Euridice e Orfeo

 

Eco di un’eco. Per le scale il vento,

urlo azzurro di nuvole lontane.

Restai solo. Nel tacito sgomento

invisibili addii, immagini vane.

 

Dov’eri? dove sei? Parole insane

in un sussurro al lume quasi spento.

Cantai struggenti melodie profane,

esilio di dolcezza e smarrimento.

 

Eri in me, sei nell’anima. Il tuo volto,

ombra di luce, chiara sinfonia,

rampolla al tempo sempre troppo breve.

 

Fummo e saremo, candidi di neve,

estasi eterea, limpida poesia,

oggi e in eterno. In me ti sento e ascolto.

 

 

Tu davvero così sparisti a un tratto, Euridice, o almeno mi sembrò che tu sparissi. Il tuo nome era un sospiro nell’aria azzurra del mattino. Una soglia invisibile, un sussurro. Non so se fu un addio. Fu il desiderio di rivederti presto, al di là dei frammenti di vita che si ricercano tra la ghiaia del cortile, simili ai mille pezzi di vetro dopo la sostituzione della veranda. A un tratto anch’io mi sentii «contento che questo fosse un lavoro di quelli che non possono mai essere finiti, perché, veramente, credo che sarebbe molto triste finirlo, e trovarsi con un’anima che possa stare tutta in una mano. Ho pensato che ogni parte dell’anima sia tutta l’anima intera, e che l’anima intera sia composta di una quantità infinita di parti, come i frantumi dei vetri, la ghiaia, la superficie del muro» (G. Mozzi, Vetri.). e così eri tu, Euridice, oltre la scala al margine del giorno. Eri lì, ti trovai, ti ritrovai. poi quasi il nulla, «nella notte nera» (G. Pascoli, Il lampo,).

Scesi in quel gorgo rapido che inghiottiva ogni cosa, per quella scala d’infiniti passi. M’accompagnava il canto che sgorgava come zampillo lucido fuori e dentro di me. Nulla più fu come prima, nulla più poteva esserlo. Eri tu il canto, Euridice, chiara luce nel pozzo senza fine in cui «cigola la carrucola del pozzo», in cui «l’acqua sale alla luce e vi si fonde» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1-2). Non era un sogno ritrovarti ancora, ma una necessità. Da te, dolce driade fuori del tempo, attinsi l’interminato flusso di parole, di pensieri, di passioni. Tutto fu luce, tutto fu risveglio, al suono melodioso della cetra. Anche il tuo volto riapparì come un miracolo tra le ombre. Non potei più essere quello che ero prima né lo potrò mai. sei tu la mia poesia, perché in quel porto di quiete «vi arriva il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 1-2).

 

 

Tu e non altri, tu prima e io secondo, nell’infinita corsa delle ore. L’aria limpida, l’azzurro oltre le case, il senso d’ogni istante che oscilla tra l’essere stato e il non essere ancora: questo sarà in noi, questo intorno a noi. È il senso dello specchio, immagine riflessa e conosciuta, tra quei vetri infranti in mezzo alla ghiaia sulla metamorfica liquidità del tutto. È questa, forse, l’unica certezza nell’eterno «panta rhei». Euridice, chiara gioia è il tuo vivere oltre i secoli, nel canto che perpetua senza fine. e allora anch’io ripeterò senza stancarmi: «Che farò senz’Euridice? / Che farò senza il mio ben?» (R. de’ Calzabigi, Orfeo ed Euridice) sulle note dell’immortale Christoph Willibald Gluck. Non sei tra le ombre gelide, perché sei la vita stessa che continua per sempre, non come vorrebbe l’ombra ingannatrice di Pavese che, nel suo racconto, impassibile confessa: «Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. […] S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela» (L’inconsolabile) in Dialoghi con Leukò,. Tu, Euridice, sei la vita, non la morte.

È l’attesa di «riuscire a riveder le stelle» (In. XXXIV 139), insieme, noi, senza più il gravame che ci opprime. Anche questa è poesia, il ritmo delle pulsazioni che creano e ricreano costantemente ciò che siamo e che vogliamo essere. Attendo, sì, attendo quel giorno in cui al sommo di quella scala potremo andarcene liberi dai vincoli, dalle costrizioni, da colpe che non ci appartengono. In questo s’apre e chiude l’eco del vento, voce di madreperla nella conchiglia dell’anima. L’inverno termina ormai in una sottile primavera di colori. Il più bello sei tu, mia euridice, finissima dolcezza tra le nuvole, dove il cuore «’nverso ’l ciel più alto si dislaga» (Purg. III 15). In te la luce chiara è un sogno che diviene felicità reale.

 

 

 

© Federico Cinti

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Voce di voci

 

Voce di voci, sibilo infinito

oltre il blu della notte, un fil di lama

rade l’anima, subito sopito;

resta l’impronta in noi di chi ci chiama.

 

Eterno labirinto, esile trama

in cui si cerca il bandolo smarrito,

plumbea malinconia, il «m’ama non m’ama»,

antico gioco divenuto rito.

 

Risveglia nel silenzio, oltre le porte,

l’ombra silente. Tutto intorno è vano,

Ancora e sempre, al sibilo di vento.

 

Rimbombano i ventricoli, sgomento

tra l’estasi dell’attimo lontano,

in cui intravidi chiara la mia sorte.

 

 

Improvviso quel suono, «nella notte nera come il nulla» (G. Pascoli, Il tuono, 1). Mi svegliai, richiamato da una voce di voci, quella «del rovaio che a notte urta le porte» (G. Pascoli, I gattici, 11), di un vento che sembrava chiamarmi a chissà che misteri. Rimasi incerto in quel silenzio oscuro a decifrare quel groviglio confuso di parole. A tratti solo i sibili invisibili, simili ai miei pensieri. Eppure, mi parve di conoscere l’antico richiamo, fattosi quasi rito nell’eterno trascorrere del tempo. Non più io, «docile fibra / dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31), sospeso in quell’istante infinito. E poi «il languore / / di un circo / prima o dopo lo spettacolo» (G. Ungaretti, I fiumi, 3-5) di cui mi parlasti quel giorno, il primo giorno.

 

 

 

Davanti agli occhi muti una lama di luce chiara, un abbaglio nella notte. E di nuovo quella voce di voci, come gli antichi «fili di metallo» che «a quando a quando / squillano, immensa arpa sonora, al vento» (G. Pascoli, La via ferrata, 9-10). Ed era il vento, credo, era ciò che nel vento dileguava, ciò che forse speravo di sentire in lontananza, fuori e dentro di me, al rito eterno della margherita. E mi ritorna in mente quel contare, «Trenta quaranta, / tutto il mondo canta canta lo gallo / risponde la gallina» (G. Gozzano, La via del rifugio, 1-4). Il rito eterno, eterno tra le dita di quella margherita per cui «m’ama non m’ama». Non so, quasi te l’avrei chiesto in quello spazio in cui si impara che esiste il buio solo perché si è vista la luce, se è vero, per dirla con Pirandello, «che il bujo era immaginario» (Il fu Mattia Pascal).

 

 

 

In questo nostro dialogo, se si poteva chiamare così, tutto mi si rese possibile. non ci crederai. Eppure, in quel vento c’era anche la mia voce. La tua l’avevo già sentita risuonare nei miei precordi, al ritmo di sistole e diastole, tra i ventricoli dell’anima. Perché, vedi, tutto sarebbe più facile se mi fosse dato un momento in cui mettere in scena le mie parole. Ascoltavo quelle altrui, nel momento in cui «e cielo e terra si mostrò qual era» (G. Pascoli, Il lampo, 1). Nella lama chiara di luce, spalancata sul mondo, tutto si rivelò, voce e immagine, tempo e spazio. e in quell’attimo infinito c’eravamo tu e io, voce di voci appunto che si rincorrevano nel labirinto dei nostri corridoi. Nessuna paura, però. Solo la consapevolezza di un essere e di un esserci. In lontananza il fruscio sonnolento degli alberi che raccontavano antiche nenie, miti di miti in cui smarrirsi e ritrovarsi insieme.

 

 

 

© Federico Cinti

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Ridere in pianto

 

Riso o pianto, Democrito o Eraclito?

Illusione dell’essere sul bordo

dell’attimo tra il nulla e l’infinito,

enigmatico filo del ricordo.

 

Rimane un mormorio, nel cuore sordo,

esilio sulla via. Tutto è smarrito.

Impossibile, ormai, qualunque accordo

nell’ora, sogno fragile svanito.

 

Passò quel tempo, Nello specchio solo

il mutevole volto che non dice

altro se non parole senza suono.

 

Nell’anima arrendevole abbandono

tra il desiderio d’essere felice,

oggi e per sempre, tra l’azzurro un volo.

 

 

Tutto a un tratto s’avverte una frattura e il punto di frazione si manifesta in una risata liberatoria. Ma davvero è tutto così folle? La presa di coscienza passa inevitabilmente attraverso il distacco, dalla sublime compunzione di sé alla disincantata Allegria di naufragi. Sfuma così la nebbia e «il velo è ora ben tanto sottile / certo che ’l trapassar dentro è leggero» (Purg. VIII 20-21). Niente di nuovo, è ovvio, se tutto «fa ridere e commuove», come coglie acutamente Pirandello nel suo saggio sull’Umorismo a proposito di Cervantes. Ecco, allora, «Democrito che ’il mondo a caso pone» (Inf. IV 136) ed Eraclito, incapace d’immergersi due volte nello stesso fiume. Il riso dell’uno si specchia nel pianto dell’altro. Da soli non si danno: l’uno è il complemento dell’altro. O almeno a me così pare.

Sono considerazioni, queste mie, «degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno / teatro» (T. Tasso, Gerusalemme liberata, XII 54, 1-2), se è vero che «è assai meglio, dentro questa tragedia, / ridersi addosso, non piangere e voltarla in commedia» (F. Guccini, Il matto). Vedersi da fuori, tutto qui: questo il segreto, in ogni ambito, in ogni dimensione, in ogni occasione. Chissà, forse è simile a quella «leggerezza» di cui parla Calvino nelle Lezioni americane, forse non è troppo diverso dal non prendersi troppo sul serio. Non so se io stia rispondendo a chi mi chiede perché, di persona, sono così simpatico, quasi dissacrante, e per iscritto tanto (troppo?) malinconico. Oscillo costantemente, diciamo pure così, tra Democrito ed Eraclito.

  

Eppure, ne sono pressoché certo, «verrà un giorno», come proferì il buon padre Cristoforo di manzoniana memoria, in cui tutto sarà scoperto, in cui il velo cadrà inesorabile. In me i due filosofi antichi o, meglio, quel che ci è stato tramandato di essi, un frustulo di nulla nella memoria infinita, si fonderanno in me o si separeranno. Attendo paziente quel giorno, quando potremo leggere veramente la realtà per come è e non per come ce la propongono gli improvvisati pittori del pensiero. Alle volte, il bisturi filologico non fa che scomporre arbitrariamente il mosaico perfetto che il genio degli autori ha saputo costruire. Figuriamoci se il sarto ci fa vedere le cuciture; eppure, qualcuno le va a cercare per dimostrare che l’opera di cucito è confezionata a regola d’arte. E così nei rapporti umani, professionali, d’amicizia. Io parlo di quel che so e conosco, naturalmente; altri, chissà, s’improvvisano esperti di saperi altrui. Ne ho incontrati, sì; ne ho incontrati sin troppi e chissà quanti ancora ne incontrerò.

Oggi vediamo tutto attraverso uno specchio, ammettiamolo una buona volta. Ci approssimiamo asintoticamente al vero, se siamo onesti. Io ci provo. Mando in scena i miei soliloqui, m’accontento di non pesare troppo su chi deve ascoltarmi e tanto basta. Nel mio piccolo regno al quarto piano e mezzo posso riflettere, proprio come allo specchio, sulle finzioni altrui. Anche «io nel pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura» (G. Leopardi, L’infinito, 7-8), e venitemi a dire che non è così. Mi stringo nelle spalle e vi rispondo che va bene: c’è sempre qualcuno che ha letto una pagina più del libro. Io attingo molto agli scaffali della mia pur scarsa memoria, dove «si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose» (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal). Insomma, «miserere del mio non degno affanno» (Rvf LII 12). Non lo faccio apposta, è la mia fragile forza.

 

 

 

© Federico Cinti

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Solstizio invernale

 

Alla tua luce chiara m’abbandono,

trasparente armonia di scaglie rare,

e non sarò mai più quello che sono.

Canto d’allora, naufrago: altro mare

 

ho davanti, altra via. Ricominciare

esule. Nulla intorno, nessun suono,

non sogno oltre una gioia singolare,

oltre la tua dolcezza, ultimo dono.

 

Nuda l’anima, solo vestimento

la nostalgia al crepuscolo del giorno.

Odo appena: una musica leggera

 

s’insinua sussurrando sulla sera.

Adesso e sempre, ennesimo ritorno,

infinito incantesimo nel vento.

 

 

In questa luce chiara, che sa già di vanità crepuscolare, tutto sa d’altrove. Anche il cuore s’abbandona, galleggia sospeso lontano, su una liquida superficie splendente che spinge al di là, che porta oltre, in un «palpitare / lontano di scaglie di mare» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 9-10), anche se «i brevi dì» ora «sembrano tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-14). Oggi in particolare il giorno pare rallenti sull’orizzonte, invictus per definizione a fine autunno e a inizio inverno, quando anche i Romani festeggiavano i Saturnalia in un reciproco scambio di doni.

E il dono è questa luce soffusa in cui sentirsi parte del tutto, in cui «sento che il mio volto / s’indora nell’oro / meridiano» (G. d’Annunzio, Meriggio, 70-72), simile al dono panico dell’estate, quando ci si perdeva «dentro il meridiano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Altra stagione adesso frastorna questo tempo in bilico sulle porte del buio, in cui è così dolce cogliere il bagliore di un sorriso di cielo, occhio che si chiude sul mondo stretto dal freddo cristallino. Anche i rumori soffondono a poco a poco, come eco nell’anima, ricordo di un tempo che va, di un tempo che viene, forse immobile come la nave sull’acqua tranquilla alla ricerca di chissà che porto indecifrabile.

 

 

È sufficiente una voce, musica antica alle orecchie, canto di culla e di oblio, a trascinarmi con sé. Risorge e si confonde in questo tempo il senso delle cose. Forse non tutto è perduto. Il viaggio ricomincia, anche più lieve di prima. Il naufragio in questa chiarità dell’aria risveglia la brace di emozioni mai sopite del tutto. Arde l’ansia dell’ora, il cuore vive e rivive in cerca di un porto sicuro. Fine e inizio di nuovo si confondono nel circolo dell’anno che si chiude, che si apre senza sosta. Ma «il varco è qui?» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19), ci si chiederebbe ancora increduli, mentre tutto è scoperto e «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7).

Ecco, dunque, il segreto, riuscire a dare del tu a questa luce chiara in cui non perdersi, bensì ritrovarsi, in cui adagiarsi per sempre, come in un sogno infinito. Laggiù gli alberi raccontano di nuovo della fine e del principio, del tempo che ritorna e si allontana senza tregua. In questo pomario esiste «la maglia rotta nella rete» (E. Montale, In limine, 14), la via di fuga, la redenzione di queste ombre anelanti alla vita, alla vita vera. È questo il sole che ci irradia di una luce nuova, di quella luce chiara che ci fa amare e sperare.

 

 

 

© Federico Cinti

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A Maurizio il 10 dicembre

 

Muto il portico gelido di marmo

addobbato di festa,

una vetrina dopo l’altra. Resta

recondito un pensiero

indicibile, vivido un ricordo.

Zampilla un filo pallido di sole

in lontananza, il riso

opaco di quell’ultimo sorriso.

 

Mesta la via nell’ora

attardata nel giorno

nuovo nel tempo senza più ritorno.

Tutto fugge così, perso in un punto

evanescente al vertice in cui l’occhio

crede alla convergenza parallela.

Così fu. Sarà ancora.

Ha il tempo il rito dietro cui si vela

il senso. Un’illusione

non già. La vita giace

in quest’attimo fragile di pace.

 

 

Che vuoi mai, Ingegnere? S’annulla il tempo. Questo lo si impara a proprie spese e non perché non si voglia credere agli altri. A me è capitato così, almeno. Il tempo non è gratis per nessuno. Si prova a far finta di nulla: è umano, troppo umano. Poi, naturalmente, il pensiero ritorna sempre «colà dove la via / e dove il tanto affaticar fu volto» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 33-34), al tarlo che ci scava e ci divora. Ricordi, tutto qui, oggi soprattutto che siamo anestetizzati dalle memorie artificiali per non essere più padroni del nostro passato e del nostro futuro. Tutto si condensa nell’evanescenza rapida di un’immagine virtuale. Il reale è fuggitivo, come la vita che lo abbraccia. Ciò che è mio è con me: lo confessava candidamente Stilpone di Megara a Demetrio Poliorcete. Non c’è bisogno che io ti richiami alla mente il De constantia sapientis (V, 6 in particolare) di Seneca.

In un giorno come questo, di nebbia o poco più, resta solo la certezza di ciò che materialmente non si possiede più. Forse non è nemmeno così poco, a rifletterci bene. Mi rivedo, ormai non so più nemmeno quanti anni fa, sotto il pergolato della casa alla Venturina a discettare con te e con Maurizio dei massimi sistemi, una calda domenica di fine agosto. Ci si era tutti. Che strano effetto mi fanno, adesso, quel tepore e quel sapore, languidi come tutto ciò che si sa di avere avuto e di non avere più. E la sua voce acuta, sì, quella voce tutta particolare, soprattutto al telefono. «Prontoooo!». Non è solo per ridere che ce la si ripeteva e gliela si ripeteva. Oggi sa di dolcezza malinconica, come la cupa fine d’autunno, dal «tedio che dura infinito» (G. Carducci, Alla stazione in una mattina d’autunno, 60). Ma non è la noia «in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani» (G. Leopardi, Pensieri, LXVIII).

 

 

 

Anche al tè delle befane si metteva sempre di fronte a me, dal lato corto del tavolo ovale, tra il pianoforte e il presepe. Era là, a tenere banco, tra gli amici di una vita. ora la sua seggiola è vuota, come purtroppo tante altre. Solo il ricordo non muore mai, Ingegnere. La poesia ce lo rammenta da sempre: pulvis et umbra sumus (Orazio, carm. IV, 7, 16). Farsene una ragione è quasi impossibile, almeno per me. Il filo di sole che, a un tratto, s’apre tra le nuvole, ecco, questo sì mi dà speranza che questa condizione non sia vana, ma segno di qualche cosa di più grande. Non è retaggio antico, consegnataci da chissà chi e per chissà che motivo. Lo si impara, anche questo, a goccia a goccia, a volte per intuizione diretta.

Eppure, Ingegnere, non voglio annoiarti. Forse già l’ho fatto, ma la scrittura è così: o la si ama o la si schiva. Il domani già bussa alla porta. Fermarsi a pensare è pericoloso, nel logorio del silenzio interiore, mentre tutto all’esterno sembra indifferente. Potrebbe pure esserlo, se non ne facessimo parte. Oggi sarebbe uno di quei giorni da cancellare o da saltare. Invece, ci si sente buttati là, «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata» (G. Ungaretti, Natale, 9-13). Per sorridere un po’, come ogni tanto si fa, ripensiamo ancora alla domanda fatidica di Maurizio: «Ma che fine hanno fatto i farisei?». Me la ripetesti, in casa di Elena, precisamente nella cucina. Il tuo tono era perplesso. C’era pure l’amico tanto strano con noi, quell’amico che poi si è perso e non abbiamo capito nemmeno perché. Eppure, quella domanda così bizzarra adesso non mi pare più così particolare. È un pezzo del mosaico che è andato in frantumi il 10 dicembre dell’anno scorso e che faticosamente, diciamolo pure, si tenta di ricostruire, tassello dopo tassello, per farne parte di noi.

 

 

 

© Federico Cinti

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Il 2 novembre

 

Luce fioca, sul margine l’azzurro

ultimo tra le case. Tra le cose

corre sommesso un fragile sussurro.

 

Attesa vana. Il tempo ormai si mostra

breve. Sparsi qua e là sogni di rose,

ombre d’antichi giorni in questa nostra

 

nebbia di latte in cui vagare. Solo

adesso il senso, incerta nostalgia.

Fu nel cuore un sussulto, un arduo volo

e il proseguire ancora per la via.

 

 

Era il giorno dei morti, il 2 novembre. Eppure, caso strano, conosco molte persone nate in questa data per i più nefasta. Intendiamoci, nefasta solo perché si pensa a chi non c’è più e quindi viene a mente un tempo trascorso e mai più presente. Niente di che, si fa per dire. Di solito, mi ricordo di fare gli auguri, in particolare a uno, a Luca, immerso nelle nebbie d’Oltremanica. Già, la famosa «nebbia di latte» (G. Pascoli, L’assiuolo, 10), che poi riprende pure la «nebbia mattutina» oltreché al «crisantemo, il fiore della morte» (G. Pascoli, I gattici, 3 e 14). Sì, certo, mi perdonerà le ubbie pascoliane, ma che ci posso fare? Del resto, uno studio particolare sul sonetto pascoliano prima o poi dovrò farlo: ci penso da tanto, ormai. È il tempo che manca. Ma stiamo al mio amico.

Ogni anno, dicevo, colgo l’occasione, potrei dire il kairòs, per dedicargli qualche cosa. Abitudine vana, oggi, in cui tutto scivola nel chronos infinito. Ma mi sento, e non a caso, uomo d’altri tempi, un superstite, una sorta di naufrago alla stregua dell’Ungaretti dell’Allegria. Anche in questo caso si fa per dire. All’inizio di novembre non mi viene nulla di meglio. Sarà un difetto, questo. Lo confesso senza tema di smentita. Mi si deve prendere come sono. E sono proprio così. Non so nemmeno perché, dovendo parlare di altri, parlo poi solo di me. Deformazione professionale: chi scrive parla sempre e solo di sé. Vexatissima quaestio, naturalmente, ma ci sta che si faccia ancora finta che non sia così.

Insomma, credo Luca sia ancora lì che aspetti che io dica qualche cosa di lui. Mi perdonerà, come tante altre volte. È il suo giorno, sì, anche se in ritardo. Un ritardo mio, certo, ma perché non sono stato benissimo. Dopo la presentazione di sabato scorso lo scioglimento della tensione, l’emozione, il freddo mi hanno distrutto. Ecco, il 2 novembre ero mezzo morto anch’io. Un bel risultato, certo. Ero così, sul crinale, a connessione intermittente. Mi perdonerà. Del resto, anch’egli è come me «tra color che son sospesi» (Inf. II 52), per dirla con l’amico Dante. Restiamo così, come la luce fioca di un lampione a illuminare una porzione d’ombra. Già, perché il buio non esiste, come dice Pirandello. Esiste solo se noi lo illuminiamo.

 

 

 

© Federico Cinti

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Ombra di vita

 

A un fil di sole gelido il pensiero

della malinconia. Senza ritorno

da allora il viaggio. Inutile sentiero

in questo giorno.

 

Oltrepassata è l’ombra, arduo confine

sul tempo inarrestabile. Sussurro

tenue al di là del margine, oltre il fine

eterno, azzurro.

 

Fu ciò che non è più. Dilegua l’ora

attardatasi adesso, impallidita

non si sa dove. Tutto trascolora,

ombra di vita.

 

 

sembra passata ormai un’eternità; eppure, ieri era solo il 22 di settembre, mercoledì. Qualcuno mi ci ha fatto pensare, da lungi, come voce nel cuore simile a conchiglia in cui è racchiuso tutto il mare dell’universo. Il 22 del mese, come quel giorno d’aprile, per giunta mercoledì. No, non era una ricorrenza, bensì solo un giorno che ne richiamava un altro, occorso inaspettatamente. Avrei voluto dirtelo, senza problemi, ma è andata così, quasi in sordina. Un tempo senza età, lo sapevamo bene. Nulla lasciava presagire il silenzioso vuoto della panchina su cui attendere l’ora che passa. Mi ci sono ritrovato, come allora, come sempre.

Nulla di più, sai? è andata così, senza che lo volessimo o potessimo immaginare. È arrivato l’autunno, quello vero, quello non atteso. Un brivido ha gelato la terra, antico specchio in cui si rifletteva l’infinità dell’attimo, già detto, già sentito, «come d’autunno si levan le foglie / l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie» (Inf. III 112-114). Adesso resta l’ultima eco ungarettiana, passata attraverso il Dante infero, il Virgilio epico (Aen. VI 305 e 309-312), l’Omero iliadico (Il. VI 145-149), «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie» (G. Ungaretti, soldati), ad ammonirci.

Ed ecco il vento tra le piante e «di foglie un cader fragile» (G. Pascoli, Novembre 11), anticipo e compimento, almeno in un pensiero di malinconia. In fondo, dove sai e sapevi prima di me, il Reno scorre placido, acqua lenta sotto il ponte inamovibile della memoria a suggello di quel che sappiamo. Era il solito quieta non movere assieme al mota quietare. Tutto è sempre metafora di tutto: avrei dovuto imparare la lezione, ma ogni volta mi stupisco quasi fosse la prima. Perdonerai la mia ingenuità. Ti attendo qui, tra la panchina e il ponte, senza proferire verbo, in un silenzio meditabondo. Non era il tuo giorno, no, Stefano; eppure, sei stato qui presente.

 

 

 

© Federico Cinti

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Avresti la mia età

 

Inerte il cielo. Un brivido riscuote

la memoria assopita. All’improvviso

affiora, come allora, il tuo sorriso,

rarefatto tra immagini remote

 

in cui trovarsi e perdersi. Vie ignote,

adesso, un filo d’erba ormai reciso.

Chissà che pensi. Tutto quanto è intriso

ancora di quel tempo, delle vuote

 

miserie di quegli anni. Oggi è il tuo giorno.

Passerà, come gli altri, come il resto.

Avresti la mia età, non me lo scordo.

 

Già fosti, un soffio di tra il vento sordo.

Non dimentico, in questo giorno mesto:

avresti la mia età, né fai ritorno.

 

 

Pochi anni o molti che importa? Non ricordo nemmeno più quando fu l’ultima volta, forse subito dopo la fine del liceo. Ci ritrovammo a scuola insieme, per una strana fatalità. Prima si prendeva solo lo stesso autobus. Parlarne adesso mi fa un certo effetto. Veramente un altro mondo, un’altra vita, un’immersione in quel tetro fondo di ricordi. E ancora «cigola la carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1) a ricercare la luce in cui fondersi in questo giorno di settembre, il tuo giorno, anche se poi veramente non lo abbiamo mai festeggiato. Lo seppi anch’io per sbaglio, quando dicesti che compivi gli anni assieme ad Andrea, altro amico di cui ora non so più nulla.

Non mi parve vero venire quel giorno di gennaio a salutarti all’Abbazia di Zola. Lo imparai da Lucia, con le lacrime agli occhi. Forse non è vero nemmeno adesso: non ci hai salutati, non ti sei incamminata per l’oscuro «iter tenebricosum / illuc, unde negant redire quemquam» (Catullo, carm. III 11-12). Sei qui con noi, mentre ti ricordiamo, a distanza di tanti anni. Mi resta di Catullo anche l’immagine del fiore reciso, «cecidisti velut prati / ultimi flos, praetereunte postquam / tactus aratro est» (carm. XI 22-24).

 

 

 

Tengo anch’io in mano il filo dei ricordi «che s’addipana» (G. Montale, La casa dei doganieri, 11), di quel tempo così particolare che non si vede l’ora che passi e poi, una volta fuggito, si rimpiange ogni istante. Avresti la mia età, Ilaria: lo so bene. Tu non ritorni e anche questo so bene. Ma che importa ricordarlo adesso? Volgersi indietro alle volte è necessario, perché «trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 3-4). Narciso oppure Euridice non importa: quel tempo è chiuso chissà dove, emerge solo a improvvise illuminazioni, come la poesia del Porto sepolto, per cui «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7). Così, Ilaria, è la poesia e così la vita.

 

 

© Federico Cinti

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Nulla è mai invano

 

Antica eco di sogno, nell’azzurro

nuota il sorriso limpido del sole,

nel cuore inconfondibile un sussurro.

 

Attesa che si scioglie, nello specchio

ritornano alle labbra le parole,

orma del tempo, il nuovo dentro il vecchio.

 

Chiamo e non vedo. Un palpito lontano

ci unisce e ci divide sulla via.

Ho un sussulto. Lo so: nulla è mai invano.

In questo giorno tutto è nostalgia.

 

 

Mi fermo sulla soglia a rimirare quello che non è più. Nel tempo tutto cambia, anzi si trasforma inesorabilmente. Non dico sia un male. Semplicemente si tende a non accorgersene, quasi che ogni cosa debba rimanere sempre uguale a se stessa. Il tempo di per sé, sempre ammesso esista davvero, è un eterno fluire, un punto dinamico sulla retta dell’infinito. Andare avanti o indietro? Questa la domanda senza risposta. A un certo punto della storia il progresso si è interrotto per lasciare spazio ai vagheggiamenti di ciò che non sarebbe mai più potuto essere e tutto ha cominciato a incrinarsi irrimediabilmente. In quel punto estremo comincia la dialettica tra lineare e circolare. O almeno così mi pare.

Anche un compleanno, come quello di una mia compagna di liceo, può generare tali excursus spazio-temporali, perché «nulla è mai invano». La soglia è simile allo specchio in cui ci si riflette, senza mai essere tuttavia identici a prima, figuriamoci a dopo. Quello non sono io, non posso essere io, né ne ha la pretesa, almeno credo, anche se ci si affanna a trovare il senso – o forse solo un senso – a quell’immagine. Non so se sia veramente il perturbante, come avrebbe asserito Sigmund Freud. Mi ci perdo, labirinto di idee senza forma, simili a nebulosa, simile all’abisso di cui parla il sommo Dante: «Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa» (Inf. IV 10-12). O forse, più semplicemente, mi accontento di intravvedere qualche cosa di lontano, di cogliere un pur vago senso nell’immenso mistero delle cose.

 

 

 

Ero poi qui per fare gli auguri, ma il sentimento del tempo, come avrebbe suggerito il vecchio Ungaretti, mi ha trascinato altrove. Anzi, mi ha portato sicuramente nella direzione giusta, oggi che si ha la pretesa di vivere in un eterno presente. Meglio sarebbe vivere alla presenza eterna, ma molti fingono di poterne fare a meno. Il solito delirio di rifiutare ciò che si ha in vista (o in virtù?) di ciò che non si ha. Ripeto, anche perché l’ho detto io, «nulla è mai invano». Anche il sentimento del tempo, che tanto sgomenta e spaura, si fa di tutto per allontanarlo. Ecco, allora, ciò che fu e ciò che sarà, senza mai prendere coscienza di ciò che è. Ma va bene, ho forse parlato pure troppo di quel che non importa più a nessuno. Siamo qui a fare gli auguri, null’altro, e gli auguri facciamo, ad Anna.

 

 

© Federico Cinti

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Per il mio onomastico

 

Fuggono in cielo nuvole

ebbre di sole, echeggia il canto assiduo

delle cicale fragili

e tutto sa d’inerzia malinconica.

 

Rimango sulla soglia

infinita dell’anima ad attendere,

colmo d’oblio dimentico,

oggi, finché si avveri l’incantesimo.

 

 

Strana la sensazione che oggi sento in me, come se qualche cosa dovesse avverarsi, anche se non so che cosa. Rimango in questa sospensione del cuore, quasi che io dovessi trascendere la soglia che mi separa impercettibilmente dall’incantesimo, dal sogno, dal desiderio. Ecco, là, dovrei andare là, dove non so, dove pure qualche cosa chiama. Forse è l’asintoto tra il tutto e il nulla. In alto il cielo, la «campana fioca» senza confini, per dirla con l’Ungaretti di Solitudine, anche se io l’avrei chiamato «cupola», in basso il cuore che s’allaga all’improvviso nell’attesa irrefrenabile di ciò che non conosce. 

Suoni e colori si susseguono e mi inseguono. Di nuovo la domanda montaliana: «il varco è qui?» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19). Questo il senso profondo che si svela in un giorno di luglio, un giorno particolare, dedicato dalla tradizione secolare al mio onomastico. Interno ed esterno, dentro e fuori. Ma dov’è il confine, la via di fuga che permette di attingere alla verità? Questo forse il senso di straniamento che avverto, che quasi voglio fortemente. La strada da percorrere è ancora lunga, tortuosa, non priva d’insidie. In estate ogni cosa si rende possibile lungo l’eterna azzurrità del cielo.

 

 

 

Sarebbe anche possibile che io vestissi i panni di un improbabile san Federico, per dare senso al giorno che oggi inesorabilmente trascorre nell’opacità di un sole obliquo. A metà estate si può dare anche questo strano caso, di specchiarmi nella santità altrui e di ritrovarmi, come forse dovrebbe essere normale a chi è «ben tetragono ai colpi di ventura» (Par. XVII 24) come sono o come provo a essere. Nulla avviene per caso, perché il caso, con buona pace di chi «il mondo a caso pone», non esiste. Colgo quindi l’occasione per attendere l’avverarsi del sogno, per carpere orazianamente il diem che a poco a poco sta trascolorando nel crepuscolo.

 

© Federico Cinti

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