Addio. Fu il giorno, questo, del saluto.
Mi sentii solo, per la prima volta,
in un silenzio gelido, assoluto.
Oggi è ancora così. Pallido il sole
preme tra i vetri. L’anima sepolta
attende tra le primule e le viole.
Dopo l’addio, papà, non ci scordare.
Restiamo qui ad attendere, a guardare,
esuli in terra, azzurri il cielo, il mare.
Noi siamo ancora in via, da quella domenica di ventiquattro anni fa. Non mi pare nemmeno vero, resistere tanti anni con questa spina nell’anima. È il ricordo di te, spina e redenzione. Appunto, noi restiamo qui a continuare il dialogo interrotto quella mattina, nel bianco di un ospedale. Stava per scoppiare la primavera, un po’ come oggi, immersi in questo aulire di fiori freschi. Il prorompere della vita s’affaccia alla finestra nel sole a tratti pallido, a tratti insistente. Ci perdonerai se siamo nella tristezza. Chissà, forse non dovremmo.
La tua seggiola è sempre lì, che ti aspetta da quel giorno. Nulla o quasi, per il resto, è mutato. Perché, vedi, nulla può cambiare. Siamo sempre noi, come in quella fine inverno così gelida. Avremmo voglia di raccontare ancora tutto quello che ci resta nel cuore. Un azzurro intenso ci travalica. Ti sappiamo in quella lontananza senza fine, grande come il mare, dove s’allaga ogni nostro sentire. Qualcuno avrebbe parlato di naufragio. Ecco, noi ci si sente un po’ così, come naufraghi in quel mare dove attendiamo una mano che ci salvi. È l’esilio, nell’al di qua.
Ti vorrei parlare di tante cose, di ciò che ho nel cuore. Tu l’avresti fatto, senz’altro. Una confidenza in questa luce chiara. Fu così anche per te, credo, all’epoca. Ogni tanto la mamma lo racconta. Una storia che si ripete, che deve ripetersi. Non mancherò di aggiornarti. Il viaggio, lo sai, continua. Tu sei nella stanza a fianco, come già ci ricorda sant’Agostino. È solo un difetto, mio intendiamoci, di percezione. Qualche cosa mi tocca il cuore. Appunto, è quel nostro intenderci nonostante tutto e sempre. mi perdonerai se ogni tanto ti sembro distratto.
Il resto già lo sai. non credo ci sia bisogno che io mi dilunghi troppo. Occorrerebbe divertirsi un po’, come all’epoca. Io continuo, la sera, a mangiare un pezzetto di cioccolata: ho mantenuto quell’insana abitudine che avevamo davanti al divano. Mi rimane quel gusto intenso, forte. Non è tanto, lo so, ma è già qualche cosa. Il viaggio, già te l’ho detto, deve pur continuare in qualche modo. Sul tuo esempio penso di potercela fare. Sappi che prima o poi ti disturberò ancora. Forse non vedi l’ora, ma qui, nel tempo e nello spazio, tutto è tirannico. Eppure, la tua mano tesa la sento. Non voglio lasciarla.
© Federico Cinti
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