Il tempo s’arrestò. Tutto fu perso
in quell’attimo eterno: un fumo denso
di sé intrise per sempre il cielo terso.
Il velo si squarciò. Nel vuoto immenso
un silenzio indicibile, assoluto:
si smarrì in quell’abisso orrido il senso.
Fu un pianto senza lacrime nel muto
urlo lontano, sempre più lontano:
l’occhio fissò quell’ultimo saluto.
Pezzi d’azzurro inerte. Il cuore insano
vagò in cerca sull’arida ferita
d’un perché. Quel procedere fu vano.
Rimase la memoria, mai tradita,
mai più, rimase un grumo di dolore
al cielo, una speranza d’altra vita.
Dal buio di quel seme nacque un fiore
luminoso. Nell’anima non tace
il grido del ricordo, antico ardore
di chi ancora desidera la pace.
non ci si può non fermare, ogni anno, il 6 dicembre. da quel lontano 1990 una ferita continua a sanguinare. Ognuno di noi, con gli strumenti a sua disposizione, rende omaggio a chi quel limpido giovedì di dicembre ha portato a compimento il proprio cammino. Noi restiamo al di qua, sulla soglia invisibile dei mondi. Non è difficile capire: è impossibile. Uno sforzo vano, tutto qui, se cerchiamo una giustificazione a ciò che non ci è dato sapere. Chi non è in grado di volare più alto, rischia di fissare soltanto «la campana fioca / del cielo» (G. Ungaretti, Solitudine, 4-5) con l’urlo muto di Munch. Qualche cosa è cambiato, certo: è cambiato tutto. Quel 6 dicembre è divenuto il paradigma, la pietra di paragone, la radice su cui misurare ogni parola, ogni gesto, ogni desiderio.
Erano i miei amici, erano tanti miei ex-compagni di scuola, silenziosi testimoni di una ragione che ancora non comprendo. La comprenderò, certo, un giorno, per illuminazione, quando il dolore si farà strumento di catarsi mia e collettiva. Per ora non mi resta che apportare il mio insulso contributo a una memoria che tiene ancorati a una responsabilità. Dopo quel giorno nulla è stato più come prima, nulla può più essere come prima. Questo il senso del ricordo. Al funerale, lunedì 10 dicembre, un funerale di Stato, lessi un cartello: «Se l’amore è vita, voi non morirete mai». non so chi lo abbia scritto e forse non ha nemmeno importanza saperlo. Era vero, è ancora vero.
Io conoscevo in particolare Sara Baroncini, mia compagna delle elementari, ed Elisabetta Patrizi, delle medie. Con loro avevo condiviso un percorso di vita lungo: a quell’età, quindici anni, la scuola era tutto per noi. Ne ho parlato poi con tanti amici, Enrico, un amico che ogni tanto mi scarrozza in giro col suo taxi, con Elisa, un’altra compagna divenuta medico, con Stefano Orlandi, ex-vicesindaco di Casalecchio che in quel triste frangente si diede molto da fare e che ora è quasi dimenticato, con Roberto Mignani, altro ex-vicesindaco. In tutti resta il senso d’impotenza davanti a qualche cosa di più grande, d’incommensurabile. A noi è stato chiesto di collaborare alla costruzione d’un mondo di pace, attraverso il doloroso lavacro della testimonianza. Il nostro cammino non si è ancora concluso, non è ancora stato portato a perfezione. Fino a quel giorno il 6 dicembre sarà un giorno in cui ricordiamo la traumatica presa di coscienza che ci ha resi nuovi costruttori di pace.
Eppure, con buona pace del Recanatese, non può finire così, in quell’«abisso orrido, immenso, / ov’ei, precipitando, il tutto oblia» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 35-36). Siamo qui a pretendere che quel sacrificio, se veramente è santo e inviolabile, non sia stato vano. La mano di quei nostri amici non ci è stata tolta, ma ci è stata mutata, lungo la sponda invisibile, al di là di quello specchio dove siamo già visti come siamo veramente.
© Federico Cinti
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