Giace la tacita neve. Nel cuore
il senso attonito di questi giorni.
Nulla nell’aria si sente, antica
eco di un’eco, timida carezza
viva nell’anima. Dolce il bagliore
riluce all’estasi. Si rasserena
ancora, come quando si era bimbi
fragili, l’occhio innanzi al mondo nuovo,
armonia di un miracolo che adesso
rinasce. Dolce anelito di un sogno,
oggi, che si perpetua in mezzo a trine
labili, inafferrabili. di nuovo
fiorisce in noi la gioia della festa
inattesa, così, dal cielo lieve.
Che bella la città tinta di neve! Non un rumore intorno, non un suono: in candide pennellate di leggerezza si rinnova tutto, fuori e dentro di noi. Ogni volta, davanti a questo stupore, si ritorna bambini. Io, almeno, torno come quando, bambino, rimanevo dietro il vetro a fissare per ore il lento cadere dei fiocchi nella convinzione che, guardando all’infinito, non avrebbe mai smesso. Non solo io: tutto sembra fermarsi ad ammirare uno spettacolo fuori del tempo, di soavità infinita. Il mondo veste un soprabito di candore, mentre il caldo buono della casa abbraccia anche l’anima. Lontani i colli sembrano più alti, simile al Soratte che Orazio canta in una delle odi che preferisco, la IX del primo libro, per il silenzio che crea e in cui riesco a sentirmi altrove, eppure qui, solo con me stesso.
In questa sospensione senza fine avverto echi lontani, «come di neve in alpe sanza vento» (Inf. XIV 30), parole che s’adagiano appena nell’anima e riaprono mondi. Gli occhi vedono quel che altri hanno dipinto attingendo a una tavolozza che rivivifica ogni volta nella potenza evocatrice. Questo, forse, è non fermarsi all’apparenza, al nudo dato empirico. Mi sembrava di volare sui versi di Pascoli, quando i passeri e la rondine si parlavano di lontano nelle loro lingue ignote e il poeta concludeva, rivolto a chi era emigrata in terre remote, «ma non sai la gioia / –scilp– della neve, il giorno che dimoia» (Dialogo, 41-42).
Si vede semplicemente con gli occhi degli altri. All’epoca non capii la Roma trasfigurata sotto la neve allo sguardo incredulo di Andrea Sperelli, che raccontava che «era un sogno poetico, quasi mistico», quando lessi per la prima volta Il Piacere di d’Annunzio. Affascinato dalla bellezza di quel testo mirabile, non comprendevo il senso vero della parola che crea e che ricrea. A rileggere un brivido m’assale, come oggi alla neve che si stende con una delicatezza insolita. Suggestioni, forse, nulla più, come nei famosi distici di Carducci, in cui l’incipit sa già di tetra caligine al cuore: «Lenta fiocca la neve pe ’l cielo cinerëo: gridi, / suoni di vita piú non salgon da la città» (Nevicata, 1-2).
Così, per poter affermare con orgogliosa modestia anch’io, come il buon Dante, «sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» (Inf. IV 102), non tacerò il mio sonetto, cui diedi il titolo di Nevicata, come per i distici di Carducci, e che ebbe tanti elogi. Nevicava quel giorno e dedicai quel testo allo spettacolo di quell’evento. Allo stesso modo oggi rendo onore alla neve, nel giorno in cui festeggia gli anni Ginevra, cui dedico questo testo, come del resto l’altro, per non venir meno a quel gesto così semplice di partecipare di una gioia così personale. So che per altri non ha alcun significato; eppure, ci trovo il senso profondo delle cose. La memoria non è data mai una volta per tutte, ma va perpetuata perché esista in eterno. Ecco, quindi, che nella neve ritrovo questo.
© Federico Cinti
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