Saluti giocondi e giocondi saluti

 

Siamo ai saluti. Non sembrava vero

allora. Adesso è solo nostalgia.

Le cose sanno sempre di mistero.

Urge il tempo, dimentico per via.

 

Tutto già fu. Pure io sarò sincero,

io – intendo – che so bene come sia

gramo andare e restare, un giorno nero,

infinita eco di malinconia.

 

Ormai ci si conosce troppo bene.

Come non so, ciascuno nel suo ruolo;

ormai, però, lo so, ci s’appartiene.

 

Non vi scordate mai, prendendo il volo,

di me, ancorato a queste mie catene:

io resto qui, ma resto qui da solo.

 

 

Non sopporto la fine, qualunque essa sia, nemmeno la fine della scuola. Intendiamoci, la prospettiva di potersi finalmente riposare è molto allettante, ma dover superare la soglia che divide il prima e il poi, l’invisibile linea d’ombra che separa, il margine oscuro che lacera, mi lascia attonito, con l’amaro in bocca. Figuriamoci poi quando si ha la consapevolezza che il viaggio finisce per davvero, quando gli studenti di quinta liceo li rivedrai ancora per poco tempo, sì e no il tempo dell’esame di Stato, che una volta si chiamava pomposamente esame di maturità, e poi più nulla, per riecheggiare il poeta, «poi nulla… / sul far della sera» (G. Pascoli, La mia sera, 39-40). Si vive eternamente nell’attesa leopardiana del giorno del riposo, nella speranza che non arrivi mai o che passi in fretta, quasi senza accorgersene. Per me almeno è così, perché «la mia festa, / ch’anco tardi a venir, non mi sia grave» (G. Leopardi, Il sabato del villaggio, 50-51).

La fine non l’ho mai sopportata, è vero, ma mi ci preparo a poco a poco, nella consapevolezza che «sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna» (U. Foscolo, Carme dei sepolcri, 40-41), perché la fine ha il sapore di qualche cosa di irreversibile, quasi fosse il punto di non ritorno. E così, per rendere il distacco meno evidente, scrivo un ritratto a ogni mio studente che termina il liceo, perché di questo si sta parlando, degli ultimi giorni di liceo. Sono i miei personali saluti, come li so fare e come li voglio fare io. Ogni volta m’ingegno a trovare un titolo diverso. Quest’anno, visto che il nostro liceo di Casalecchio è dedicato a Leonardo da Vinci, ho pensato a Saluti giocondi, perché in quarta di copertina ho messo il ritratto di Monna Lisa con indosso i miei occhiali rossi. Un tocco d’ironia non guasta prima dell’ultima campanella. Che, intendiamoci, non è l’ultima in assoluto, nel senso che ho consegnato il libretto qualche giorno prima proprio per stemperare il peso del saluto finale.

Questi Saluti giocondi sono diventati pure Giocondi saluti, una sorta di bel fulmen in clausula

 

 

Già fummo insieme. Un ultimo saluto,

il vostro, il mio. La soglia ci separa,

oggi. Qualcosa ho dato, ho ricevuto

ciò che si dona, ciò che non s’impara.

 

Ora si è quasi all’ultimo minuto,

non altro che una dolce luce chiara

davanti a noi, tra noi. Non si è perduto

il tempo: è l’ora che si è fatta avara.

 

Siamo qui, siamo noi. Tutto si è detto,

anche troppo, chissà, presente assenza

lontana, eterno sogno nel cassetto.

 

Un giorno si vedrà la differenza:

tutto già fu, dolce dolore al petto

in questa troppo breve adolescenza.

 

 

Ne abbiamo dato lettura pubblica, ieri mattina, a inizio giugno, in classe: ognuno leggeva il proprio. Qualcuno aveva la voce rotta dall’emozione, qualcuno ha pianto. Insomma, non era mia intenzione, ma così è stato. Il tempo non passa invano e nemmeno noi passiamo tanto per caso. Ci se ne accorge sempre dopo, non dico quando sia troppo tardi, bensì quando si ha la consapevolezza che non siamo più quelli di prima. Forse è giusto così. A me questa parte della professione un po’ pesa, ma non ci si può fare nulla. Il liceo scientifico di Casalecchio, il Leonardo, ha questa particolarità, di avere uno intendo come me che si lascia prendere dal sentimentalismo. Oh, ci sta: meglio che essere abulici o insensibili. Di tutto ciò resta il sorriso enigmatico della Gioconda con gi occhiali di Federico.

 

 

 

© Federico Cinti

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Un po’ di nebbia

 

Udii un’eco. Tremarono

nell’anima i precordi. A quell’immagine

posò il tempo dimentico,

origine e crepuscolo dell’attimo.

 

Dell’intima vertigine

intravidi il miracolo, indicibile

nenia di luce, limpida

ebrezza oltre ogni ostacolo, ogni limite.

 

Breve brivido, onirico

barlume, malinconica inquietudine

in un fulmineo correre

all’indietro, in avanti, eterno vortice.

 

 

In «questo senso penoso di precarietà», tanto per citare il nono capitolo del Fu Mattia Pascal di Pirandello, Un po’ di nebbia appunto, tutto appare quanto mai confuso. Poco chiaro, insomma: diciamo pure come ci piace. Perché in fondo, e non sono certo io ad averlo ammesso per la prima volta, ogni metafora serve a descrivere il nostro incerto procedere. La nebbia mi pare proprio azzeccata, con quel suo vedere e non vedere assieme. E poi, «era un gran mare piano, / grigio, senz’onde, senza lidi, unito» (G. Pascoli, Nella nebbia, 1-3). Si brancola, ecco tutto, tra le ombre fitte. Avviene così, del resto, pure nei sogni. Non c’è nebbia, è vero, ma i diversi piani si intersecano l’uno nell’altro in una realtà sfacciata. Forse è questo il bello dell’attività onirica, perché a «colui che sognando vede», o crede di vedere, «dopo ’l sogno la passione impressa / rimane, e l’altro a la mente non riede» (Par. XXXIII 58-60).

Al di fuori di noi tutto è possibile. la visione parziale non ci permette altre valutazioni. A me almeno non le permette. Determinarci non è sempre possibile, a quanto pare, se ciò che siamo lo vedono solo gli altri. Appunto, lo vedono o credono di vedere. Anche su questo potremmo discettare all’infinito. Fingiamo pure di essere in uno stato cosciente e di veglia permanente. Non siamo mai in grado di squarciare la cortina che ci separa dall’aldilà. Intendiamoci, anche in senso meramente spaziale, se noi ci troviamo qui. Indossiamo per l’occasione la maschera che ci contraddistingue o ci omologa. Già, ma anche il volere a tutti i costi essere diversi, in verità, altro non è se non un’omologazione. Mi trovo anche a chiedermi se non sia meglio passare inosservati e basta. In fondo, che ci importa del giudizio altrui? E del nostro, eh? Del nostro che ci importa? Sempre di maschera parliamo.

 

 

Eppure, c’è qualche cosa di grande della riflessione, nell’infinito specchiarci e rispecchiarci. In questo modo si conosce e ci si conosce, anche se è doloroso. Entrare nei precordi è alle volte uno strazio. Ma questo atto titanico non può restare pura potenza. Ecco allora possibile lo spettacolo: ciò che si guarda e che si mette in scena è davanti a noi, è dentro di noi. Lo facciamo nostro, in una perpetua catarsi. Se non si capisce, si esiste senza vivere. Qualcuno lo fa e forse sta benissimo. Porsi troppe domande rischia di guastare la tranquillità tanto a lungo cercata. Era l’antica atarassia, l’imperturbabile stato di chi diviene imperturbabile. Chi ci riesce, attinge forse la felicità. Io, non so perché, mi ritrovo nel continuo vortice che ibrida sogno e realtà, fantasia e desiderio di volontà. Tendiamo all’infinito, non c’è dubbio. Guardo il cielo, l’infinita azzurrità che mi sovrasta. Non nascono da qui tutte le domande? Solo un pazzo può pensare che non vi sia un mistero che ci abbraccia e di cui facciamo parte. Chissà, se riusciamo a vederci da fuori, questo eterno tendere raggiungerà il suo porto, la sua meta. Uscirà dal vorticare infinito e raggiungerà la pace. in questa nebbia sembra difficile, ma non impossibile. Se non altro, sperare dà una certa consolazione.

 

 

© Federico Cinti

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Saluto a Luigi

 

Lieve il soffio del giorno, ali nel vento,

un sibilo invisibile oltre il velo

indicibile il palpito di cielo:

già fu quell’ora, rapido momento.

 

Infinita la via, pallido evento

passare indenne il torbido sfacelo,

assorto più d’un fiore sullo stelo:

zampilla il senso, antico sentimento.

 

Zone d’ombra nell’anima, sussurro

assopito nel cuore. Tutto resta

greve d’intorno sopra il nero suolo.

 

Lassù un canto di luce, lassù un volo

inatteso nell’ora della festa,

abbracci di vertigine e d’azzurro.

 

 

Un saluto, l’ennesimo. Ritrovarsi di nuovo sulla soglia che separa l’ombra dalla luce. Una soglia, appunto, un confine labile da oltrepassare oltre la piccolezza del nostro essere finito. Una strana sensazione, come di già visto e già sentito, un’atroce afa, nonostante la primavera inoltrata. Ero lì, in una solitudine fatta di persone, note e ignote, accomunate dalla necessità di testimoniare che la vita va oltre quel termine. In fondo, stiamo «studiando per l’aldilà», chissà, forse «un fischio, un segno di riconoscimento» (E. Montale, Avevamo studiato per l’aldilà, 1-2).

 

 

 

La via procede, non v’è dubbio, anche se è difficile scorgere sempre qualche cosa oltre le nuvole. L’azzurro esiste comunque. Io me lo immagino, quell’azzurro intendo, come negli affreschi di Giotto: «credette Cimabue tener lo campo / ne la pittura, ma ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è scura» (Purg. XI 94-96). Sarà questo il senso della fama e dell’azzurro, mescolati assieme. La memoria mantiene vivo ciò che ci sembra scomparire alla vista. Eppure, mi pare che non sia così. Tutto resta nei tetri contorni delle parole, immagine dai contorni che sfocano a poco a poco e svelano il significato più profondo della ricerca. Anche il sogno è così, mostra e rivela. Su quella linea d’ombra s’è parso d’intravedere qualcosa. Non era rito, no, ma vita.

Aveva ben donde il buon Orazio a cantare che non omnes moriemur (carm. III 30, 6). E pensare che Didone aveva gridato, in preda alla follia, proprio moriemur innupta, / sed moriamur (Aeneis, IV 619-620), seguito dalla Saffo di Leopardi «Morremo. Il velo indegno a terra sparto / rifuggirà l’ignudo animo a Dite» (Ultimo canto di Saffo, 55-56)! Le opere buone rimangono a parlare di noi, in chi ci ha conosciuto. Non è vero che nulla è invano. Così almeno mi sembra, di fronte al cielo azzurro che spiccava tra i palazzi. Del resto, in quel luogo, il Fossolo di Bologna, mi sentivo più che a casa. Me lo dicevano gli amici e i conoscenti.

Anche Chiara era triste, certo, ma serena. Salutava suo padre. So bene come ci si sente in quei momenti. Quando ci salutò il mio mi sembrava che quell’azzurro mi si frantumasse addosso. È stato un po’ rivivere quei momenti. Istanti di vita, certo, di tempo che sembra passato, ma non passa mai. ce lo si sente addosso ogni volta, nelle pieghe dell’anima. Mi sono riconosciuto a un tratto, così, «docile / fibra dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31). Questo in fondo siamo, questo dobbiamo essere. Poi il rientro, i pensieri, le emozioni. Nulla è mai invano, lo ripeto.

 

 

 

© Federico Cinti

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Eco di voce limpida

 

Aura d’incanto, in quel sorriso un volo

leggero di farfalla. Sogno lieve,

antica nostalgia d’un tempo breve,

un estatico canto d’usignolo

 

rade l’azzurro. Nell’eterno assolo,

al diafano pallore della neve,

si scioglie il cuore. Oltre il sipario greve

preme la soglia in un istante solo.

 

Inquieta sospensione, orma d’un raggio,

muta lo spazio nel silenzio assorto,

potenza inafferrabile. Le mani

 

ondeggiano in assenza del domani.

L’aura trascende, vanità e conforto,

ombra infinita, ennesimo miraggio.

 

 

Mi è sempre parso che parlare d’altro equivalesse, in fondo, a parlare d’oltre. Poi capita che un giorno, a occhi socchiusi, una voce squarci il buio e ridoni il senso a ogni singolo dettaglio, a ogni più piccola «cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata» (G. Ungaretti, Natale, 10-14), in un desiderio di senso infinito, in attesa, appunto con «socchiusi gli occhi», mentre me ne «sto / supino nel trifoglio, / e vedo un quadrifoglio / che non raccoglierò» (G. Gozzano, La via del rifugio, 5-8). Ecco un prato in rigoglio, in cui a un tratto «trema uno stelo sotto una farfalla» (G. Pascoli, Solitudine, 24), ecco un sorriso lieve che colora quel tetro vuoto. Fantasia o realtà? Siamo al di qua o al di là del vero (o del velo)?

Quel sorriso di luce si fa voce, liquido cristallo: è un canto nell’azzurro, simile a un sogno avveratosi nella poesia in cui tutto vale di per sé e allude a una dimensione d’alterità. Serve a vedersi, finalmente, come siamo visti, perché «chi vive, quando vive, non si vede: vive» (L. Pirandello, La carriola). Vita e forma s’attraggono e respingono, si trovano e si perdono, come l’occhio che, per vedere, si deve chiudere. Davanti a noi si mostra la realtà, come quando in teatro si scioglie la palpebra del sipario e si è sospesi ora qua e ora là, nel proprio ruolo prima sconosciuto. Il teatro stesso è un occhio che guarda ed è guardato, luogo fuori dello spazio, momento fuori del tempo. Tutto si fa metafora, poesia canto parola: una vertigine fa trascendere l’attimo.

 

 

 

Tutto è metafora, certo, a partire dal più famoso senhal, «l’aura», imparato forse a scuola e poi dimenticato, quando ancora «erano i capei d’oro a l’aura sparsi» (Rvf XC 1), in cui l’aura si fa lauro e si fa l’oro. Era un mondo racchiuso in un nome, anch’esso fuori del tempo e dello spazio. dativo di possesso, certo, che si trasformava in immagine di Venere in sembianza di Camilla, quindi di Laura, come nei versi virgiliani in cui dederat comam diffundere ventis, / nuda genu, nodoque sinus collecta fluentis (Virgilio, Aeneis, I 319-320). Era un gioco di maschere e di simboli, perché guardare oltre è vedere altro. al di fuori di noi vediamo tocchiamo sentiamo: un’ebrezza sottile ci pervade. La vita stessa è un teatro in cui ci si mostra il nostro complemento, in cui ci specchiamo e riflettiamo.

 

 

Ecco la voce che ti entra nel cuore e non se ne va più: parla la tua lingua, vellica il tuo orecchio, sa ciò che tu non sai più e ridà al tutto il senso che sempre hai cercato. La soglia è varcata: la fantasia è realtà, come nel gioco del doppio, nel perturbante freudiano in cui si confondono i piani, in cui s’impara a non accontentarsi mai del trito e del consueto. In questo sta lo scavo continuo, la voglia di guardarsi dentro. Diversamente tutto sarebbe vano, sarebbe solo un gioco delle parti in cui ognuno ripete sempre e solo se stesso.

 

 

© Federico Cinti

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Inconfessabile segreto

 

Fu solo un sogno? Candida di neve

un’ebrezza nell’anima. Sorrisi.

Con te mi ritrovai, nel tempo breve,

ora per ora. Ardui echi di narcisi,

 

soave melodia. Mai più divisi,

indicibile gioia lungo il greve

cammino. Non voragini, non crisi

ha il cuore in festa, ma una pace lieve.

 

Esuli fummo, siamo noi sul greto

tacito. Inesorabile si muove

antico il fiume. Tenue smarrimento

 

misto d’ombra e di luce. Fluire lento,

abbaglio tra realtà già vecchie e nuove,

il nostro inconfessabile segreto.

 

 

In questi giorni tutto sa di nuovo. Non so, è come se me lo sentissi addosso, anche se di per sé viviamo ogni primavera nella sua dimensione di ciclico ritorno. È da sempre così, dacché almeno mi ricordo. Ci si sente rinascere qualche cosa dentro «e piove in petto una dolcezza inquieta» (E. Montale, I limoni, 17), un fremito lontano, perché fuori del tempo. Un brivido, ecco, scuote la terra e l’anima, come dopo lo sciogliersi delle nevi, quando i fiumi ingrossano e debordano dalle rive. In quella distesa candida di neve, ci tengo a confessarlo, ritrovo l’intima essenza di giorni senza età, perché in effetti erano così, di una leggerezza indescrivibile.

Chissà, l’azzurro, il tepore dell’aria, i colori dei profumi tutt’intorno. In ciò si misura quel che si vive una volta sola, senza un prima né un poi. Non vi è un istante uguale all’altro, checché ne dicano i filosofi. Si procede indifferentemente tra l’essere e il non essere. Questo, forse, l’unico senso che so trovare alla distesa dei giorni che si ripetono immobili, senza che «la morte / si sconti /vivendo» (G. Ungaretti, Sono una creatura, 11-13), senza il pianto di niobe tra l’infinito e il nulla. Il resto rischia di perdersi in elucubrazioni senza senso.

 È il flusso dell’eterno scorrere, lungo cui si cammina senza quasi accorgercene. Immagini, certo, visioni ancestrali e ataviche, «quasi d’un fiume che cercasse il mare / inesistente, in un immenso piano: / io ne seguiva il vano sussurrare, / sempre lo stesso, sempre più lontano» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 13-16). Siamo su quella riva a chiederci il perché delle cose, dentro e fuori di noi, mentre non ci accorgiamo di essere parte della corrente che va, nonostante tutto, nonostante la nostra coscienza. Eco di un’eco in noi, tutto qui, nello specchio in cui dovremmo ritrovarci e riconoscerci.

 

 

Eppure, proprio in quello specchio d’acqua riaffiora il volto che non conosciamo, che non afferriamo compiutamente. in quella visione ritorna ciò che noi siamo davvero, l’inconfessabile segreto che ci portiamo dentro. Chissà, la curiosità di sapere cui ci avviciniamo per asintoto. Ci si prende per mano nella nostra ricerca. L’amore guida questo tratto impervio che si percorre per cogliere quell’attimo d’indefinibile felicità. Così rinasce in noi il fiore che ci salva, rinasce in noi la primavera che ci pareva perduta per sempre tra le brume iemali. Dal candore della neve il sorriso di chi sa completare questo infinito anelito a ritornare nell’originaria fusione dell’endiadi. E in quel fiore ci siamo tu e io insieme.

 

 

 

© Federico Cinti

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Vir est qui adest

 

Voragine i ventricoli, tra il nero

infinito dell’essere una lama

rutilante. Le tenebre, il mistero

esalano d’ebrezza. Un grido chiama

 

senza sosta. Non ansia più, non brama

tra gli occhi e il cielo. Lucido il sentiero,

quasi trina di pietre, antica trama:

una certezza, ora, abita il pensiero.

 

In alto i cuori corrono lontano,

al senso della vita. Albeggia appena

dopo il gelo dell’anima. La via

 

era smarrita. Fragile follia

sognare il senso della vita piena

tra il buio opaco. Eppure, non è invano.

 

 

Una bava di luce oltre il silenzio. S’era fermata l’ora, implodendo nel cuore della terra. Poi la brezza leggera, il cielo, il mare a ripercorrere il cammino usato. Da parte a parte il transito tra i ventricoli dimidiati. Fu solo un sogno o un brivido di vita? il senso è dentro e fuori di noi, nello specchio in cui a forza ci ritroviamo dopo lo schianto del dolore. Ed ecco il nulla e poi il nulla del nulla. Non fu invano quel gesto senza tempo, già nell’eterno. Così nel ciclico ritorno tutto si rifà sempre presente alla nostra memoria incredula.

Fu una ricerca di senso dove tutto pareva essere finito, dove il lume della ragione oscillava inquieto tra sé e l’infinito. Nulla è impossibile a chi sa vedere oltre l’abbaglio della propria presunzione. Ipotesi, certo, non da scartare, se non ci si accontenta del mero dato empirico. In questo un viaggio di trasumanazione. Era l’attesa che cercava il compimento e tutto a un tratto scoprì la propria realtà davanti a sé. Non era specchio, non era riflesso, ma si poteva direttamente attingere alle fonti del mistero. Troppo, forse, per essere vero. Eppure, nulla fu più come prima né poteva pretendere di esserlo. Era un filo di luce che tagliava le tenebre.

 

 

 

Ora è l’azzurro intenso della vertigine. Di quella luce resta lo stupore nell’anima. Un palpito tra le palpebre ed «era spirato il nembo del mio male / in un alito. Un muovere di ciglia» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 5-6). E ci si sente all’improvviso «una docile fibra / dell’universo» (G. Ungaretti, I fiumi, 30-31), in un’armonia che travalica il mero dato sensibile. Tutti i pezzi del mosaico ritrovano il loro posto, senza fatica alcuna, e nulla risulta più oscuro. La gelida paura della notte sa adesso del balsamo ebbro della vita.

Una certezza anima la storia: nulla è invano. Vedere o non vedere non importa. È come la poesia, nata in un’occasione per l’universalità del tutto. Preoccuparsi è inutile: ciò che deve essere sarà comunque sia. Volgersi indietro è effimera incertezza. Si è già dove ogni cosa esiste, perché riflette quella luce oltre le tenebre. Siamo specchi a immagine di ciò che ci determina. Diversamente, non possiamo né vogliamo. Tutto si stempera in questa sovrumana realtà, «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII 145).

 

 

 

© Federico Cinti

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Quid est veritas?

 

Quasi spina nell’anima, quel volto

un’ombra oscura prona alla sua sorte.

In un attimo il tempo fu dissolto,

duello della vita con la morte.

 

Erano solitudini contorte

sul silenzio degli occhi ormai sepolto

tra l’inerzia del buio. Oltre le porte

vane del cuore un battito irrisolto.

 

Eternità dell’essere, un sussurro

resta sospeso, l’ultimo sorriso

in cui si svelò il senso. Nel supplizio

 

tremendo un nuovo mondo, un nuovo inizio:

al di là del suo legno, un grumo intriso,

sudore e sangue, un alito d’azzurro.

 

 

Devozione popolare, certo, quella del pettirosso con la macchia di sangue sul petto candido, ricordo e dimensione di un’epoca in cui tutto era simbolo, rappresentava se stesso e contemporaneamente altro. era così, «il pettirosso: dalle siepi s’ode / il suo sottil tintinno come d’oro» (G. Pascoli, Arano, 9-10), capace di un gesto eroico, togliere la spina più grossa dalla fronte incoronata di Cristo per farne sgorgare un flusso di sangue liberatorio. Ecco, allora, il rosso sul niveo candore del petto a perpetua memoria di quell’atto, simile all’usignolo di Oscar Wilde che dà la vita per l’amore vero, l’amore puro, trafiggendosi il cuore con la spina della rosa più bella.

Una trafittura, certo, simile a quella nella carne di Paolo, cui datus est stimulus carnis eius (cfr. 2 Cor 12,7), una spina che fa sanguinare l’anima di dolore. È ciò che si prova dinanzi alla verità senza veli e senza infingimenti, il bisturi che ferendo guarisce. È la domanda delle domande, soprattutto in un tempo di relativismo esasperato come è il nostro: che cos’è la verità? L’incredulo Pilato la rivolge a un re senza scettro e senza dominio, al re dei Giudei. Di lì a poco quel cuore sarebbe stato trapassato nel suo intimo, il velo del tempio si sarebbe squarciato nel mezzo a rivelare il sancta sanctorum, la terra si sarebbe aperta in un tremore a preparare il cuore a una dimensione metafisica, superiore, ultima.

 

 

 

Era la precarietà dell’essere il vero vulnus, la vera colpa, il vero peccato. Ritrovarsi davanti a sé, come in uno specchio, visti come dall’esterno, come veramente si è e non più come ci si rappresenta. Ecco la verità, quella che sconvolge. Il re era nudo sul serio. Su un colle brullo un’esecuzione: tre uomini e il loro supplizio in un silenzio di condanna. Poi il buio, la notte senza limite, il nulla, finché dalla profondità della terra tutto mutò di segno. Alla domanda radicale, quid est veritas?, la risposta, altrettanto, radicale, vir est qui adest, l’uomo che ci sta davanti e la sua croce.

 

 

© Federico Cinti

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Al mio amico Luigi

 

Assorta vacuità, la notte oscura

lampeggia di deliri sovrumani:

urta alla porta un vento di paura

in un attimo e ieri è già domani.

 

Galleggia il tempo, il capo fra le mani

intuisce il senso: sulla terra dura

esile il filo di ricordi vani

sa di vita, di morte, gioia impura.

 

Passa la nave, pullula il frangente

onirico dell’anima, lo scoglio

s’inabissa (o riappare?) all’improvviso.

 

Il varco si dischiude al paradiso:

tutto qui fu e non è. Candido il foglio,

ombra orma della via, ritorna niente.

 

 

mi è venuto così. Avrebbe voluto essere un ritratto, il tuo ritratto. Forse non ti ci rispecchierai, ma di meglio non sono riuscito a fare. Sarà il tempo, aggiungici pure lo spazio. questo ci resta di tante fantasie, come se potessimo conoscere sul serio ciò che è al di fuori di noi. Ma come può essere, se non conosciamo nemmeno che cosa ci sia in noi? Di notte almeno anche i nostri sogni tornano a essere reali. Al di là del sipario il varco della fuga, del senso della finitudine umana. Nel sogno tutto è falso e tutto è vero, inestricabile intersezione di piani che vanno in scena in apparenti contraddizioni d’armonia. In quel momento la bussola impazzita di Montale indica la via. Si chiama libertà di esprimere gli infiniti mondi possibili. Ma dov’è la linea che separa, il confine che divide? Tutto è languore prima e dopo lo spettacolo, per parafrasare maldestramente Ungaretti.

Avrebbe voluto essere il tuo ritratto, Luigi. La vertigine del sogno ti coglie, tutto a un tratto. È una febbre, un bussare improvviso a invisibili porte. Tu stesso dici che le parole sono nere nella loro dimensione più sacrale. Solo così è possibile rappresentare le contraddizioni dell’apollineo, dell’apparente razionalità in cui pensiamo di vivere agire pensare. Solo quando inciampiamo nella nostra ombra, nell’ombra di Dioniso, solo allora, tu lo sai bene, scorgiamo qualche spiraglio di senso. È il bussare del Commendatore, è il «rovaio che a notte urta le porte» (G. Pascoli, I gattici, 11) e scava nelle profondità del buio. Ma tu già conosci, Luigi, il rovello della notte insonne a scandagliare nella voragine del cuore.

 

 

 

In quel momento nasce l’esigenza di scrivere, di lasciare un segno indelebile. Nulla è invano, lo sai bene. me lo ripeto pure io. Nulla è invano in quest’inesausta ricerca. Solitaria, chissà, tra tanti compagni di viaggio che via via si trovano, prima spaesati, poi come a casa. A me, penso d’avertelo confessato, è capitato così. E non solo a teatro, il tuo elemento naturale. Ci si era conosciuti per sbaglio, sempre ammesso che esista o che vada ricercato, come unica via di fuga, di salvezza. Di notte, sì, sempre di notte, quando la luce non disturba i pensieri. Solo in quel momento si ridesta in noi il bisogno di vedere un’altra luce. In quel brancolare nel labirinto un filo tenue di speranza ci riporta all’esterno. È solo il volto in cui non vogliamo specchiarci a rendere tortuoso il nostro percorso. Era d’estate, quando il tepore fa sfumare in una dimensione siderale il giorno.

Scrivere, Luigi, nulla di più. Ti immagino con la penna in mano, davanti a un foglio bianco su cui tracci le orme del tuo essere. È un cerchio che corre all’infinito, ideale spinta alla luce che salva. Tutto sta nel vincere la paura di noi stessi, forse in noi stessi. In questo il tuo teatro si fa esperienza unica e irripetibile, anche quando paiono farneticazioni di un mondo irrisolto. Siamo chiamati a rappresentare, non a risolvere. Mi ci metto anch’io, vedi? Mi hai posto al timone della barca che va quasi senza nocchiere verso un porto che non conosce, ma che troverà. Non so se io abbia compreso tutto, ma non importa, se il viaggio è vita di per sé. Anche la pagina bianca diventa percorso da intraprendere.

 

 

© Federico Cinti

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Orma di cielo

 

Velo inquieto di nuvole, lontana

orma di cielo. Un senso d’abbandono

resta tra i fili e i panni stesi, vana

rimembranza d’un giorno. Ombra di suono,

 

eco di ciò che adesso più non sono.

Indicibile ascesa la profana

beatitudine, vero, eterno dono

atteso in cui ora il senso si risana.

 

Caducità dell’attimo, nel vuoto

il tempo sa di un’ansia mai sopita.

Anche volgersi è inutile: la via

 

ritorta è solo vacua fantasia.

Tu splendi, chiara immagine infinita,

in me, tu etereo volto dell’ignoto.

 

 

non c’è nulla da fare: ce lo si sente addosso. Sì, proprio così, come se cadesse a un certo punto un’orma di cielo. Tra le nuvole uno squarcio d’azzurro. È come il senso delle cose: lo si cerca ogni istante e poi lo si trova nel dettaglio, nell’angolo più remoto, quasi senza volerlo. A me, almeno, capita così. Ritrovai per caso un’immagine simile tra le carte altrui, e vidi «in cielo bianchi lastricati / con macchie azzurre tra le lastre rare» (G. Pascoli, Il miracolo, 2-3). Ecco, il cielo che si fa specchio della terra, connubio senza fine sulla linea dell’orizzonte. Ed è così che ci si ritrova a contemplare la via trascorsa e quella ancora da compiere. Il velo si apre a un tratto ed emerge la verità.

Si capisce di non essere più quelli di prima. Euridice già lo sa che Orfeo non resisterà. Ma volgersi indietro è un atto necessario. Vedere o non vedere non importa: l’acqua resta sempre trasparente, specchio o non specchio che sia. Occorre prenderne coscienza il prima possibile. e aprile è così, il mese forse dedicato ad afrodite, alla ripresa del tutto, perché «diffugere nives, redeunt iam gramina campis / arboribusque comae» (Orazio, carm. IV 1-2): non vi sono più nevi tutt’intorno, rinverdiscono ormai le erbe nei campi e sugli alberi le chiome. Nulla più che la ciclicità del tempo che ci riporta a ciò che eravamo: volgersi indietro diventa inutile. Le lenzuola appese ad asciugare sembrano adesso tanti fili su cui scrivere ciò che non siamo più.

 

 

in quest’epifania di luce chiara, ecco, un volto a dare senso al tutto. Un volto e un nome, certo, un’immagine fuori del tempo in un’epoca senza tempo, in cui l’hic e il nunc coincidono. Gli antichi a priori kantiani s’annullano sulla retta dell’eternità. Nulla è più come prima, nulla sarà più come adesso. Il labirinto procede e si sdipana e di quel filo, «viluppo di memorie» (E. Montale, In limine, 4), sono io che «ne tengo ancora un capo» (E. Montale, La casa dei doganieri, 12). Forse basta così ad attingere alla «carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1). Narciso ritrova se stesso, mentre Euridice non si perde più. Un’eco antichissima richiama il desiderio di fondersi completamente nell’altro, appunto in quel viso di luce chiara tanto amato (o tanto amata?). ancora s’avverte il bisogno e si ripete, come allora e come sempre, «da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» (Catullo, carm. V 7-9). È forse tutto qui il senso di questo scrivere, per dirti solo che vorrei baciarti.

 

 

 

© Federico Cinti

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Ultimo viaggio (omaggio a Giovanni Pascoli)

 

E tutto a un tratto un ultimo sussurro,

poi il nulla. Un velo anticipò la sera,

oltre l’oro e la porpora, d’azzurro.

 

Voli inquieti. Una rondine leggera

brillò nell’aria languida. Dintorno

solo silenzio sulla linea nera.

 

L’occhio sognò. Una lacrima al ritorno

del viaggio. In lontananza una fanciulla

presso il cancello, simile a quel giorno.

 

Fu un infinito palpito. Alla culla

un cantare antichissimo d’oblio.

S’allagò il petto al fremito. Poi il nulla.

 

S’udì di nuovo il lieve mormorio

dei cipressi, l’arcana meraviglia

d’esserci e di non esserci. L’addio

 

ebbe il suono di concava conchiglia.

Tutto fu. Fu poi il nulla. Era vanito

l’azzurro in un muovere di ciglia.

 

Si sciolse l’ansia all’attimo infinito

sulla soglia invisibile, non grido,

non dolore, non pianto. Era sparito

 

il morbo atroce della vita. Il nido

si schiudeva di nuovo in lontananza.

Tutto già fu. Poi il nulla. Lungo il lido

 

del cuore un’indicibile esultanza.

 

 

Era il 6 aprile 1912. In via dell’Osservanza 2, a Bologna, subito fuori Porta san Mamolo, Giovanni Pascoli lasciava la scena di questo mondo. Chissà quante volte l’aveva desiderato, ma forse non avvenne come l’immaginava. Un giorno d’aprile, come questo, così particolare, così silenzioso. La primavera era già iniziata; eppure, piombò a un tratto l’inverno. Nulla è mai come ce lo si aspetta, come ce lo si sogna. Le parole aprono mondi ignoti. Nei versi si sente l’eco lontana di quel travaglio dell’imperfezione. intanto, nel cielo, una rondine nuova si librava nell’azzurro alla ricerca del suo nido. Un segno, forse non altro. la fantasia aiuta a ricostruire quegli attimi indicibili.

 

 

 

Era il sogno, sì, che tante volte esce prepotente dai suoi versi: «Mia madre era al cancello. / Che pianto fu! Quante ore! / Lì, sotto il verde ombrello / della mimosa in fiore!» (G. Pascoli, Casa mia, 1-4). Ritrovarsi, per sempre, di nuovo insieme. Non importa se al di qua o al di là del cancello: tutto si fa possibile in poesia, anche ricostruire quel nido distrutto dalla malvagità umana. Lo avevo imparato già in terza elementare che «ma da quel nido, rondini tardive, / tutti tutti migrammo un giorno nero: / io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi; in cimitero» (G. Pascoli, Romagna, 49-52). Ecco che cosa resta, una tensione all’infinito, al ritorno, al greppo solitario, dove un nido attende chi lo cerca.

 

 

Eppure, avrei voglia di chiederglielo se quel «sempre un villaggio» (G. Pascoli, Romagna, 1) non fosse un omaggio a Leopardi. Forse sorriderebbe. Un sorriso amaro, certo, di quelli che sapeva regalare lui. Già, perché non ho mai compreso fino in fondo il motivo per cui lo senta tanto vicino alla mia sensibilità. Lo sento mio, ecco, come vorrei scrivere io e non sono capace, in quel mondo di nostalgia e malinconia. Vorrei chiedergli perché risuona in me quel verso così immensamente, «dentro il meridïano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Non so, mi ci perdo ogni volta che lo rileggo, che lo ripeto. Ha un che di infinitamente grandioso, che dilaga. Non l’ho mai detto a nessuno, sempre che a qualcuno interessi.

  Pascoli è il poeta della soglia, è l’occhio che guarda, l’orecchio che ascolta. Germoglia in lui l’idea dell’assoluto. Me lo immagino per i nostri portici silenzioso, sempre alla ricerca di un’ombra che gli si svela innanzi. E chissà quel 6 aprile che cosa deve essere stato varcarla, quella soglia, quella linea d’ombra presente, eppure impercettibile ai più. Fa un certo effetto anche solo parlarne. Fu certo, quello, l’ultimo viaggio, simile al suo Ulisse che tornava da Calipso: «e il mare azzurro che l’amò, più oltre / spinse Odisseo, per nove giorni e notti, e lo sospinse all’isola lontana» (G. Pascoli, Calypso, 1-3). Chissà, calipso altro non era, in questo poema conviviale, se non la madre tante volte vista in qualche immagine nebbiosa. E quell’isola, l’isola di Ogigia, altro non era che il nascondimento della conchiglia, fattosi al fondo utero materno in cui tornare ciò che prima non era, nel punto morto dell’Oceano, punto morto del mondo dove tutto si fa possibile, anche la felicità lontana. Fu così che «vide la sua madre al capezzale» e «la guardava senza meraviglia» (G. Pascoli, Ultimo sogno, 7-8). Poi il nulla: «sentivo mia madre… poi nulla… / sul far della sera» (G. Pascoli, La mia sera, 39-40).

 

 

 

© Federico Cinti

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