Agita il vento un soffio di memoria.
L’assoluto in un’anima, difficile
unicità da cogliere. Tra il labile
contorno riflettendosi
appare ora un sorriso in superficie.
M’interroga. L’interrogo. Dialogo
antico e nuovo. Specchio è l’amicizia
nell’essere e nell’esserci
tra gli affanni del giorno. L’ora vacua
esige una risposta. Nel silenzio
cupo di questo tempo in cui si brancola,
cadendo nell’oblio di stanche pagine,
ha il nostro cuore un pallido rifugio.
I ricordi svaniscono, il sorridere
non viene meno mai, Luca: distingue
il senso della storia.
Quanto fa un quarto di secolo? Non troppo, forse. Eppure, mi sembra un tempo immensamente lungo. Da quella sera di capodanno al «Villaggio della rivoluzione» a oggi tutto è stato un punto senza dimensioni. Sempre esistito, certo, sempre presente, sempre dinamico. Ma non devo pensare al tempo: non mi pare esista o almeno, se esiste, non ha poi troppa importanza. L’eternità del presente è fuor di dubbio. Eppure, quella sera fatale sembra essere l’alfa e l’omega. Ma chi è rimasto di allora? Forse anche questo, Ingegnere, non ha poi troppa importanza. Anzi sì: fu l’inizio di un’amicizia. Sai, gli altri già li conoscevo, gli altri dico che si sono persi.
Tu sei sempre stato l’Ingegnere. Lo eri già allora, ben prima di laurearti. Lo resti adesso per antonomasia. Nulla cambia e nulla si trasforma veramente, al di là delle formule alchemiche di vecchi chimici. Le certezze che propali per qualcuno sono solo una vana sicumera. Può essere. Il segreto di tutto è possedere i fondamentali: il resto viene da sé. E se non viene, fa poi lo stesso. Questo col passare degli anni l’ho imparato anch’io. Tu prima di me, ma ti ho sempre detto che di tante cose ti avrei reso merito, come il fatto di essere nato qualche mese prima di te. Testimone dellamemoria, questa è la poesia. Come sai, infatti, o come ti ho spiegato, le Muse sono figlie di Mnemosine.
Ci sono state epoche, se così vogliamo chiamarle, in cui il tuo compleanno era un vero e proprio rito. Non so, ora non è più così. Un po’ me ne dispiaccio, anche se comprendo che questo è l’accidente, non la sostanza: tra potenza e atto si deve pur aprire la strada la nostra interpretazione. Siamo o non siamo res cogitantes? Mettiamola pure su piani cartesiani, cosa che tanto ti piace. Io ti guardo «filosofare pure sui perché» (F. Guccini, Eskimo), come canta il poeta di Pavana, dove ti ritiri per i tuoi divi ozi, credo pure oggi, per espletare il dies natalis secondo tutti i necessari crismi dell’unzione. Anche su per di là ti sei sposato. Un’altra storia, certo, ma pur sempre presente. Non se ne esce, vedi? Oppure, è solo una mia ossessione.
Ecco, io preferisco raggiungerti in via Saffi, sull’antica via Emilia. Quello è il tuo regno. Ne conosci ogni centimetro quadro, ogni mattone. Almeno così la racconti. Io ascolto, non c’è che dire, ascolto ammirato. Da via delle Tofane a Porta San Felice non si fa altro che ammirarti passare. Un reticolo di strade offerto alla memoria della Grande Guerra, un’ansa di Bologna tutta tua. Tutta vostra, scusa: non vorrei dimenticare Elena. Già, perché del famoso matrimonio ero pur testimone anch’io, là sullo «scabro Apennino», come avrebbe detto il Recanatese e come ha scritto nel Pensiero dominante.
Da Saffi a Porta Saragozza è una passeggiata. Tu la fai spesso, tutti i giorni, per andare a Ingegneria. Sulla salita di Risorgimento hai messo le tende. E hai fatto bene, se te lo hanno permesso. Io pure lo avrei fatto, ma non tutte le facoltà sono uguali. Inutile parlare dell’ovvio, soprattutto in questo sabato così grigio, così strano. Sarebbe il tuo compleanno, oggi, e io mi sono perso nei ricordi e nelle mie riflessioni. Non so nemeno se valga la pena di usare le «trite parole che non uno / osava» (U. Saba, Amai), non nel senso della «rima fiore amore, / la più antica, difficile del mondo». Anche le rime mi sono venute a noia. Non perché non mi piacciano, tutt’altro;forse, vedi, hanno fatto il loro tempo. La stessa cosa mi pare delle Due Torri, che restano visibili e le vedevamo da casa tua, nel palazzo con le rifiniture in giallo limone. Quanto risi quella volta: lo diceviconvinto, anche se un sorriso poitradiva, sì, tradiva la verità. Così avevi descritto casa tua dopo il restauro. Forse le Due Torri non le si vedeva, perché di fronte c’era la Caserma Mameli, ma non importa. Eri riuscito a giustificare pure le stravaganti tapparelle azzurre. Sarà, i gusti non li discuto, ma quanti amari calici abbiamo dovuto bere e quanti ancora ne berremo?
Insomma, Ingegnere, io dovevo farti gli auguri, ma ho parlato di nulla. Intendiamoci, un nulla interessante e piacevole, ma pur sempre un nulla. È come quando, parlando, ti accorgi di essere davanti a uno spettacolo e gli occhi ti corrono altrove. Hai presente quando si ritorna a Bologna da lontano? Proprio così: si vede San Luca e ci si sente a casa. Spero tu mi perdoni. Le sciorinate non le sopporto più, se mai le ho sopportate. Ecco, dai, questo il mio augurio.
© Federico Cinti
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