Il sonnellino

 

Eco di un’inquietudine, precario

senso di vuoto. Perso nel silenzio

della penombra, volo

tra sconosciute immagini.

 

Sibila qualche macchina, lontanano

voci nel cuore torpido. M’appisolo

in quest’attimo eterno

vagando senza accorgermi.

 

Altri tempi, altri luoghi. Volti immobili

si confondono ormai nella memoria

o dentro un sogno. Vedo

ciò che all’occhio è invisibile.

 

Riverbera nell’anima una musica

dimenticata. Appena mi ci accoccolo

felice e mi riscuoto

dalla mia grave inerzia.

 

Pallida vanità. Nel pomeriggio

si dilata ogni istante. In mezzo agli alberi

rovente fruscia il vento

che narra un’altra storia.

 

 

 

Il sonnellino, momento di sospesa rarefazione di cui ormai non posso più fare a meno. Segno forse dei tempi o dell’età. non so. È così e ne prendo atto. Cogliere il trapasso dalla veglia all’incoscienza è arduo, mentre ogni cosa si confonde intorno, suoni luci parole. Ci si ritrova altrove, lungo l’ala dei secoli. Il cortile nel pomeriggio echeggia di antiche favole raccontate dal vento. Fuggono le macchine lungo le strade deserte e lontanano come i miei pensieri. Libertà, certo, in cui tutto si fa possibile. Scrivo versi e romanzi, incontro chi non vedo da tempo, canto ignote melodie. È il pisolo postprandiale, così dolce nell’attimo in cui ci si avvia come in un viaggio: prende vita la penombra, ridona emozioni non più percepite e comunica un benessere senza fine.

Il sonnellino, come canta Pascoli, è un risalimento alla ricerca di sé: «Guardai, di tra l’ombra, già nera, / del sonno, smarrendo qualcosa / lì dentro: nell’aria non era / che un cirro di rosa» (G. Pascoli, Il sonnellino, 1-4). No, non è forse ricerca di sé: in quel momento di sospensione s’insegue ciò che non si è, che non si è più o non si sarà mai. Dimensione incantata, questa, in cui potersi sentire senza vincoli o legami. Ecco, forse è questo che mi affascina e mi culla. Anche mio padre era così, ma non lo riuscivo a capire appieno. Solo ora riesco a intravedere quel che prima di me ha intravisto lui.

Mi abbandono allora al sonnellino, in cui si riscopre sempre qualche cosa, preludio a un non si sa che cosa, ma che si desidera inspiegabilmente.

 

 

© Federico Cinti

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Ad Angelica

 

Un mare di cicale. A lievi ondate

l’azzurro si riscuote, sogno vano

sospeso tra le nuvole. L’estate

galleggia dentro l’anima. Lontano

 

un ricordo, impalpabili giornate

sempre identiche. Eppure, nulla è invano:

un volto ride, il tuo, parole alate

a rincorrere il vento a mano a mano,

 

Angelica, nel giorno che ti sfiora

e ti fa festa. Ogni ansia, oggi, scompare

nella felicità che si colora

 

dei tuoi occhi stellanti. Naufragare,

forse, è il dolce prodigio dato ancora

a chi con te s’immerge in questo mare.

 

 

 

«Trema uno stelo sotto una farfalla» (G. Pascoli, Solitudine, III 8): così avrei preferito concludere, se non avessi alluso  ad altro. Potenza dell’evocazione poetica, ovviamente, tramutatasi in immagine e quindi in idea, secondo la ben nota etimologia. Sarà che, quando penso ad Angelica, penso al volteggiare aggraziato della farfalla. Il nome, certo, la caratura letteraria, l’essenza che si cela oltre il velo sonoro e si fa persona. È come se, nel silenzio degli uomini, si facesse assorta presenza il colore nel verde del prato, il frinire assordante nell’azzurro terso d’un giorno estivo, il calore del sole nel fresco refrigerio della stanza all’ombra.

Ad Angelica dovrei dire tante cose, ma non è questo il tempo, ma non è questo il luogo. A inizio agosto l’atmosfera rarefatta induce ad altre riflessioni. L’ora si dilata all’infinito e il pomeriggio sembra non terminare mai nei bagliori della sera. I vestimenti leggeri sono una libertà difficilmente raggiungibile nel resto dell’anno. Si rimane così, in attesa di non si sa che, in fondo, a cercare di ingannare ogni giornata identica a quella già passata, identica a quella a venire.

Ad Angelica mi limito a fare i miei auguri per la sua festa. Ecco, questo forse è importante, oggi. Il resto è solo un vuoto chiacchierare.

 

 

© Federico Cinti

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A metà estate

 

Lieve per l’aria l’alito

caldo del sole, un tocco appena, languida

tenerezza. L’anima

si ridesta allo specchio impercettibile.

 

Nulla è mutato, inerzia

d’un tempo che non passa. Si perpetua

assopita nei secoli

l’ansia del giorno in corsa lungo il margine.

 

Su questa linea lucida

il prima e il dopo. Tutto resta simile

nell’eterno riflettersi

di ciò che non si è più. Cadere, infrangersi,

 

sogno che sfrangia rapido

chissà dove al risveglio, alla memoria.

Vano ora quel sorridere,

malinconia sottile, assorto battito

 

ripercosso nell’intimo

e scordato. Lo so, non devo volgermi

indietro. Eterno scorrere,

quello che resta, fluido tra i ventricoli.

 

Ombra di un’ombra, immagine

quella che adesso vedo oltre la soglia.

Sono io? Non so. La pagina

termina, va girata, senza lacrime.

 

 

A metà estate, e ogni anno è così, s’avvertono già i segni dell’incombente malinconia autunnale. Impercettibile sensazione, quasi, nascosta nel fresco ombroso del mattino, nel sole che si fa obliquo e negli angoli più corti delle giornate. L’eco del tempo somiglia alla parola dei poeti, immagini che non muoiono, in fondo in fondo al cuore. Risento Vincenzo Cardarelli cantare: «Autunno. Già lo sentimmo venire / nel vento d’agosto» (Autunno, 1-2). E ancora il mio Giovanni Pascoli, in quel verso di semplice, incredibile bellezza, dipinge un mondo, il suo mondo: «dentro il meridiano ozio dell’aie» (Romagna, 16). In quel meridiano ozio tutto è possibile, anche incontrare «qualche disturbata divinità» (E. Montale, I limoni, 36). E me li rivedo Severino Ferrari e Giovanni Pascoli rincorrersi e chiamarsi «di tra gli olmi».

Vaghezze estive, queste, di metà estate, quando tutto si fa possibile. Nel ricordo non vi è prima né poi: un volto, due occhi che ti guardano, un sorriso. Chi torna in questo specchio? Non è dato sapere. L’immagine si ferma, irriconoscibile, ignota ormai. Il sogno non ha contorni. Resto così, ad aspettare ciò che forse non accadrà mai più. Eco di un’eco, questa, voce che quasi più non riesco a ricordare. Eppure tutto è chiaro ancora, tutto è vivo. Anche Orfeo si volge indietro e perde Euridice, ma non può farne a meno: quell’ombra non apparteneva più a lui, era ormai fredda e vana. Un altro sogno, un’altra età. tutto evolve.

A metà estate il tempo pare sospendersi per una distrazione. Unico rimedio, forse, non pensarci troppo, forse soltanto premio di consolazione.

 

 

© Federico Cinti

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Carpe diem

 

Ogni tanto mi prendo il lusso di confrontarmi – potrei quasi azzardare di litigare – con Orazio, perché le volte in cui , per qualche arcano motivo, mi rimetto a dialogare con lui, mi imbatto sempre in qualcosa di nuovo. Tralascio il cimento della traduzione poetica, impossibile per definizione, eppure ineludibile. Mi riferisco in particolare all’Orazio lirico, non al pur mirabile «satiro», secondo la definizione dantesca (Inf. IV 89). E così mi ritrovo davanti a quel «monumento più perenne del bronzo» (carm. III 30, 1), quasi come si ritorna a visitare un luogo dell’anima.

Quest’oggi sono alle prese con il carmen I 11, solitamente noto come carpe diem, anche se non ha titolo. Ne ho tentato diverse rese, ma a rimeditarle non reggono il paragone con l’originale. Scoperta ovvia, si potrebbe pensare. Ne propongo un’altra che non mi pare disdicevole, frutto di quell’attimo che fugge, dell’hic et nunc, se si vuole del carpe diem.  

 

 

Non chiedere, sacrilego è sapere,

che fine a me, che fine a te gli dei

hanno dato, Leuconoe, e non tentare

i calcoli caldei. Oh come è meglio

sopportare ogni cosa del futuro!

Conceda Giove molti inverni o solo

quest’ultimo, che fiacca ora tra opposte

scogliere il mar Tirreno, tu sii saggia,

filtra il vino e recidi al breve spazio

una speranza lunga. Mentre noi

parliamo, il tempo sarà già fuggito

pieno d’invidia. Cogli il giorno, senza

dare il minimo credito al domani.

 

 

Il mio dialogo s’arricchisce d’altri due interlocutori, Eugenio Montale e Giacomo Leopardi. Chissà perché, ma non mi ero mai accorto che all’immagine della recisione fa eco l’imperativo negativo di Non recidere, forbice, quel volto. Contesti diversissimi, certo: non parlo di allusioni o citazioni. Quel che mi stupisce, tuttavia, è la strana coincidenza. Esortazione e negazione: «recidi» e «non recidere», modi solo apparentemente opposti di considerare il presente. La «cicala» vive il presente, come nella favola di Esopo: prende alla lettera il precetto di vivere completamente il giorno, ascrivendolo a guadagno, perché non dà credito al domani. Avevo alluso a qualche cosa di simile in Auguri in ritardo ad Alberto. Anche l’autore delle Occasioni così conclude il suo breve componimento: «e l’acacia ferita da sé scrolla / il guscio di cicala / nella prima belletta di novembre». Suggestioni, nulla di più. Leggere diventa un mosaico da decostruire e ricostruire, mentre si riaffaccia L’ombra di Narciso.

Riguardo a Giacomo Leopardi gli addentellati sarebbero più precisi, ma non vorrei svelare le mie carte: il testo mi pare già tanto eloquente. Ci sarebbe da chiedersi, forse, perché abbia legato quell’immagine alla «memoria». Noi coincidiamo, questo sì, con la nostra capacità di ricordare e di sperare: in questo senso si dispiega tutto il componimento e il gioco di specchi che lo attraversa. Il Recanatese è fin troppo intriso dei classici per non farmi buttare il cuore al di là dell’ostacolo. Prima o poi mi profonderò in qualche interpretazione più ardita.

 

 

© Federico Cinti

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L’ombra di Narciso

 

Alita il vento. Fra un fruscio di foglie

Si ridesta la mente, trasalita

lungo il lubrico margine, alle soglie

liquide. Lieve il tocco delle dita.

 

Un fremito l’afferra. A un tratto coglie,

come dal nulla adesso rifiorita,

un’immagine eterea, antiche voglie

dimenticate, al volto della vita.

 

Un tuffo nell’ignoto: nuovo il mare

s’apre all’occhio abbagliato in un sorriso

amico. Profondarsi, naufragare

 

fuori del tempo è un attimo. Ora il viso

si fonde e si confonde. Ricompare,

persa in un sogno, l’ombra di Narciso.

 

 

Non più un prima né un poi: dentro lo specchio un’immagine ride, sconosciuta. Il passo è breve. Confondersi al di là o al di qua della soglia? Dubbio che scivola sui cristalli liquidi, gioco di fascinazione o d’incantesimo. Senso vago d’appartenenza, quello che si prova, di fronte all’essere, in cui non si riflette che ciò che vogliamo. Al tocco delle dita tutto sembra animarsi e ricomincia il viaggio. Dov’è la meta, in noi o fuori di noi? Eppure non si è soli in questo mare. Lo definiscono social, ancoraggio di connessioni virtuali.

Narciso ricompare in questo gorgo muto: immagini su immagini, parole eco di parole a cercare un consenso. Si è già oltre lo specchio, invisibile soglia alle nostre mille solitudini. Il tempo s’annulla nell’attimo infinito. Questo è l’amore, questa è la vita e il niente: questo è vivere solo nell’immagine, nel gesto, nella parola lasciata a commento. Ogni giorno si muore un po’ senza saperlo, senza vederlo, senza capirlo. Galleggiano le ombre sul cristallo luminoso, eppure inerte. È l’essere e l’esserci nel cavo della mano, come il suono nascosto nella conchiglia di quello stesso mare.

Narciso è un’ombra che si perpetua sotto le nostre dita, adesso, mentre vediamo solo ciò che appare oltre lo specchio. In questo sta la radice del fare, della poesia. Sogno o ragione? Linea sottile, labirinto in cui si smarrisce la via, come nel palazzo di Atlante, nel castello di Armida. Tutto è già scritto: senza mito non c’è poesia. Il più è riconoscerlo, risalire e abbandonarcisi.

 

 

© Federico Cinti

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Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Nel giorno in cui Petrarca compie gli anni, il 20 luglio, propongo – anzi, sarebbe meglio dire ripropongo – una mia traduzione di un epitaffio neolatino di George Buchanan, poeta scozzese del Cinquecento, che dedica versi struggenti all’amore di Francesco per Laura. Il testo originale sarebbe in distici elegiaci latini, ma mi è parso buono e giusto rendere con un sonetto. Credo che Petrarca avrebbe apprezzato lo sforzo e forse pure il risultato.

 

 

Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Se ha memoria di sé dopo la morte,

dotto Petrarca, l’animo nel cuore,

se oltre la tomba vive intatto Amore,

morendo non patisti un tanto forte

 

tormento quanto il gaudio avuto in sorte

d’accompagnarti a Laura nel fulgore.

Lei i primi anni subì l’aspro livore

del fato, ti lasciò per vie contorte

 

nel pianto più struggente. D’ora in poi

la folta folla dell’Eliso al Lete

vi vede passeggiare. Beati voi!

 

Né la morte né il rogo estremo ha sciolto

il vincolo d’affetti in cui vivrete,

per i secoli eterni, lieti in volto.

 

 

Di seguito è doveroso che io riporti anche l’originale: non vorrei lasciare nulla, ma proprio nulla, al caso.

 

 

In tumulum Francisci Petrarchae

 

Si memor ipse sui est animus post funera, culte

Petrarcha, et cineri vivit inustus Amor,

 

certe non tantum cepisti morte dolorem,

quam gaudes Laurae nunc comes ier tuae.

 

Quae, fati invidia primis oppressa sub annis,

te summo in luctu liquerat, et lacrymis.

 

Nunc vos Letheae spaciantes margine ripae,

Elysii spectat plebs numerosa fori.

 

Felices animae, quarum dissolvere foedus

mors quoque et extremi non potuere rogi!

 

 

Confesso che non è l’unica volta, questa, che tento una resa di tale epigramma: la mia prima versione fu pubblicata nel 2004, settimo centenario della nascita del sommo vate. A Bologna si teneva un convegno internazionale sul petrarchismo Cinquecentesco, cui ebbi l’onore di partecipare, e in quell’occasione usciva l’antologia Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G.M. Anselmi, K. Elam, G. Forni e D. Monda, Rizzoli, Milano, 2004. Oggi la disconoscerei: non mi ci ritrovo più, perché appartiene ormai a un Federico che non esiste più. E dire che ne andavo molto fiero, e della traduzione e di quel Federico.

L’insoddisfazione mi ha costretto, nel tempo, a riprendere in mano questi distici per dare loro una veste e un respiro nuovi. Il labor limae credo possa essere un inesauribile stillicidio e dare lo sfinimento. Anche quest’anno non ho potuto farne a meno: il testo è cambiato ancora. Quando traduco (e ritraduco), mi torna in mente il verso dantesco « mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Non c’è che dire: ogni volta io muto e la traduzione muta con me. È un gioco di specchi: io mi rifletto nel testo e il testo si riflette in me. il rischio di perdersi per sempre è fin troppo reale. L’ombra di Narciso incombe su questo esercizio così suadente e mai finito. Una competizione: si può azzardare questo giudizio? Già, chi è migliore: il tradotto o il traduttore? Probabilmente non è solo un atto metamorfico, la traduzione, ma una manifestazione di narcisismo in divenire.

 

 

© Federico Cinti

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L’estate e il suo solstizio

 

Fermo il sole nel cielo inerte indugia

fuori del tempo. Tiepido l’abbraccio

dell’azzurro, sospiro

via via sempre più languido.

 

Lontana una cicala, eco al prodigio,

oltre la fantasia: si fa perpetuo

un guizzo d’infinito.

Il mondo attende immobile.

 

In quest’attesa vibrano all’unisono

mille corde. Nell’anima una musica

risuona, eterno soffio

di vita impercettibile.

 

Termina il viaggio, qui? Sul monte gli alberi

sussurrano nel vento antiche nenie

dimenticate. È l’ora

che ci ridona al vivere.

 

Vanisce il sogno. S’aprono le palpebre

alla nuova realtà. Così si supera

l’oscura linea d’ombra,

l’estate e il suo solstizio.

 

 

Insolito il tepore che si respira nel giorno del solstizio d’estate, quando il tempo sembra fermarsi smarrito e la luce si riversa a liquide cascate. È il tempo delle vacanze, delle lunghe giornate che paiono non finire mai e tutto sembra possibile. La leggerezza è palpabile, liberi da ogni costrizione: i «nostri vestimenti / leggeri» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 24-25) non opprimono più l’anima. È un abbraccio senza fine, questo, un calore primigenio. Il cuore vaga lontano in un sogno di languida dolcezza fino quasi a smarrirsi dopo l’orizzonte in fuga.

Non vi è altro momento nell’anno in cui si percepisca ugualmente il fluire della vita. Ogni cosa trova la sua pienezza, mostra il suo senso vero nella diafana luce trasfigurata del giorno. Suoni e colori s’inseguono, come in un incanto. Così nascono le leggende che si ripetono, durante il tempo che rallenta attimo per attimo. Antichi poeti cantano, come narra uno stupito Platone, senza stancarsi mai il ciclo dell’essere: le cicale inondano l’aria di squillanti carezze soavi. È il loro tempo, è il tempo della felicità, di un presente che non sa dello sfiorire fragile dei fiori, degli alberi che bisbigliano sommesse cantilene, del «perir della terra» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 67).

Al solstizio comincia l’estate, nel miracolo della sua bellezza. Il silenzio attinge a vertigini dimenticate. Si ritorna bambini, con la gioia nel cuore e il sorriso negli occhi. Nulla si deve più, tutto è donato in questo tempo di grazia. L’ansia si scioglie nell’ora che si ferma a contemplare ogni singola cosa che si desta di nuovo. Palingenesi di vita e di senso lanciata oltre l’ostacolo, oltre il «rovente muro d’orto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2), alla ricerca dell’infinito in cui è «dolce naufragare» (G. Leopardi, L’infinito, 15).

Ecco dunque che, nel mondo delle fate, la realtà diviene il trastullo dei sogni e Titania continua a giocare con Oberon nel bosco incantato. Tutto vince l’amore, quella favola bella che si perpetua, come in conchiglia il mormorio del mare. Nulla d’ignoto, nulla di conosciuto ancora: si fonde la memoria nel futuro a generare un presente che tuttavia è già ricordo. S’oscilla sull’orlo della voragine nella traslucida armonia della natura tornata al suo volto originale. Solo così l’azzurro non è illusione, ma fervida realtà onirica.

 

 

© Federico Cinti

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Saluto finale

 

L’ultima campanella, suono vano

smarritosi nel cuore. Corre l’ora

con noi. Passa ogni istante. Piano piano

il volto dei ricordi trascolora

 

più d’una vecchia foto. È ormai lontano

il liceo, ansia del giorno che divora

inesorabilmente. Eppure, è strano

volgersi indietro adesso, in quest’aurora

 

di luce nuova. Il dado è stato tratto:

ogni evento procede con o senza

rimorsi. Tutto quanto è stato fatto

 

nel migliore dei modi. Altra partenza,

altro arrivo, chissà, sogno distratto

di questa troppo breve adolescenza.

 

 

Un saluto, l’ultimo forse, simile alla lunga, infinita ombra nera della sera, un ricordo che si fa malinconia del tempo che trascorre. Ecco, un tempo non che è trascorso, ma che continua a trascorrere, quasi indifferente, come se ogni istante fosse simile al precedente. Una linea separa i giorni, distingue i momenti. Un passo ancora e tutto trasfigura, eterna metamorfosi del presente. Tutto si fa memoria, ricordo impercettibile: le voci, i volti, i riti di un’età che non tornerà mai più. Non mi è mai parso così vero ciò che canta il buon Orazio: «dum loquimur, fugerit invida / aetas» (carm. I 11, 7-8).

Il tempo si sconta istante per istante: «la morte / si sconta / vivendo» (G. Ungaretti, Sono una creatura, 11-13). Ogni giorno muore, ogni istante: il viaggio comincia col suo carico d’attese. Poi, impercettibilmente, si giunge a destinazione e tutto s’annulla in un «punto acerbo / che di vita ebbe nome» (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie). Volgersi indietro non è possibile: Orfeo perderebbe di nuovo Euridice, Narciso rifletterebbe per sempre se stesso sulle acque della vanità. Meglio allora è continuare, dimentichi di sé. «Le coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni» (E. Montale, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, 5-6) servono a ingannare l’ineluttabilità dell’essere.

Quell’ultimo saluto che non è più rito, se mai lo è stato, sul confine dei mondi, interrompe la catena, spezza il quotidiano e diviene nostalgia, dolore di un ritorno impossibile. Va voltata la pagina: non si può trattenere. Altri mondi, altre realtà attendono l’ansia di conoscenza, l’antica nostra curiositas. Tutto ci parla di questo viaggio interminabile, chissà dove, chissà come. Solo noi ne siamo i protagonisti, a «scendere e […] salir per l’altrui scale» (Par. XVII 60). eppure, lo sappiamo, nulla è invano. Qualche cosa avrò rappresentato anch’io nel mio piccolo.

Con questo animo penso ai miei studenti, inconsapevoli compagni di un viaggio giunto a destinazione. Li vedo uscire, di spalle, a uno a uno. So che non torneranno, che il loro tempo al liceo è concluso, come l’ultima ora del sabato, quando ogni aula si svuota e a un tratto piomba un silenzio d’inquietudine. Il cuore si fa piccolo piccolo. Nello sforzo di renderli uomini e donne, li ho tramutati soltanto in ricordo. E io pure per loro, adesso, sono solo e per sempre ricordo.

 

 

© Federico Cinti

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Tanti auguri, Lorenzo!

 

Lieve l’azzurro tiepido: l’estate

bussa alle porte. Il tempo della scuola,

un ricordo tra cose ormai passate

senza volgersi indietro. L’ora vola

 

impalpabile. A liquide cascate

il sole si riversa. Una parola

risuona tra altre mille inascoltate,

eco sul punto di morire sola.

 

Incantesimo assorto: la distanza

cade tra la realtà e la fantasia

in questo giorno pieno d’esultanza.

 

Lorenzo s’abbandona all’armonia,

prima di cominciare la vacanza

già velata d’un po’ di nostalgia.

 

 

Un’altra ricorrenza, gioiosa questa volta: un compleanno, quello d’un mio studente, Lorenzo, cui non sottraggo la soddisfazione di scrivere qualche cosa. Intendiamoci, la soddisfazione è pure mia: non voglio negarlo. Anche a me piacerebbe se qualcuno mi dedicasse qualche verso, un paio di righe, un pensiero estemporaneo. Alle volte, difatti, ci penso io, faccio tutto da me e lascio correre le malinconie, soprattutto ora che è finita la scuola. Si aspetta tutto l’anno questo momento e poi, sulla soglia, si avverte un velo di tristezza. Per lo stesso motivo non mi piace uscire all’ultima ora il sabato: sentire che tutto si svuota intorno a me è una sensazione che mi fa un certo effetto.

Eppure, adesso siamo sulla soglia dell’estate: ci prepariamo ad altro, alla vacanza, al tempo libero, alle nostre più recondite passioni. Nulla ci è dato a caso, ma tutto va vissuto per quello che è, senza ossessioni per il passato o per il futuro. Tempo propizio, tempo opportuno, l’antico kairos, questo, in cui tutto si rende possibile, anche l’epifania di «qualche disturbata divinità» (E. Montale, I limoni, 36). Occorre solo essere pronti al «prodigio / che schiude alla divina indifferenza» (E. Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, 5-6).

In questa infinita azzurrità m’adagio a galleggiare, come a morto, sul fluire dei miei «pensieri / che l’anima schiude / novella» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 26-28), in un’altra fusione panica tra il tutto e il nulla, io «una docile fibra / dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31). È questo il tempo delle fate, del ritorno di Titania e di Oberon, del mondo che si specchia nel suo specchio e si ritrova nella sua eterna volontà di non fermarsi al limite, sulla linea di confine che si sfrangia.

Siamo immersi nel tempo, flusso infinito della vita in cui galleggia ciò che non siamo più o che non siamo mai stati. È «la morta gora» (Inf. VIII 31) in cui riemerge ogni nostra ossessione, come sulla barca di flegiàs che non comprende e svolge, nonostante tutto, il suo compito eternamente, se non sappiamo uscire «del pelago» (Inf. I 23) di Ulisse e riappropriarci del bene più prezioso che ci è stato donato. Il tempo, certo, null’altro, noi piccoli segmenti sulla retta infinita dell’eternità, cui siamo vocati.

 

 

© Federico Cinti

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Smarrimento

 

Un giorno strano,

questo. Mi pesa

sul cuore. Un vano

senso d’attesa

 

stringe, ma invano,

fuga sospesa,

non qui, lontano.

La mente arresa

 

sogna una vita

migliore altrove:

cerca, smarrita

 

tra cose nuove,

la via d’uscita,

ma non sa dove.

 

 

Nel sole languido di questo inizio giugno il vago smarrimento per la via non definita, incolore, quasi sospesa. Tutto sembra passare nell’inerzia dell’ora, sotto un cielo cinerino. Anch’io passo così, trascorro e trascoloro: è lo spleen della Croce, quella terra in bilico tra ciò che non è e ciò che non è ancora, ultima linea di confine. La mia dimensione, non c’è che dire, tra ciò che fui e che forse sarò, dinamismo di un fragile punto sulla retta dell’infinito. Mi guardo e non mi vedo, privilegio di pochi sentirsi vivere.

Mi ci ritrovo e non so più se sia io fatto per questi luoghi o questi luoghi per me. Nulla è mai invano, nulla è mai a caso, anche se si fatica a volte a trovare il bandolo. Eppure, le rondini ritrovano sempre la via del ritorno, ricompongono sempre il loro nido. Anch’io sotto il tetto cerco l’angolo più riposto in cui nascondere il sogno più vero. Tornerà il sole limpido della primavera. Nell’oppressione di questo grigio appoggio anch’io la mia anima alla «balaustrata di brezza» (G. Ungaretti, Stasera, 1). Equilibrio precario quello che s’ottiene sulla soglia dell’essere. Il tempo si contorce in un ghirigoro sonoro, sperso chissà dove per l’aria. Non è follia volare oltre il margine estremo dell’infinito. 

In questa smarrita sospensione tutto si fa finalmente possibile. la ricerca non è stata vana. Veramente l’attesa attinge la felicità più di qualsiasi realizzazione sognata. S’aspetta la «festa / ch’anco tardi a venir, non ci sia grave» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 49-50). Si è qui, si resta appesi a un fil di sole che ci solleva oltre l’azzurro limpido del cielo. E l’anima s’allaga, smarrita e ritrovata in un unico punto. Ecco, quindi, che cosa ci tocca in dono in questo giorno d’eterna malinconia.

 

 

© Federico Cinti

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