Bologna sotto la neve

 

Giace la tacita neve. Nel cuore

il senso attonito di questi giorni.

Nulla nell’aria si sente, antica

eco di un’eco, timida carezza

viva nell’anima. Dolce il bagliore

riluce all’estasi. Si rasserena

ancora, come quando si era bimbi

fragili, l’occhio innanzi al mondo nuovo,

armonia di un miracolo che adesso

rinasce. Dolce anelito di un sogno,

oggi, che si perpetua in mezzo a trine

labili, inafferrabili. di nuovo

fiorisce in noi la gioia della festa

inattesa, così, dal cielo lieve.

 

 

Che bella la città tinta di neve! Non un rumore intorno, non un suono: in candide pennellate di leggerezza si rinnova tutto, fuori e dentro di noi. Ogni volta, davanti a questo stupore, si ritorna bambini. Io, almeno, torno come quando, bambino, rimanevo dietro il vetro a fissare per ore il lento cadere dei fiocchi nella convinzione che, guardando all’infinito, non avrebbe mai smesso. Non solo io: tutto sembra fermarsi ad ammirare uno spettacolo fuori del tempo, di soavità infinita. Il mondo veste un soprabito di candore, mentre il caldo buono della casa abbraccia anche l’anima. Lontani i colli sembrano più alti, simile al Soratte che Orazio canta in una delle odi che preferisco, la IX del primo libro, per il silenzio che crea e in cui riesco a sentirmi altrove, eppure qui, solo con me stesso.

In questa sospensione senza fine avverto echi lontani, «come di neve in alpe sanza vento» (Inf. XIV 30), parole che s’adagiano appena nell’anima e riaprono mondi. Gli occhi vedono quel che altri hanno dipinto attingendo a una tavolozza che rivivifica ogni volta nella potenza evocatrice. Questo, forse, è non fermarsi all’apparenza, al nudo dato empirico. Mi sembrava di volare sui versi di Pascoli, quando i passeri e la rondine si parlavano di lontano nelle loro lingue ignote e il poeta concludeva, rivolto a chi era emigrata in terre remote, «ma non sai la gioia / –scilp– della neve, il giorno che dimoia» (Dialogo, 41-42).

Si vede semplicemente con gli occhi degli altri. All’epoca non capii la Roma trasfigurata sotto la neve allo sguardo incredulo di Andrea Sperelli, che raccontava che «era un sogno poetico, quasi mistico», quando lessi per la prima volta Il Piacere di d’Annunzio. Affascinato dalla bellezza di quel testo mirabile, non comprendevo il senso vero della parola che crea e che ricrea. A rileggere un brivido m’assale, come oggi alla neve che si stende con una delicatezza insolita. Suggestioni, forse, nulla più, come nei famosi distici di Carducci, in cui l’incipit sa già di tetra caligine al cuore: «Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi, / suoni di vita piú non salgon da la città» (Nevicata, 1-2).

Così, per poter affermare con orgogliosa modestia anch’io, come il buon Dante, «sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» (Inf. IV 102), non tacerò il mio sonetto, cui diedi il titolo di Nevicata, come per i distici di Carducci, e che ebbe tanti elogi. Nevicava quel giorno e dedicai quel testo allo spettacolo di quell’evento. Allo stesso modo oggi rendo onore alla neve, nel giorno in cui festeggia gli anni Ginevra, cui dedico questo testo, come del resto l’altro, per non venir meno a quel gesto così semplice di partecipare di una gioia così personale. So che per altri non ha alcun significato; eppure, ci trovo il senso profondo delle cose. La memoria non è data mai una volta per tutte, ma va perpetuata perché esista in eterno. Ecco, quindi, che nella neve ritrovo questo.

 

 

© Federico Cinti

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Un po’ di nebbia

 

Lento nel grigio cupo di questo silenzio del cuore

scivola il giorno appena, simile a caligine.

 

Voci laggiù lontane sembrano l’eco di un’eco

persa nel vuoto tetro di questo.

 

Un timido raggio di sole attraversa l’immoto

tedio dell’aria sospeso tra le case.

 

Nella mia stanza anch’io rimango così tra le cose,

forse una cosa anch’io, quasi dimenticata.

 

Un po’ di nebbia dentro la sento insistente scavare

solchi irrequieti, volti di nostalgia

 

e di malinconia, chissà poi da dove riemersi

e perché adesso. Tutto pesa, mi pesa

 

fermo così nella stanza silente di grigio pallore,

ormai senza colore nel pomeriggio assorto.

 

L’ozio del giorno attende la sera, che rapida incombe;

e anch’io attendo, anch’io, non so più che dolcezza.

 

 

Oggi passa così; forse non passa affatto, tanto è immobile ogni cosa. Anch’io me ne sto qui: non faccio nulla, se non scrutarmi dentro, in fondo al cuore. Noia e malinconia, specchio dell’anima è questa nebbia informe che scolora all’interno e all’esterno. Ecco, l’attesa della sera, del timido tepore di ciò che è buono potrà dare un senso vero a questa giornata così strana. Un po’ di nebbia, certo, un po’ di nebbia, come scrive Luigi Pirandello nel Fu Mattia Pascal. Lo leggo sempre a scuola, tra la polvere dei secoli.

Eppure, oggi non passa. Ecco la nebbia che entra nel cuore, che si sente addosso. Forse è parte di noi. Non so: non voglio sapere. Scrivo solo quel che sento. Vaga la fantasia oltre la coltre che ci schiaccia la testa, opprime il cuore dimentico di sé. Dovrà finire questa giornata. Tornerà la sera col suo cupo mantello d’incantesimi, di sogni, di speranze per il nuovo giorno. Noi siamo qui, siamo in attesa che questo giorno passi, passi in fretta. Nulla è più come sembra, altra sembianza rispetto forse a quello che vorremmo. Il tempo non risana la ferita.

Un po’ di nebbia. Un senso d’afflizione per ciò che non è stato e non sarà. Dentro lo specchio immagini di sogno, sono anch’io che mi specchio e non mi vedo. Come sarà il mio volto adesso? Adesso, dico, che non mi vedo? Sarà quello d’un altro o sarà il mio? Vacue domande, quesiti ormai insolubili. Mi devo accontentare di restare quello che sono sempre stato e che sarò. Oggi che tutto è icona, tutto è immagine, privilegio davvero singolare questo mio di cui parlo, noto solo a chi conosce ormai la verità. Crediamo di conoscerla vedendo la verità, che resta sconosciuta ai più. Ma nella nebbia tutto è vano, tutto è come non è, come vogliamo che sia, mare senz’onda, immenso piano.

Un po’ di nebbia, certo. Ma tu, nebbia, forse ti specchi in me, forse ti guardi dentro, nel fondo della tua caligine, di quel porto sepolto da cui esce il tesoro che spesso non sappiamo. Tutto è già stato detto, è stato scritto, ma non questa insondabile vaghezza. Dentro o fuori di noi? C’è differenza? Credo proprio di no. Ecco la nebbia, un po’ di nebbia in cui ricerco ancora il senso delle cose che mi pare smarrirsi lentamente e riapparire altrove, non so dove, non so come. Vediamo adesso come in uno specchio, ma verrà il giorno in cui noi ci vedremo come gli altri ci vedono. Quel giorno sparirà finalmente questa nebbia.

 

 

 

© Federico Cinti

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Mi stupisco, Nicola

 

Nulla. Fragile soffia appena il vento,

incede, immagine fuori del tempo,

chiara memoria dimenticata.

Oggi scivola, tutto trascolora

lento. Nell’anima come una squilla,

alta, vigile. Tu lo sai, Nicola,

già fu. Nell’aria di questo strano

autunno labile la condizione

in cui le cose passano per forza,

ombre simili a sogni, echi di echi,

tace. Scivola l’ora silenziosa.

Tu già sai. Inutile dire o ridire.

Oggi l’augurio, mai troppo tardi.

 

 

Mi stupisco di me, alle volte. Dimenticare è per me verbo alquanto raro. Eppure, ogni tanto mi rammenta d’esistere. In giorni strani come questo la nebbia uniforma ogni cosa, ogni pensiero. E tutto scivola inconsistente, come se nulla fosse. Mi capita, certo, nell’umano trascorrere delle vicende note o meno note. Non vorrei, lo confesso; eppure capita. Forse anche l’anno scorso è capitato. Non ricordo; anzi, proprio non lo so, eterna oscillazione tra l’amletico essere e non essere. Eroe del dubbio, caro Pirandello. O almeno così mi pare.

Mi stupisco, certo, ma non dovrei. I giorni a volte appaiono tutti uguali nella loro diversità. Gioco prospettico oppure oblio collettivo? Oggi che tutto è filtrato, gettato nel pozzo senza fondo di un’entità indefinita e indefinibile, in una liquidità cristallina inattingibile, la domanda resta senza risposta. Avere troppe risposte, del resto, sarebbe come non averne alcuna. Mi accontento della mia, che comunque non ho. Null’altro che un altro sasso gettato ai naviganti di un mare sconosciuto, non più ponto a collegare estremità lontanissime, ma un tutto indistinto in cui perdere la specificità di ogni cosa.

Mi stupisco, Nicola, ma il tuo giorno mi è passato proprio come mille altri. Mi spiace. E tu, da gran signore qual sei, non hai detto nulla. Anche perché, vedi, nulla c’era da dire. È andata così. Un po’ in ritardo, più di una settimana dopo, ben otto giorni dopo, vengo con questa mia ad augurarti qualche cosa che non si può nemmeno festeggiare. La socialità è bandita dal nostro mondo di individualità puntiformi. Vero augurio sarebbe quello di poterci ritrovare tutti insieme, come avveniva prima. Il tempo se ne va silenziosamente, lasciando che noi parliamo con i nostri fantasmi.

Mi stupisco, Nicola, ma il mio pensiero te lo lascio lo stesso. Te lo lascio in faleci, come avrebbe fatto il buon Veronese che tu sai. Ah, caro mio, non sono faleci come ci insegnano i manuali. Un po’ di innovazione e sperimentazione mi sia concessa. Paolo Rolli, nel Settecento, ci ha pur suggerito qualche linea da seguire, ma solo il buon Pascoli ha poi innovato, appena innovato tra l’altro. Lo scavo nella forma non va più di moda, sai? oggi vale solo il contenuto: del contenitore possiamo fare a meno. Oggi, Nicola, va solo il significato: del significante si può fare a meno, se non è alla moda. Ma che cos’è la moda? L’attualità di un momento effimero che fugge. Chi segue la moda, ebbe a dire qualcuno, non è mai alla moda.

Mi stupisco, sai, Nicola, ma forse te li ho fatti lo stesso, seppure in ritardo, i miei auguri.

 

 

© Federico Cinti

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Altro indovinello

 

In un angolo muto, dove il grigio

lascia il segno, m’accoccolo. Non altro

chiedo che una carezza mi riscaldi

appena. All’uggia

 

languida dell’autunno appendo rare

ombre di sogni. Evapora nell’aria

rapido il mio sospiro nella sera

inconsistente.

 

Fine o confine? Tra le quattro mura

esisto. Ormai si è spento il focolare

rosso di vita vera. Il tempo fugge,

oblio d’un giorno.

 

 

Nell’aria un filo di dolcezza, simile a quella «del caldo buono» di Ungaretti (Natale, 18) o di Virgilio, quando canta «e fumano i tetti di già delle case vicine / e dalle cime dei monti cadendo si spandono le ombre» (Ecl., I, 82-83), o ancora di Dante assorto nell’«ora che volge il disio / ai navicanti e ’ntenerisce il core» (Purg., VIII, 1-2). Tempo di nostalgia, forse, nello scendere lento della sera, anche se avrei voluto essere più lieve. Già, avevo in mente un indovinello, non una serie di citazioni così serie. Ma tant’è. Se mi fermo a riflettere troppo, decanta in me la tenerezza leggera di tanti che mi hanno preceduto e di altri che – spero – mi precederanno.

Un indovinello, tutto qui. In questa «soave ora che il sol morituro saluta»… accidenti, ci ricado: non era mia intenzione richiamare alla memoria anche Carducci (Nella piazza di San Petronio, 3)! Devo proporre il mio indovinello, la cui risposta è già contenuta nel testo. Sì, ma vallo a spiegare ai miei ventiquattro lettori, non uno di più: non ho certo la pretesa di paragonarmi a Manzoni. Anch’egli si dilettava e non poco, nel suo studiolo di Brusuglio. Tuttavia, sia chiaro, non pretendo tanto. Mi piacerebbe solo un filo di simpatica ironia.

Ecco, l’indovinello. Non è più che un oggetto di casa, un oggetto comune, nascosto tra le cose quotidiane, di quelle che danno tanto calore. Il resto lo lascio alla fantasia di chi ne sa più di me. Io mi limito a proporre. Se fosse la “Settimana enigmistica”, beh… avrebbe pure un senso. Ma così? Chissà. Avevo letto, una volta, in Huxley, «Era una miniera di informazioni superflue e di buoni consigli non richiesti». Forse posso anche finirla qui e attendere che qualcuno sveli l’arcano.

 

 

© Federico Cinti

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E tutto a un tratto è sabato

 

E tutto a un tratto è sabato

di nuovo. Un nulla il tempo, antico battito

di ciglia tra la fulgida

luce e il buio. Così la vita e l’attimo.

 

L’occhio scruta. L’immagine

sembra fermarsi, senza farsi cogliere

del tutto, senza remore,

pur sorpresa da tanta improntitudine.

 

Il velo lieve scivola

appena. S’intravvede uno spiraglio

sulla soglia, sul limite.

Vana è la corsa, non è vano attendere.

 

Ogni istante ha un suo proprio

senso. Scoprirlo, questo sì è difficile.

Sola illusione il ciclico

ritorno delle cose che ci sfuggono.

 

Ed è di nuovo sabato,

fine o inizio, chissà. Si scioglie l’ansia

di giungere nel brivido

d’eternità dove riposa l’anima.

 

 

Ecco, ritorna sabato. Eppure, anch’io, a poco a poco, mi sto convincendo che l’istoria – grande o piccola non fa tutta questa differenza – non sia veramente magistra di alcunché, con buona pace di Tucidide e del suo «possesso per sempre». I filosofi, certo, si sono scervellati per dare una risposta all’apparente ripetersi di ciò che accade, ma chi postula l’infinità del tempo contraddice la realtà che si vive. Ogni attimo è unico e irripetibile, stretto tra ciò che sarà e ciò che non è più. Quando ci si è sforzati di far rivivere le glorie di un passato glorioso, è subentrata la nostalgia, dolore di un ritorno ahimè senza ritorno. Il tanto vituperato Medio evo porta nel nome ancora lo stigma di chi si è volto indietro a vagheggiare chissà che, senza trovare nulla.

Ecco che torna sabato, inizio o fine della settimana. Non so dire. Ogni volta mi tornano alla memoria i malinconici versi di Giosuè Carducci, quando il poeta, in una disillusa chiusa struggente, canta: «M’asconda ella gl’inanimi / Fiori del giovin anno: / Essi ritorneranno, / Tu non ritorni piú» (Primavera classica, 21-24). Ma chi legge più i versi del «leone maremmano»? oggi si vive dimentichi del passato, incuranti del futuro, accorgendosi – quasi per momentanea illuminazione – che non si è ascoltata la voce di chi ce lo aveva predetto. Non ci specchiamo più nelle pagine dei vati. Cerchiamo nel virtuale la risposta alla nostra sete d’infinito. Qualcuno spegne l’arsura, spegnendo anche se stesso, in un anonimo annullamento.

Eppure, è ancora sabato. Non è quello del villaggio leopardiano, dell’attesa di qualche cosa che, anche se tarda a venire, non è un male. O forse sì: la vita intera, potrei azzardare, è un’attesa di ciò che si dovrà realizzare. Dove sta il ciclo e dove la condanna? Il tempo è veramente il bene più prezioso che ci è stato dato o che abbiamo a disposizione. Non lo aveva già sostenuto decisamente Seneca? Questo sabato non è uguale a tutti gli altri sabati. Cerco di capire dove si sia persa l’anima, dove sono i pensatori o i poeti che parlano per noi. Oggi la dotta scienza issa il suo vessillo oltre le colonne d’Ercole, fissate in noi «a ciò che l’uom più oltre non si metta». Ma la soglia è superata per sempre?

 

 

© Federico Cinti

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Piccola guida esotica di Bologna

 

È uscita in questi giorni, a ridosso dell’inizio dell’autunno, la mia Piccola guida esotica di Bologna (Persiani Editore, Bologna 2020). Anche questo libro nasce in collaborazione con gli studenti della 4B (a.s. 2019-2020) del Liceo scientifico «Leonardo da Vinci» di Casalecchio di Reno e sotto l’attenta e rigorosa supervisione di Doriana Russo, mia collega. Non è mancato, pure in questo caso, il contributo di una persona speciale, Stefano Bicocchi, in arte Vito, che ci ha onorati di un suo prezioso elzeviro sulla città delle Due Torri. Io mi sono limitato a scrivere i testi, in poesia e in prosa, quasi a prendere per mano l’ignaro lettore; gli studenti, per parte loro, hanno avuto l’arduo compito di tradurre  in immagine il luogo delle mie parole, quasi a coglierne l’essenza più profonda. Poesia, prosa, immagini, didascalie: linguaggi che s’incontrano e s’incrociano, nella fusione e nell’ibridazione che ormai ci appartiene. A concludere il quadro alcuni ritratti di personalità cittadine, perché non si può parlare di Bologna senza raccontare quel suo modo di essere tutto suo.

Per l’occasione, per l’uscita della Guida intendo, una mia riflessione, rapide pennellate di un giorno che cambia aspetto e cambia colori ogni momento, come lo strano, malinconico umore di fine settembre.

 

 

Nomi, sbiadite immagini

di luoghi, chiusi in me, nella memoria,

vie diseguali, portici

popolati di volti, donne e uomini.

 

A ritroso, tra pagine

fuori del tempo. Un’altra vita, labili

scorci, cerchi concentrici

tra giardini nascosti dove perdersi.

 

È questa la mia Piccola

guida, seconda guida, adesso esotica

di Bologna, una storia,

la mia storia, da vivere e rivivere.

 

Itinerario insolito

per chi nella città cerca un rifugio

dall’andare frenetico,

la soglia aperta oltre l’eterno limite.

 

Su tutto il cielo pallido,

i colli in lontananza e il loro abbraccio.

Eco di un’eco l’anima

riascolta, una carezza nel silenzio.

 

 

Ci tengo a riportare il testo della quarta di copertina, anch’esso a firma mia. Il mio auspicio è che molti possano leggere questa nostra fatica.

 

 

Porte cittadine, parchi e giardini, angoli insoliti, personaggi tipici sono le tessere di questo mosaico esotico cui diamo il nome di Bologna. Tanti cerchi concentrici, percorsi e ripercorsi, scoperti e riscoperti, fino all’unicità delle personalità singole che animano un tessuto urbano in evoluzione continua. Itinerari che si ampliano e si restringono, s’intersecano e si dipanano, come i linguaggi che li illustrano: un canto poetico sostenuto da una trama di notizie e memorie in prosa, una fotografia che apre a squarci esotici colti nella quotidianità, una didascalia che condensa il senso profondo dell’essere e dell’esserci. Il turista troverà uno strumento utile per abbracciare la complessa semplicità della città dei portici, il bolognese rivedrà attraverso uno specchio levigato la nettezza di quello cui mai aveva fatto caso o che aveva dimenticato.

 

 

A chi si chiedesse il motivo dell’aggettivo, esotica, del titolo, non posso che consigliarne la lettura. La nostra prima fatica, anche se con un’altra classe dello stesso liceo, si chiamava programmaticamente Piccola guida eccentrica di Bologna. Questa seconda, invece, ha in sé i tratti dell’esotismo, per i giardini, per gli scorci inusitati, per i ricordi che si sovrappongono al presente, di una fuga all’interno di noi e degli scorci quasi dimenticati. Una Guida esotica, una via di fuga dal quotidiano e dallo scontato correre del nostro tempo.

 

 

© Federico Cinti

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Ricordo di sisi

 

Correva l’anno 1898: sul Lago di Ginevra era il 10 settembre, proprio come oggi. Nel primo pomeriggio due nobildonne s’affrettano a prendere il traghetto: una di esse ha un lunghissimo titolo nobiliare, anche se tutti la chiamano col nomignolo di Sisi, che nel Novecento sarebbe stato storpiato nel più aggraziato Sissi, l’altra è la sua dama di compagnia. La campanella è già suonata, ma le due dame riescono comunque a imbarcarsi. Causa del ritardo è un singolare incidente: un uomo, l’anarchico Luigi Lucheni, aveva spinto a terra l’imperatrice d’Austria per poi fuggirsene in mezzo alla folla. Nulla di male: il traghetto prende comunque il largo. Non passa molto tempo, però, che Sisi, ormai circonfusa d’un cereo pallore, avverte un malore e si accascia. Nell’aprirle il busto, salta all’occhio una piccola macchia di sangue: il miocardio le era stato perforato da una lima appuntita che l’attentatore le aveva infilato nel petto senza alcuna pietà. Ogni sforzo di rianimarla è vano: dopo poco, infatti, quella donna vestita di nero spira nell’attonito silenzio di chi le stava intorno.

Forse non a tutti è noto che l’imperatrice, della cui leggendaria bellezza ancora si favoleggia, è anche poetessa di notevole caratura. Raccolse i suoi versi sotto il titolo di Das poetische Tagebuch, Il diario poetico. Per ricordare il triste evento, propongo la mia traduzione di uno dei suoi Nordsee Lieder, i Canti del Mare del Nord, il primo dei tre libri che compongono l’intera opera.

 

 

E quando è ineluttabile ch’io muoia,

adagiatemi allora sulla spiaggia,

perché io possa rivolgere il mio sguardo

l’ultima volta al mio diletto mare.

 

Il mugghiare delle onde fa sentire

l’ultima volta il proprio suono amato,

come pieno di dolce struggimento

lo sposo chiama a sé la propria sposa.

 

E nel punto in cui il mare è più profondo,

calatemi lì, dentro, nel suo cuore:

se in alto si scatena la tempesta,

regnerà nel suo abisso eterna pace.

 

Per i cultori, riporto di seguito il testo originale.

 

 

Und wenn ich einmal sterben muss,

Dann legt mich an den Strand,

Dass auch mein letzter Blick noch sei

Aufs teuere Meer gewandt.

 

Die Wogen rauschen mir dazu

Den letzten lieben Laut,

Als rief voll Sehnsucht schon zu sich

Der Bräutigam die Braut.

 

Und wo am tiefsten ist das Meer,

Dort senkt mich dann hinein;

Mag’s oben stürmen noch so sehr –

Da unt’ wird Ruhe sein. 

 

 

 

Anche Giosuè Carducci, in Rime e ritmi, dedica a questa tragedia un componimento in distici elegiaci di intenso coinvolgimento emotivo: Alle Valchirie. Per i funerali di Elisabetta imperatrice regina. Allo stesso modo, Giovanni Pascoli, in Odi e inni, ricorda l’accaduto nei versi di Nel carcere di Ginevra.

Oggi solo il ricordo, il silenzio, la consapevolezza della fine di un’epoca. Era un giorno chiaro e malinconico, proprio come quello di oggi. Era il 10 settembre, fine di una vita, di un sogno, di un mondo.

 

 

 

© Federico Cinti

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Crepuscolo d’Appennino

 

Eterna carezza, sorriso del verde Appennino,

Ca’ del noce, adagiata sotto un velo d’azzurro,

 

rifugio montano, borgata di sassi e sudore,

in cui trovare pace e refrigerio.

 

E da quel manto lievi cadono doni di vita,

freschi pensieri, battiti all’unisono.

 

Si rincorrono voci soavi d’angelici bimbi,

gioie d’inni alla Madre Vergine, figlia e Sposa,

 

uscita dal cuore puro di chi si consola pregando

devoto la sera, sul sole morente.

 

E il cielo e la terra di nuovo si fondono, amore

narrato dal mito di un’antica Sibilla,

 

ombra d’ombra, latrice di un tempo ormai senza parole,

ricordi ormai spenti d’inutili immagini.

 

Glorie remote, rose appassite già colte

dall’ansia dei giorni, ricerche ora vanite

 

d’un labile soffio, remote memorie nascoste

tra petali gualciti d’insana incuria.

 

E l’eco lontana del canto di chi in mezzo al bosco

trema tra i tronchi, tagliando e cogliendo,

 

solenne presagio che sta terminando l’estate,

sogno che sfuma al giallo delle foglie caduche.

 

Traslucida l’ora sbadiglia alla notte incombente,

mentre la luce e il buio perduti si baciano.

 

 

Appennino, per qualcuno soltanto un nome, per me invece un mondo, una linea verde che sagoma il cielo fino a perdersi nell’azzurro. Sul declinare d’agosto i giorni sempre più brevi hanno un sorriso tutto particolare, tutto loro: sanno già di qualcos’altro, di un non so che di indefinibile. Sotto casa mia passa la Porrettana, la via napoleonica (oggi SS 64) che porta appunto a Porretta, vaghezza di sogni e di ricordi. Ci andai per la prima volta «vent’anni fa o giù di lì», per dirla con uno dei protagonisti di quelle vallate, Francesco Guccini. Conobbi in verità prima il fratello, Pietro. Strinsi amicizia con lui, perché  era venuto a fare il bibliotecario nel mio dipartimento, filologia classica. Avevo avuto solo questo suggerimento: se vuoi andare d’accordo con lui, non chiedergli del fratello, ché non ne può più. Chissà, forse perché era cantautore pure lui. Mi attenni, comunque, rigorosamente alla regola della reticenza e credo lo abbia apprezzato parecchio. Un giorno d’estate andai a trovarlo pure a Pavana, al di là dell’antica dogana del Granducato, dopo Ponte della Venturina. Fu una festa, per entrambi.

Appennino, strano coagulo di sogni lungo il Reno: parlo a livello strettamente personale, in base alla mia ristrettissima esperienza di uomo di pianura. È più d’un fiume, il nostro Reno: è una sorgente di memorie inesauribile. Anche il treno lo costeggiava, quando ogni giorno andavo al liceo di Porretta. Insegnare non è mai stata la mia vocazione, lo ammetto, almeno al liceo; ma a qualche professione bisogna pur votarsi nella vita. Conobbi la cittadina delle terme, in ebollizione già dai tempi dei Romani. Anche Niccolò Machiavelli menziona i «bagni della Porretta» nella Mandragola, per sorvolare sulle più famose porrettane di Sabadino degli Arienti. Piccole (o grandi) glorie locali del buon tempo andato, non c’è che dire. Del resto, Francesco Guccini già l’ho citato e non vorrei indugiarvi troppo. Lo incontrai una volta in edicola, un’altra in trattoria, un’altra ancora alla presentazione di un libro di un amico. Il suo regno è però, come è noto, Pavana, nel comune di Sambuca Pistoiese.

Due cari amici vollero assolutamente sposarsi là. Ci andai, ovviamente: ero pur sempre il testimone di nozze. Quanti anni sono passati! Non ci posso pensare. Le magnificenze di quei luoghi le conosco dai loro racconti. Non starò a ripeterle, anche perché la poesia non va spiegata. Mi colpisce tuttavia la fauna che alberga colassù. Nelle mie tre classi di liceo avevo qualche studente pavanese. Buona gente, già toscana, eppure con influenze ancora emiliane. Le lepidezze si sprecano. Un mondo a sé, questo lo ammetto, un luogo unico e irripetibile. Ci tornai poi tante volte e ne feci esperienza diretta. I bimbi che, di giardino in giardino, si rincorrono incespicando nel ripetere le preghiere dei grandi, le glorie passate di uomini e donne, come film rivisti senza fine, il canto di un taglialegna che ripercorre gli anni come fossero giorni. Insomma, un angolo di cielo da cui, pure, ogni tanto scende qualche gioia leggera.

Appennino, già, ci tornerei, come mi capita di fare, per ritrovare ciò che non sono più o forse non sono mai stato. È questa, forse, la vera elegia di un crepuscolo in cui la luce e il buio si toccano a baciarsi prima del nuovo giorno.

 

 

© Federico Cinti

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Pennellate di cielo

Pennellate di cielo. Si posa dovunque l’estate.

Una riga limpida l’orizzonte sospeso.

Sussurri di vita. Si celano antichi presagi.

Sogni di sogni negli echi di favole.

Ascoltano gli alberi. Languiscono al sole che avvampa.
Il verde dell’erba già ingiallisce di fieno.

L’autunno ormai bussa. Si stempera lieve nel fresco
che a tratti s’avverte la sera. Si confonde

nell’anima il ciclico ritorno di quanto è passato.
Distilla una musica, voce accennata appena.

S ’allaga l’ora, eternamente fissa, chissà come, chissà dove.

Fermarsi a contemplare la cupola cava del cielo sa già d’infinito, d’altrove. Quanto dura quest’attimo? La frenesia si stempera tra le voci arcane avvertite tra gli alberi inondati di luce. «Divina Indifferenza», la definirebbe Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato, 6: in essa e per essa tutto esiste al di fuori di chi sente il fluire della vita. il velo cala sul confine indicibile e nell’azzurro si scioglie un’elegia, musica dimenticata tra la quotidianità delle nostre giornate così brevi, così stanche.
Pennellate nell’anima di un cielo simile a quello disegnato dai bambini, in cui l’azzurro è una striscia in alto e il sole un disco giallo che ride. In quell’immagine c’è il desiderio di ritornare a vedere la realtà per come veramente è e non nel modo in cui ce la impongono altri. La sfida, questa, cui si è chiamati quasi senza saperlo. Oltre la linea d’ombra l’indecifrabile senso dell’ignoto, cui spesso ci s’abbandona per poi ritrovarsi come dopo un lavacro di purezza. Scrollarsi di dosso il magma dell’ansia ha valore più che catartico: è tornare liberi dopo la coazione di una prigionia senza barriere.
Le pennellate di cielo saziano la fame d’aria che ci soffoca nelle corazze costruiteci addosso dalle inutili convenzioni cui ci si sottopone. Il ritmo del giorno sta nel suo ciclico cadere e ritornare, secondo il magnifico verso di Catullo: «il sole può cadere e ritornare» (carm. V 4). Anch’io allora seguo questo ciclo, seguo questo ritmo e mi ritrovo bambino.

© Federico Cinti
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La fonte di Bandusia

 

Vaghezza estiva, forse, quella di far risuonare i versi immortali dell’Orazio lirico in questi miei; ma al richiamo delle «acque chiacchierine» della «fonte di Bandusia» (Odi III, 13, 15), lo ammetto candidamente, non ho resistito. Eco di altri «rivi canori» (cfr. G. Pascoli, La mia sera, 18), di altri «rivi strozzati» (cfr. E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 2). Chissà. La memoria poetica segue contorte vie. Nulla di nuovo, certo; solo voci di voci che si incontrano, incrociano e intrecciano.

 

 

O fonte di Bandusia, vetro liquido,

degna di dolce vino, fiori, petali,

ti donerò domani

un capro cui già spuntano

 

le corna per amare e per combattere.

Invano: tingerà il tuo fresco scorrere

il figlio del lascivo

gregge di sangue porpora.

 

Non sa toccarti l’arida canicola,

ora atroce; tu doni un fresco amabile

ai buoi stanchi del giogo

e alle pascenti pecore.

 

diverrai pure tu una fonte nobile,

se canto un’elce nata dove scendono

le tue acque chiacchierine

in mezzo a pietre concave.

 

 

Eppure, per me, la «fonte di Bandusia», con buona pace di chi l’ha cercata e – credo – ancora la cerca, non esiste. Non esiste realmente, intendo, perché luogo dell’anima. In tal senso è anche più vera di un luogo fisico, correlativo oggettivo di una dimensione esistenziale indefinibile. Vogliamo chiamarlo aulicamente locus amoenus? Nulla in contrario. Ma c’è di più. Bandusia è la poesia stessa, alle cui acque attingere eternamente, segno visibile della mitica fonte Castalia, che sgorga non all’esterno, ma all’interno di noi.

di nuovo la fascinazione estiva agisce sulla mia fantasia, incantesimo che si realizza anche in un semplice tentativo di traduzione. Già, perché tutto è traduzione, sbiadita copia di un mondo in perpetuo divenire, mutevole come chi lo guarda, come chi vuole afferrarlo senza riuscirci mai. La «fonte di Bandusia» è quell’acqua in cui, secondo la sentenza eraclitea, non ci si bagna due volte. La poesia non è mai uguale a se stessa. l’apatia dell’estate aiuta il distacco dalle piccole realtà che ci circondano, apre il volo all’immaginazione, alla mia di sicuro.

 

 

© Federico Cinti

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