Siamo ai saluti. Non sembrava vero
allora. Adesso è solo nostalgia.
Le cose sanno sempre di mistero.
Urge il tempo, dimentico per via.
Tutto già fu. Pure io sarò sincero,
io – intendo – che so bene come sia
gramo andare e restare, un giorno nero,
infinita eco di malinconia.
Ormai ci si conosce troppo bene.
Come non so, ciascuno nel suo ruolo;
ormai, però, lo so, ci s’appartiene.
Non vi scordate mai, prendendo il volo,
di me, ancorato a queste mie catene:
io resto qui, ma resto qui da solo.
Non sopporto la fine, qualunque essa sia, nemmeno la fine della scuola. Intendiamoci, la prospettiva di potersi finalmente riposare è molto allettante, ma dover superare la soglia che divide il prima e il poi, l’invisibile linea d’ombra che separa, il margine oscuro che lacera, mi lascia attonito, con l’amaro in bocca. Figuriamoci poi quando si ha la consapevolezza che il viaggio finisce per davvero, quando gli studenti di quinta liceo li rivedrai ancora per poco tempo, sì e no il tempo dell’esame di Stato, che una volta si chiamava pomposamente esame di maturità, e poi più nulla, per riecheggiare il poeta, «poi nulla… / sul far della sera» (G. Pascoli, La mia sera, 39-40). Si vive eternamente nell’attesa leopardiana del giorno del riposo, nella speranza che non arrivi mai o che passi in fretta, quasi senza accorgersene. Per me almeno è così, perché «la mia festa, / ch’anco tardi a venir, non mi sia grave» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 50-51).
La fine non l’ho mai sopportata, è vero, ma mi ci preparo a poco a poco, nella consapevolezza che «sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna» (U. Foscolo, Carme dei sepolcri, 40-41), perché la fine ha il sapore di qualche cosa di irreversibile, quasi fosse il punto di non ritorno. E così, per rendere il distacco meno evidente, scrivo un ritratto a ogni mio studente che termina il liceo, perché di questo si sta parlando, degli ultimi giorni di liceo. Sono i miei personali saluti, come li so fare e come li voglio fare io. Ogni volta m’ingegno a trovare un titolo diverso. Quest’anno, visto che il nostro liceo di Casalecchio è dedicato a Leonardo da Vinci, ho pensato a Saluti giocondi, perché in quarta di copertina ho messo il ritratto di Monna Lisa con indosso i miei occhiali rossi. Un tocco d’ironia non guasta prima dell’ultima campanella. Che, intendiamoci, non è l’ultima in assoluto, nel senso che ho consegnato il libretto qualche giorno prima proprio per stemperare il peso del saluto finale.
Questi Saluti giocondi sono diventati pure Giocondi saluti, una sorta di bel fulmen in clausula…
Già fummo insieme. Un ultimo saluto,
il vostro, il mio. La soglia ci separa,
oggi. Qualcosa ho dato, ho ricevuto
ciò che si dona, ciò che non s’impara.
Ora si è quasi all’ultimo minuto,
non altro che una dolce luce chiara
davanti a noi, tra noi. Non si è perduto
il tempo: è l’ora che si è fatta avara.
Siamo qui, siamo noi. Tutto si è detto,
anche troppo, chissà, presente assenza
lontana, eterno sogno nel cassetto.
Un giorno si vedrà la differenza:
tutto già fu, dolce dolore al petto
in questa troppo breve adolescenza.
Ne abbiamo dato lettura pubblica, ieri mattina, a inizio giugno, in classe: ognuno leggeva il proprio. Qualcuno aveva la voce rotta dall’emozione, qualcuno ha pianto. Insomma, non era mia intenzione, ma così è stato. Il tempo non passa invano e nemmeno noi passiamo tanto per caso. Ci se ne accorge sempre dopo, non dico quando sia troppo tardi, bensì quando si ha la consapevolezza che non siamo più quelli di prima. Forse è giusto così. A me questa parte della professione un po’ pesa, ma non ci si può fare nulla. Il liceo scientifico di Casalecchio, il Leonardo, ha questa particolarità, di avere uno intendo come me che si lascia prendere dal sentimentalismo. Oh, ci sta: meglio che essere abulici o insensibili. Di tutto ciò resta il sorriso enigmatico della Gioconda con gi occhiali di Federico.
© Federico Cinti
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