qualcos’altro, accettavo di buon grado; ma della pizza di tua moglie non mi azzardavo a togliertene nemmeno una briciola.

Quando ci fossimo visti, in questi giorni, avevo già in animo di chiederti, come altre mille volte ti avrò chiesto in questi anni: «Come vanno le Omelie festali?». Non era una battuta, anche se sai bene quanto io ami scherzare: era semplicemente l’opera della tua vita. Di solito ci lavoravi d’estate, quando gli impegni della professione si fanno meno pressanti. Le studiavi dai tempi del dottorato, quando eri stato pure a Gerusalemme sulle tracce di Esichio. Attendevi a quella fatica con somma devozione. Chissà, forse ora le avevi terminate. Don Paolino Serra Zanetti ti ha seguito finché ha potuto, come del resto tutti i poveri cristianisti reietti di Bologna. Ombre di nomi, ormai, memorie da conservare come un tesoro geloso.

Questo è, Stefano, il momento dell’addio. Uso questa parola solo perché tu sai bene il suo autentico valore etimologico. Io so che sei là, nella luce. Hai sopportato la malattia con pazienza e abbandono totale alla Provvidenza. Non era attitudine, era semplicemente riconoscersi bisognosi; insomma, era la fede dei semplici. In quel crogiuolo ti si è forse svelato il senso del tutto ed è per questo che ci hai salutati nella serenità, col tuo sorriso più autentico, il sorriso della pace. E allora addio, Stefano, amico mio.

 

 

© Federico Cinti

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Ad Angelica

 

Un mare di cicale. A lievi ondate

l’azzurro si riscuote, sogno vano

sospeso tra le nuvole. L’estate

galleggia dentro l’anima. Lontano

 

un ricordo, impalpabili giornate

sempre identiche. Eppure, nulla è invano:

un volto ride, il tuo, parole alate

a rincorrere il vento a mano a mano,

 

Angelica, nel giorno che ti sfiora

e ti fa festa. Ogni ansia, oggi, scompare

nella felicità che si colora

 

dei tuoi occhi stellanti. Naufragare,

forse, è il dolce prodigio dato ancora

a chi con te s’immerge in questo mare.

 

 

 

«Trema uno stelo sotto una farfalla» (G. Pascoli, Solitudine, III 8): così avrei preferito concludere, se non avessi alluso  ad altro. Potenza dell’evocazione poetica, ovviamente, tramutatasi in immagine e quindi in idea, secondo la ben nota etimologia. Sarà che, quando penso ad Angelica, penso al volteggiare aggraziato della farfalla. Il nome, certo, la caratura letteraria, l’essenza che si cela oltre il velo sonoro e si fa persona. È come se, nel silenzio degli uomini, si facesse assorta presenza il colore nel verde del prato, il frinire assordante nell’azzurro terso d’un giorno estivo, il calore del sole nel fresco refrigerio della stanza all’ombra.

Ad Angelica dovrei dire tante cose, ma non è questo il tempo, ma non è questo il luogo. A inizio agosto l’atmosfera rarefatta induce ad altre riflessioni. L’ora si dilata all’infinito e il pomeriggio sembra non terminare mai nei bagliori della sera. I vestimenti leggeri sono una libertà difficilmente raggiungibile nel resto dell’anno. Si rimane così, in attesa di non si sa che, in fondo, a cercare di ingannare ogni giornata identica a quella già passata, identica a quella a venire.

Ad Angelica mi limito a fare i miei auguri per la sua festa. Ecco, questo forse è importante, oggi. Il resto è solo un vuoto chiacchierare.

 

 

© Federico Cinti

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Carpe diem

 

Ogni tanto mi prendo il lusso di confrontarmi – potrei quasi azzardare di litigare – con Orazio, perché le volte in cui , per qualche arcano motivo, mi rimetto a dialogare con lui, mi imbatto sempre in qualcosa di nuovo. Tralascio il cimento della traduzione poetica, impossibile per definizione, eppure ineludibile. Mi riferisco in particolare all’Orazio lirico, non al pur mirabile «satiro», secondo la definizione dantesca (Inf. IV 89). E così mi ritrovo davanti a quel «monumento più perenne del bronzo» (carm. III 30, 1), quasi come si ritorna a visitare un luogo dell’anima.

Quest’oggi sono alle prese con il carmen I 11, solitamente noto come carpe diem, anche se non ha titolo. Ne ho tentato diverse rese, ma a rimeditarle non reggono il paragone con l’originale. Scoperta ovvia, si potrebbe pensare. Ne propongo un’altra che non mi pare disdicevole, frutto di quell’attimo che fugge, dell’hic et nunc, se si vuole del carpe diem.  

 

 

Non chiedere, sacrilego è sapere,

che fine a me, che fine a te gli dei

hanno dato, Leuconoe, e non tentare

i calcoli caldei. Oh come è meglio

sopportare ogni cosa del futuro!

Conceda Giove molti inverni o solo

quest’ultimo, che fiacca ora tra opposte

scogliere il mar Tirreno, tu sii saggia,

filtra il vino e recidi al breve spazio

una speranza lunga. Mentre noi

parliamo, il tempo sarà già fuggito

pieno d’invidia. Cogli il giorno, senza

dare il minimo credito al domani.

 

 

Il mio dialogo s’arricchisce d’altri due interlocutori, Eugenio Montale e Giacomo Leopardi. Chissà perché, ma non mi ero mai accorto che all’immagine della recisione fa eco l’imperativo negativo di Non recidere, forbice, quel volto. Contesti diversissimi, certo: non parlo di allusioni o citazioni. Quel che mi stupisce, tuttavia, è la strana coincidenza. Esortazione e negazione: «recidi» e «non recidere», modi solo apparentemente opposti di considerare il presente. La «cicala» vive il presente, come nella favola di Esopo: prende alla lettera il precetto di vivere completamente il giorno, ascrivendolo a guadagno, perché non dà credito al domani. Avevo alluso a qualche cosa di simile in Auguri in ritardo ad Alberto. Anche l’autore delle Occasioni così conclude il suo breve componimento: «e l’acacia ferita da sé scrolla / il guscio di cicala / nella prima belletta di novembre». Suggestioni, nulla di più. Leggere diventa un mosaico da decostruire e ricostruire, mentre si riaffaccia L’ombra di Narciso.

Riguardo a Giacomo Leopardi gli addentellati sarebbero più precisi, ma non vorrei svelare le mie carte: il testo mi pare già tanto eloquente. Ci sarebbe da chiedersi, forse, perché abbia legato quell’immagine alla «memoria». Noi coincidiamo, questo sì, con la nostra capacità di ricordare e di sperare: in questo senso si dispiega tutto il componimento e il gioco di specchi che lo attraversa. Il Recanatese è fin troppo intriso dei classici per non farmi buttare il cuore al di là dell’ostacolo. Prima o poi mi profonderò in qualche interpretazione più ardita.

 

 

© Federico Cinti

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Auguri a Novello

 

Nel cielo aria di festa, ali sospese,

Ombre di sogno labili in cui il cuore

Veglia tra mille, indefinite attese,

E riscopre la vita, antico fiore

 

Lasciato lungo il ciglio, a metà mese,

La metà esatta, a luglio, in un chiarore

Opalescente, lievi voci arrese,

Buoni dolci propositi, sapore

 

Amico, tempo che oggi fa ritorno.

Lo sai, lo so, Novello, due parole,

Due o poco più, per fare da contorno,

 

Oggi che brilla limpido il tuo sole,

Novello, oggi ti faccio, nel tuo giorno,

I miei auguri, un po’ come Dio vuole.

 

 

Non ama Novello che io aggiunga la prosa a corredo della poesia, come già fece il buon Dante nella Vita Nuova: sostiene che è un di più, che guasta in qualche modo la limpida purezza della poesia. D’accordo con lui, come sempre; peccato, però, che i miei restanti ventiquattro lettori siano d’opinione totalmente opposta, se è vero che la trovano un degno complemento al ritmo dei versi e «alla mesta armonia che li governa», per citare uno dei suoi autori. Suoi di Novello, ovviamente, anche se il suo preferito resta sempre e solo il conte Leopardi. Anche a me stanno molto a cuore Foscolo e Leopardi, intendiamoci; ma Pascoli alle volte mi comunica di più.

Queste sue preferenze le ha sempre propalate coram populo , ex cathedra, già al liceo, al magnifico Minghetti di Bologna. Lo conobbi lì: era mio esimio professore di lettere. Forse esimio non gli piacerà molto, ma tanto so che non leggerà queste mie poche righe e godo quindi della più ampia parresia. E poi, come sempre ripeto, bisogna temere non quel che dico, bensì quel che non dico. Il resto sono chiacchiere da bar, così soavi e rilassanti. Si impara molto dal nulla altrui, come gli altri imparano dal nulla nostro. Reciprocità, forse, o semplice eterogenesi dei fini. Di solito, chi la spara più grossa ha il maggior credito: è una legge di natura.

In tal modo il rito degli auguri è stato espletato. A metà luglio non riesco a fare di meglio. E si badi che è proprio la metà esatta, perché il mese è di trentun giorni. Probabilmente Novello non ci ha mai fatto caso. Io sì, perché anche gennaio è messo allo stesso modo, con me  che compio gli anni il 16. Coincidenze, se esistono, trappole montaliane per i meno attenti in fondo all’aula. Succede, per l’amor di Dio: cadere nel punto morto dell’universo non fa piacere a nessuno. Domani ci si attrezzerà. Intanto, faccio ancora i miei migliori auguri a Novello.

 

 

© Federico Cinti

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Tanti auguri a Giacomo

Giugno termina. In limpide cascate
Il sogno impercettibile distilla
A goccia a goccia. Pallide giornate
Chiamano all’ombra placida. Tranquilla

Ogni vicenda scivola. Ventate
Miti sul cuore, fantasia che brilla
O tremula: s’affaccia in noi l’estate
Vacua. Immagine immobile, favilla

Eterna d’un abbraccio. Vaga il cuore
Nel cielo senza limiti. Lontano
Tra le nuvole bianche lo stupore.

Una festa, un augurio. Piano piano
Ritorna anche per Giacomo il sapore
antico di quel giorno adesso vano.
Di Giacomo potrei elencare una serie interminabile di doti: simpatia, acutezza, erudizione, perfetta forma fisica. Avrei finito? Ovviamente no, ma continuare risulterebbe solo una stucchevole accumulazione retorica. Mi limiterò, allora, a riportare quella che io ritengo la sua più sublime qualità, perché il resto è solo accessorio o almeno a me così pare, che è l’amicizia.
Certo, Giacomo ha l’innato aplomb del professorino, è indubbio; ma che ci si può fare? Un po’ di vezzo non disturba: è come il neo sul volto dell’eterna bellezza sotto la parrucca incipriata. Oh, naturalmente, non ne faccio una questione estetica: è una divagazione sull’uomo e sulle proprie peculiarità. Chi lo conosce può darmi ragione.
O, meglio, potrebbe, se non fosse che ultimamente ci si è visti sempre meno. Male dei nostri giorni, questo, non c’è che dire, e lo chiamano distanziamento. Ci si sarebbe potuti spingere fino a definirlo segregazione, ma poi si vestono gli scomodi panni del complottista. Anche le biblioteche hanno chiuso i loro fragorosi battenti. La polvere la fa da padrona addirittura sui rapporti umani, non diciamo sociali.
Ecco, una cosa che potrei forse azzardare su Giacomo è che nascere il 29 giugno e chiamarsi come Leopardi non deve essere così casuale. Io almeno non la percepisco una casualità. come m’insegnerebbe il nostro professorino, nomina sunt omina. Ed effettivamente per lui è stato buon presagio. Intendiamoci, non per la duplice gobba, avanti e dietro, no, che mi sembra non abbia. dicevo che nel nome si nasconde una parte cospicua di lui. Giacomo, già… ma non sarebbe il caso di fargli gli auguri e basta? E facciamoglieli, allora, questi benedetti auguri di buon compleanno. 

 

 

© Federico Cinti

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L’estate e il suo solstizio

 

Fermo il sole nel cielo inerte indugia

fuori del tempo. Tiepido l’abbraccio

dell’azzurro, sospiro

via via sempre più languido.

 

Lontana una cicala, eco al prodigio,

oltre la fantasia: si fa perpetuo

un guizzo d’infinito.

Il mondo attende immobile.

 

In quest’attesa vibrano all’unisono

mille corde. Nell’anima una musica

risuona, eterno soffio

di vita impercettibile.

 

Termina il viaggio, qui? Sul monte gli alberi

sussurrano nel vento antiche nenie

dimenticate. È l’ora

che ci ridona al vivere.

 

Vanisce il sogno. S’aprono le palpebre

alla nuova realtà. Così si supera

l’oscura linea d’ombra,

l’estate e il suo solstizio.

 

 

Insolito il tepore che si respira nel giorno del solstizio d’estate, quando il tempo sembra fermarsi smarrito e la luce si riversa a liquide cascate. È il tempo delle vacanze, delle lunghe giornate che paiono non finire mai e tutto sembra possibile. La leggerezza è palpabile, liberi da ogni costrizione: i «nostri vestimenti / leggeri» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 24-25) non opprimono più l’anima. È un abbraccio senza fine, questo, un calore primigenio. Il cuore vaga lontano in un sogno di languida dolcezza fino quasi a smarrirsi dopo l’orizzonte in fuga.

Non vi è altro momento nell’anno in cui si percepisca ugualmente il fluire della vita. Ogni cosa trova la sua pienezza, mostra il suo senso vero nella diafana luce trasfigurata del giorno. Suoni e colori s’inseguono, come in un incanto. Così nascono le leggende che si ripetono, durante il tempo che rallenta attimo per attimo. Antichi poeti cantano, come narra uno stupito Platone, senza stancarsi mai il ciclo dell’essere: le cicale inondano l’aria di squillanti carezze soavi. È il loro tempo, è il tempo della felicità, di un presente che non sa dello sfiorire fragile dei fiori, degli alberi che bisbigliano sommesse cantilene, del «perir della terra» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 67).

Al solstizio comincia l’estate, nel miracolo della sua bellezza. Il silenzio attinge a vertigini dimenticate. Si ritorna bambini, con la gioia nel cuore e il sorriso negli occhi. Nulla si deve più, tutto è donato in questo tempo di grazia. L’ansia si scioglie nell’ora che si ferma a contemplare ogni singola cosa che si desta di nuovo. Palingenesi di vita e di senso lanciata oltre l’ostacolo, oltre il «rovente muro d’orto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2), alla ricerca dell’infinito in cui è «dolce naufragare» (G. Leopardi, L’infinito, 15).

Ecco dunque che, nel mondo delle fate, la realtà diviene il trastullo dei sogni e Titania continua a giocare con Oberon nel bosco incantato. Tutto vince l’amore, quella favola bella che si perpetua, come in conchiglia il mormorio del mare. Nulla d’ignoto, nulla di conosciuto ancora: si fonde la memoria nel futuro a generare un presente che tuttavia è già ricordo. S’oscilla sull’orlo della voragine nella traslucida armonia della natura tornata al suo volto originale. Solo così l’azzurro non è illusione, ma fervida realtà onirica.

 

 

© Federico Cinti

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Saluto finale

 

L’ultima campanella, suono vano

smarritosi nel cuore. Corre l’ora

con noi. Passa ogni istante. Piano piano

il volto dei ricordi trascolora

 

più d’una vecchia foto. È ormai lontano

il liceo, ansia del giorno che divora

inesorabilmente. Eppure, è strano

volgersi indietro adesso, in quest’aurora

 

di luce nuova. Il dado è stato tratto:

ogni evento procede con o senza

rimorsi. Tutto quanto è stato fatto

 

nel migliore dei modi. Altra partenza,

altro arrivo, chissà, sogno distratto

di questa troppo breve adolescenza.

 

 

Un saluto, l’ultimo forse, simile alla lunga, infinita ombra nera della sera, un ricordo che si fa malinconia del tempo che trascorre. Ecco, un tempo non che è trascorso, ma che continua a trascorrere, quasi indifferente, come se ogni istante fosse simile al precedente. Una linea separa i giorni, distingue i momenti. Un passo ancora e tutto trasfigura, eterna metamorfosi del presente. Tutto si fa memoria, ricordo impercettibile: le voci, i volti, i riti di un’età che non tornerà mai più. Non mi è mai parso così vero ciò che canta il buon Orazio: «dum loquimur, fugerit invida / aetas» (carm. I 11, 7-8).

Il tempo si sconta istante per istante: «la morte / si sconta / vivendo» (G. Ungaretti, Sono una creatura, 11-13). Ogni giorno muore, ogni istante: il viaggio comincia col suo carico d’attese. Poi, impercettibilmente, si giunge a destinazione e tutto s’annulla in un «punto acerbo / che di vita ebbe nome» (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Volgersi indietro non è possibile: Orfeo perderebbe di nuovo Euridice, Narciso rifletterebbe per sempre se stesso sulle acque della vanità. Meglio allora è continuare, dimentichi di sé. «Le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni» (E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, 5-6) servono a ingannare l’ineluttabilità dell’essere.

Quell’ultimo saluto che non è più rito, se mai lo è stato, sul confine dei mondi, interrompe la catena, spezza il quotidiano e diviene nostalgia, dolore di un ritorno impossibile. Va voltata la pagina: non si può trattenere. Altri mondi, altre realtà attendono l’ansia di conoscenza, l’antica nostra curiositas. Tutto ci parla di questo viaggio interminabile, chissà dove, chissà come. Solo noi ne siamo i protagonisti, a «scendere e […] salir per l’altrui scale» (Par. XVII 60). eppure, lo sappiamo, nulla è invano. Qualche cosa avrò rappresentato anch’io nel mio piccolo.

Con questo animo penso ai miei studenti, inconsapevoli compagni di un viaggio giunto a destinazione. Li vedo uscire, di spalle, a uno a uno. So che non torneranno, che il loro tempo al liceo è concluso, come l’ultima ora del sabato, quando ogni aula si svuota e a un tratto piomba un silenzio d’inquietudine. Il cuore si fa piccolo piccolo. Nello sforzo di renderli uomini e donne, li ho tramutati soltanto in ricordo. E io pure per loro, adesso, sono solo e per sempre ricordo.

 

 

© Federico Cinti

Tutti i diritti riservati

 

 

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