Di fine estate – Premio del presidente alla IV edizione del premio «I colori delle parole»

 

Con grande gioia e soddisfazione, e non senza un poco di stupore, una mia lirica, di fine estate, ha ricevuto il premio del presidente al IV Premio Letterario «I colori delle parole», consistente in una coppa e in un diploma di merito. Ringrazio la giuria tutta e in particolare il presidente, la dott.ssa Cinzia Baldazzi, dalle cui mani ho ricevuto l’ambito riconoscimento. Meglio di tante mie divagazioni parlerà per me il testo poetico vincitore, che riporto di seguito.

 

 

Madreperla di nuvole, l’incanto

si sciolse in calde lacrime all’estate

sul punto del non essere. Era il pianto

 

lustrale sulle foglie accartocciate

nel respiro dell’attimo, perplesso

rincorrersi di mille antiche fate.

 

Ebbra la soglia, un palpito sommesso

la carezza tenace in cui s’imbeve

il cuore oltre ogni vincolo, ogni eccesso.

 

Fu un profumo dolcissimo, una neve

posata su ogni dove, fu l’essenza

fuori del tempo, il tuo sospiro lieve,

 

il mio sospiro, un brivido d’assenza

in cui smarrirsi per un sogno insano

e ritrovarsi poi alla tua presenza.

 

Così mi sentii prendere per mano

lungo la via. Tra il pallido vapore

la certezza che nulla era più invano.

 

Sogno di quasi autunno, tra il torpore

dei giorni, in cui la palpebra del cielo

caduca insegue il correre delle ore.

 

Una spada di luce squarciò il velo

tetro di nubi, zampillò un sussurro

tiepido e rise un fiore sullo stelo

 

 

Era un giorno di pioggia, d’inizio settembre: il cielo di color madreperla si sciolse a un certo punto in calde lacrime di pioggia. Ritrovai quell’«incartocciarsi delle foglie / riarse» di cui canta il buon Montale (Spesso il male di vivere ho incontrato, 3-4), nell’incantesimo shakespeariano delle fate di Titania nella foresta onirica dell’amore. Si era sulle soglie del bosco, su cui il vate chiedeva a Ermione in procinto di metamorfosi di tacere, perché non udiva «parole / che dici / umane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-4). E ritrovai il candore d’un profumo simile a neve, in un dolcissimo sospirare di donna. Fu un sogno in cui mi smarrii e in cui mi ritrovai. Ma qualcuno mi prese per mano e i nostri ombrelli si fusero per sempre assieme in un abbraccio, simile a quello di Filemone e Bauci. Il resto fu poesia, solo poesia: la donna a cui la dedico lo sa.

 

 

© Federico Cinti

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Sul’Attersee – Sisi, «An den Attersee»

 

Ancora e ancora, azzurrità delle onde,

tu non fai che legarmi alla tua spiaggia,

io lo conosco, lo conosco bene

lo zaffiro traslucido delle acque.

 

Simile all’Adriatico, che è azzurro,

il colore più bello t’ingioiella,

ad alzare lo sguardo verso il cielo,

ad abbassarlo, a me pare lo stesso.

 

E ancora svegli in me lo struggimento

per il mio amato, il mio diletto mare,

vorrei migrare via, simile ai cigni,

da queste rocce, via da queste cime.

 

Ma trattienilo tu, impetuoso cuore,

lo strazio atroce dello struggimento,

aspetta che l’autunno a pennellate

stenda rossi vessilli in boschi e valli.

 

E dillo tu all’azzurrità delle onde

nel separarsi un’altra volta: «Addio»,

salutameli tutti questi luoghi

amati intorno all’Attersee azzurro.

 

 

 

Coaguli di vivido colore, nei giorni d’un autunno che sapeva d’estate e di rimpianto, tanto simile a quello che si vive adesso tra le foglie accartocciate. L’azzurro intenso del mare, lo scintillare del verde che a un tratto si fa rosso, vessillo di un tempo in perenne metamorfosi. volgersi indietro forse non è lecito, in quello struggimento che diviene desiderio incolmabile di un desiderio irrealizzabile. Sulle alpi, tra i laghi austriaci, nel Salzkammergut, mentre i cigni vanno in cerca di luoghi più adatti a svernare, il cuore di chi scrive e di chi legge raggela al vento pallido d’una stagione che ha mutato d’abito. Un volo eterno della fantasia in una dimensione in cui nulla è più tangibile o raggiungibile, lassù, lassù, tra «due sole / nuvole tenui, rose, / due bianche spennellate // per tutto il ciel turchino» (G. Pascoli, Patria, 9-12). È il sogno dell’estate a ritornare prepotente.

 

 

 

Vagava sola, dimentica di tutto e da tutti dimenticata, l’imperatrice Elisabetta, alla ricerca d’un senso. E il paesaggio si tramuta nello specchio della sua anima, d’ogni anima che la legge o la rilegge, pure in traduzione, come nel caso di questo mio testo, in cui al canto dell’autrice s’aggiunge e s’adatta il controcanto di chi rende un modo d’essere in una sintonia divenuta sintonia. La poesia modula canti di giorni senza fine, di ricordi traslucidi nel solare. Su tutto è un velo impalpabile. Le parole, le immagini, i pensieri sono come «le foglie levi» persesi nel vento in cui «si perdea la sentenza di sibilla» (Par. XXXIII 65-66). Ecco la voce che non ha confini, eco di un’eco oltre i secoli.

Era il non omnis moriar d’oraziana memoria (carm. III 30, 6) a risuonare nei colori dell’anima. Ci si adagia in una contemplazione infinita, in una sospensione tra cielo e terra. ‘autunno sogna ciò che non c’è più e che non c’è ancora. nei versi d’una traduzione si rincorrono significanti e significati separati e complementari. Un filo ci conduce nel labirinto letterario. Nulla si dà mai per caso: tutto riemerge, a un tratto, come un fiume carsico all’aria diafana di un giorno senza età. ed Elisabetta è ancora qui, a parlarci di sé, del suo mondo interiore, delle sue malinconie. Forse è vero che nessuno mai l’ha conosciuta come possiamo conoscerla noi nello specchio delle sue carte, potere eternatore di un linguaggio universale nascostosi tra i ventricoli del cuore.

 

 

 

Per i cultori della lingua tedesca e, come è giusto che sia, per tutti coloro che desiderano ascoltare il suadente suono dell’originale, riporto il testo di Sisi, intitolato An den Attersee:

 

Immer wieder, blaue Wellen,

Lockt ihr mich an euren Strand,

Scheinen doch die saphirhellen

Wasser mir so wohlbekannt.

 

Wie die Adria, die blaue,

Schmückt die schönste Farbe euch,

Ob ich auf zum Himmel schaue,

Ob hinab, es dünkt mir gleich.

 

Und von neuem weckt das Sehnen

Ihr nach der geliebten See,

Möchte zieh’n, gleich Wanderschwänen,

Weit von dieser Felsenhöh’.

 

Züg’le noch, du ungestümes

Herz, die wilde Sehnsuchtsqual,

Warte, bis mit roten Bannern

Streift der Herbst durch Wald und Thal!

 

Sage dann den blauen Wellen

Scheidend noch einmal «ade»,

Grüssend all’ die lieben Stellen

An dem blauen Attersee.

 

 

 

© Federico Cinti

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Martina e Domenico oggi sposi

 

Meraviglia, nell’anima l’arcana

armonia di un intridersi perenne,

ragione e cuore, immensità lontana.

 

Tra il tempo e l’assoluto tutto avvenne

in un attimo etereo, eterno rito

nell’essere, la formula solenne.

 

Al cielo il senso, sul cammino trito

era la volontà, grazia di sposa

dolce nel volto, riso di marito.

 

Ora e per sempre, nell’azzurro il rosa

madreperla del cielo in agonia

esitò appena, un’ansia luminosa.

 

Nuotò nel lago fulgido la via

infinita, al discrimine del monte

canto di stelle, rugiadosa scia.

 

Ombra d’un’eco, al mormorio d’un fonte

occulto si svelò l’arduo segreto,

gioia pura oltre l’ultimo orizzonte.

 

Già fu ciò che sarà: nell’occhio lieto

il sorridere, immagine sospesa,

spande il suo aulire fattosi consueto.

 

Passò il giorno, evaporò l’attesa,

orma d’un asintotico languore

sulla felicità che si palesa

 

in sé, nel realizzarsi dell’amore.

 

 

Un matrimonio. Avevo confermato la mia presenza, nonostante la flagrantis atrox hora Caniculae (Orazio, carm. III 13, 9): non se ne parlava proprio di mancare alle nozze di Domenico, un mio studente. Anzi, meglio: un mio ex-studente, uno di quelli della prima ora, «quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono» (Rvf I 4). Solo lui, del resto, avrebbe potuto sposarsi sabato 30 luglio. Avevo deciso d’andarci, anche perché sarebbe passato a prendermi un suo compagno, Leo, il più grande tanghero di Bologna (se tanghero sia sdrucciolo o piano, lo lascio decidere a chi lo conosce). E così è stato, salvo aver sbagliato clamorosamente l’orario, naturalmente, così da arrivare a cerimonia già iniziata. Da poco, per fortuna, anche se l’abbiamo scoperto solo dopo, entrando nell’Abbazia di Zola Predosa.

nessuno se n’era accorto o almeno credo. La ricerca di qualche sedia sul fondo aveva generato un po’ di trambusto, ma tutto sommato era normale in quelle circostanze. Qualche commento, a bassa voce, mi è pure sfuggito. Non avrei dovuto, lo so, ma il padre domenicano che officiava, non so perché, aveva deciso di costruire due acrostici in latino sul nome dei nubendi, sbagliando clamorosamente gli accenti. Leo rideva come pochi alle mie rimostranze: sosteneva di sentirsi in un film, cosa che in parte era anche vera. Mi attendevo perle teologiche, che pure ci sono state nell’esegesi dei passi biblici, ma il resto… insomma, il resto era surreale. La ragazza di Leo ci intimava di fare piano, ma proprio non era possibile. so che davanti, nelle prime file, hanno assistito a un’altra cerimonia, ma anche la nostra ha avuto lo stigma dell’unicità. A ogni modo, al momento del fatidico «sì» mi sono veramente commosso. E non io soltanto. Davanti a me brillava più del sole «quell’aurora che dicono: l’Amore» (G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità, V 24).

 

 

 

Dopo la benedizione solenne siamo usciti alla ricerca di un filo d’aria. Un miraggio, certo. Alla cerimonia c’erano pure Marcello e Ionut, altri due miei studenti d’allora. A quel punto li ho ritrovati sul sagrato, come noi nell’unico angolo all’ombra. mi è parso che il tempo non fosse passato: le voci, i ricordi, le chiacchiere mi hanno riportato a un tempo fuori del tempo, come se nulla fosse cambiato. In un certo senso era proprio così. Eravamo tornati da un lungo viaggio, con il riso in mano da buttare su Dodo, mentre usciva tra una folla festante per lui e per Martina. Anch’io ho tirato, ma chissà chi ho preso nella confusione. Poi, ci siamo stretti per un saluto e gli auguri di rito. Era visibilmente emozionato e noi con lui.

Poi la fuga a Zappolino, per il rinfresco. Naturalmente Leo ha perso la fila, da manuale. Siamo arrivati lo stesso, intendiamoci, e forse pure prima di molti altri, ma per lui il copione è sempre stato un semplice canovaccio da interpretare a suo gusto. E dire che sarebbe pure un attore di vaglia. Quando abbiamo fatto assieme le Lecturae dantis, temporibus illis, nel 2015, aveva riscosso un notevole successo. Eravamo i Due pazzi all’Inferno. Sarebbe da rifare, prima o poi, ora che è tutto mutato, pure io, anzi soprattutto io. Ma Leo ha ben altri progetti, giustamente. Me ne parlava un po’, seduto davanti a uno stuolo di antipasti. Marcello e Ionut lo ascoltavano. Certo, pure loro avevano parecchio da raccontare, il primo ingegnere e il secondo chirurgo. Ma intanto il tramonto ammantava tutto d’una luce particolare, «come… in un roseo lago» (G. Pascoli, L’asino, I 12). Su quei colli tutto sapeva già d’altro, ora che i due promessi erano ormai marito e moglie.

 

 

 

La cena si è protratta a lungo. Il nostro tavolo mi pareva come di famiglia. Qualcuno ha saltato il primo, altri volevano saltare il secondo. Marcello mangiava di gusto la grigliata e incitava Leo ad assaggiare almeno la costata. In effetti, ne ha poi preso tre volte di fila. E ne avrebbe preso anche di più, se non lo avesse allettato la torta nuziale gelato cioccolata e pistacchio. Noi eravamo lì, «dentro la notte fulgida del cielo» (G. Pascoli, Alexandros, I 10). Il caldo aveva lasciato il posto impercettibilmente a una frescura molto piacevole. Nulla era lasciato al caso. Solo un po’ di malinconia faceva in me capolino, a quando a quando. È la musica che mi estranea dal resto, mi isola, come se realmente io fossi altrove. Aspettavamo il tango, per l’esibizione, ma niente. Le chiacchiere sono proseguite fino a un orario indecente, almeno per me, che quasi crollavo dal sonno. Domenico aveva perso la voce, ma non la vitalità: era l’uomo più felice del mondo. Anche Martina, che pure conoscevo giocoforza meno, mi pareva persona di una dolcezza volitiva. Pensavo al matrimonio. Spero anch’io in questo giorno, prima o poi, a quelle fedi che si giurano eterno amore.

 

 

 

 

 

 

© Federico Cinti

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Nel giorno del mio onomastico

 

Fragile la vertigine, sul viso

eterno il tempo assorto sul sentiero

dell’attimo fuggente in un sorriso.

 

Eco lontana, l’ansia del mistero

rade lo spazio, sibilo di vento

invisibile all’alito leggero.

 

Caducità impalpabile, il momento

ora tenue si compie sulla via

carsica, orma dopo orma, a lume spento.

 

In bilico un’azzurra nostalgia

nell’anima, ricordo di quel giorno,

tu aulente sospirare d’armonia,

 

io in attesa dell’ultimo ritorno.

 

 

 

Ha ragione il mio amico Paolo. Stamattina gli ho suggerito che era il mio onomastico e, stupito come solo lui sa essere, mi ha chiesto: «Ah, è san Cinti?». Non ho potuto che convenire con lui. Anche perché ormai si è fatto appuntamento topico questo famoso 18 luglio. Ho iniziato quasi per gioco, qualche anno fa, a ricordarlo agli amici. Poi, a poco a poco, adesso sono gli altri a fermarmi e a farmi gli auguri. Fa piacere, intendiamoci. Fa piacere che si ricordino di te anche nel periodo torrido della «Canicola» che «stampa sopra uno scalcinato muro» la loro ombra scura (E. Montale, Non chiederci la parola, 7-8). Mi pare una sorta di epifanica rivelazione nel cuore dell’estate.

Tutto è poesia, non è certo necessario ripeterlo ogni volta. Si coglie nell’aria, negli occhi delle persone che ci circondano, ignari compagni di viaggio. E chi non la coglie, beh… pazienza: vive lo stesso nell’incoscienza dei giorni e delle occasioni. La linea di demarcazione è sottile, impercettibile. Chissà, forse è proprio quella la quint’essenza di cui parlavano prima di scoprire che gli elementi erano ben più di quattro. Qualcuno ci crede ancora, ma è giusto così. Ho conosciuto pure chi, ridendo, sosteneva che gliela raccontavano che la Terra è sferica, al pari della signorina più famosa della letteratura cui «han detto che la terra è tonda, / ma lei non crede» (G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità, V 21-22).

Nel giorno del mio onomastico non ho poi fatto cose straordinarie, come avrei voluto. In un lucido lunedì di metà luglio tutto si compie, come in un rito atavico, come in un ennesimo, ultimo ritorno. Credo sia normale non pretendere altro che avvenga quanto deve avvenire. Agli altri li lasciamo gli sbagli di natura. Che, lo sappiamo, rendono il tutto così particolare, ma solo perché inattesi, inaspettati. La ricerca del veggente che cerca in ogni modo la sregolatezza di tutti i sensi mi pare fuori luogo, se «l’impresa eccezionale / è essere normale» (L. Dalla, disperato erotico stomp). Anch’io ne sono convinto. Così è andato il mio onomastico. O, meglio, dovrei dire che sta andando: «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20).

Qualcuno manca sempre all’appello di chi vorresti ti facesse gli auguri, ti pensasse un po’, e non lo fa mai. va bene: ne prendiamo serenamente atto. In fondo, il senso finisce per trascenderci. Mi farò vivo io, in qualche modo. Comunicare è anche questo, mettere appunto in comune quel che si ha con chi si desidera. Il mio santo ha testimoniato la verità. Niente di più. La vita stessa significa attestare la volontà d’esistere, ma non come l’intendeva il famoso Arturo che qui non dico. Si va al di là, perché nella fusione del tutto sta l’unità, perché «nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna» (Par. XXXIII 85-87). Altroché divagazioni filosofiche sull’inconoscibile: «la parola che squadri da ogni lato» esiste eccome, se volessimo ascoltarla. I poeti, in fondo, sono pure un po’ questo, come i santi. Ecco, aveva ragione stamattina Paolo e lo ripeto col sorriso: oggi è san Cinti.  

 

 

 

© Federico Cinti

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Orma di cielo

 

Velo inquieto di nuvole, lontana

orma di cielo. Un senso d’abbandono

resta tra i fili e i panni stesi, vana

rimembranza d’un giorno. Ombra di suono,

 

eco di ciò che adesso più non sono.

Indicibile ascesa la profana

beatitudine, vero, eterno dono

atteso in cui ora il senso si risana.

 

Caducità dell’attimo, nel vuoto

il tempo sa di un’ansia mai sopita.

Anche volgersi è inutile: la via

 

ritorta è solo vacua fantasia.

Tu splendi, chiara immagine infinita,

in me, tu etereo volto dell’ignoto.

 

 

non c’è nulla da fare: ce lo si sente addosso. Sì, proprio così, come se cadesse a un certo punto un’orma di cielo. Tra le nuvole uno squarcio d’azzurro. È come il senso delle cose: lo si cerca ogni istante e poi lo si trova nel dettaglio, nell’angolo più remoto, quasi senza volerlo. A me, almeno, capita così. Ritrovai per caso un’immagine simile tra le carte altrui, e vidi «in cielo bianchi lastricati / con macchie azzurre tra le lastre rare» (G. Pascoli, Il miracolo, 2-3). Ecco, il cielo che si fa specchio della terra, connubio senza fine sulla linea dell’orizzonte. Ed è così che ci si ritrova a contemplare la via trascorsa e quella ancora da compiere. Il velo si apre a un tratto ed emerge la verità.

Si capisce di non essere più quelli di prima. Euridice già lo sa che Orfeo non resisterà. Ma volgersi indietro è un atto necessario. Vedere o non vedere non importa: l’acqua resta sempre trasparente, specchio o non specchio che sia. Occorre prenderne coscienza il prima possibile. e aprile è così, il mese forse dedicato ad afrodite, alla ripresa del tutto, perché «diffugere nives, redeunt iam gramina campis / arboribusque comae» (Orazio, carm. IV 1-2): non vi sono più nevi tutt’intorno, rinverdiscono ormai le erbe nei campi e sugli alberi le chiome. Nulla più che la ciclicità del tempo che ci riporta a ciò che eravamo: volgersi indietro diventa inutile. Le lenzuola appese ad asciugare sembrano adesso tanti fili su cui scrivere ciò che non siamo più.

 

 

in quest’epifania di luce chiara, ecco, un volto a dare senso al tutto. Un volto e un nome, certo, un’immagine fuori del tempo in un’epoca senza tempo, in cui l’hic e il nunc coincidono. Gli antichi a priori kantiani s’annullano sulla retta dell’eternità. Nulla è più come prima, nulla sarà più come adesso. Il labirinto procede e si sdipana e di quel filo, «viluppo di memorie» (E. Montale, In limine, 4), sono io che «ne tengo ancora un capo» (E. Montale, La casa dei doganieri, 12). Forse basta così ad attingere alla «carrucola del pozzo» (E. Montale, Cigola la carrucola del pozzo, 1). Narciso ritrova se stesso, mentre Euridice non si perde più. Un’eco antichissima richiama il desiderio di fondersi completamente nell’altro, appunto in quel viso di luce chiara tanto amato (o tanto amata?). ancora s’avverte il bisogno e si ripete, come allora e come sempre, «da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum, / deinde usque altera mille, deinde centum» (Catullo, carm. V 7-9). È forse tutto qui il senso di questo scrivere, per dirti solo che vorrei baciarti.

 

 

 

© Federico Cinti

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Un volo di farfalla

 

Vertigine indicibile il tuo volto

onnipresente. Lungo il mio sentiero

ride il tuo riso, voce di mistero

ritrovata nell’anima. L’ascolto,

 

ebbro di un non so che, porto sepolto

in me. Vidi, non vidi, ombra di un nero

silente. Apparve, sparve, orma del vero,

palpebra aperta, chiusa, occhio dissolto.

 

Ottunde i sensi l’ardua linea gialla

su cui corre l’ignoto. Luce chiara,

avara tra le nuvole. Poesia

 

rinata tra le dita, fantasia

tutta nuova. Più nulla ci separa.

In lontananza un volo di farfalla.

 

 

a un tratto mi profondai in quella luce così intensa «che dietro la memoria non può ire» (Par. I 9), quella stessa luce «che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo» (Par. XXXIII 96), in cui la soverchiante luminosità si trasforma in incapacità di vedere, come «andando nel sole che abbaglia» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 13). E come nell’altissima luce tutto diventa buio, per prodigio ineffabile, l’ombra divenne sorprendente illuminazione. Si aprì il mondo nel suo lato più recondito, in quel lago del cuore in cui si tuffa «il poeta / e poi torna alla luce con i suoi canti» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 1-2). Eppure, non era poesia: era la vita, quella vera. Sanguinava il «cuor della terra / trafitto da un raggio di sole» (S. Quasimodo, Ed è subito sera, 1-2), simile a quello «che menò cristo a dire ‘Elì’ / quando ne liberò con la sua vena» (Purg. XXIII 74-75).

Fu un lampo, come un fulmine nel nero della notte. Tutto «apparì sparì d’un tratto» (G. Pascoli, il lampo, 5), davanti all’occhio aperto ad attingere il senso ultimo dell’essere. Nulla più fu come prima: mi sentivo passato al di là della linea che separa il reale dalla visione, il tangibile dall’immagine che se ne ha, chissà come, chissà dove. era gialla, la linea, come l’oro che usciva dal crogiuolo. S’aprì il sipario e mi ritrovai sulla scena, contemporaneamente io e chi un altro aveva pensato. Era la soglia tra l’essere e la sua narrazione. Poesia, certo, e vita, in un continuo scambio. Fu nostalgia, fu tornare a quel cupo ritrovato finalmente e mai più abbandonato. Ed eri lì a parlarmi, circonfusa della tua grazia naturale. Eri voce e profumo, eri volto e luce chiara.

 

 

 

Non potei più essere più quello di prima. Riecheggiò in me l’antica domanda radicale: «Non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla, / che vola a la giustizia sanza schermi?» (Purg. X 124-126). Ecco, mi liberasti da quel vuoto simulacro che ero nel labirinto senza alcuna via d’uscita in cui vaghiamo, talvolta, senza nemmeno accorgercene. Fu una rivelazione, un nuovo inizio. Forse non te ne sei nemmeno accorta, luce entrata in me quella mattina e mai più uscita. Fu come se «e terra e cielo si mostrò qual era» (G. Pascoli, Il lampo, 1), in un eterno connubio, in una fusione indescrivibile per verba. Rinacqui al mondo, anima mia, mio tutto e «tremò uno stelo sotto una farfalla» (G. Pascoli, Solitudine, III 24). Non t’abbandonerò mai più, ora che ti ho trovata e ti ho conosciuta.

 

 

 

© Federico Cinti

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Confessione

 

Tutto era nulla. A un tratto azzurro un grido:

il senso, ora svelato all’improvviso,

aveva la tua voce, il tuo sorriso.

Mi ritrovai. Dolcissima, sul lido,

 

oasi di pace chiara, antico nido

la tua presenza eterea. Nel tuo viso

ombre di sogno, eterno paradiso,

sapevano di gioia. A te m’affido.

 

A te si schiuse l’anima, rinacque

il cuore. Tra le tenebre il respiro

breve del tempo diventò infinito.

 

Eri lì. Toccai il cielo con un dito.

Non ti lascerò più, lieve sospiro,

estasi d’un naufragio in auree acque.

 

 

il tutto e il nulla, fusione d’inizio e fine, mi stringono e costringono nella loro circolarità. Intorno tutto ruota sull’inconsistenza immateriale del punto sull’infinito spazio del piano. È lo stesso che pieno e vuoto. L’illusione si veste d’azzurra lontananza, grido che squarcia il silenzio in cui talvolta si rischia di cadere. Eppure, a un tratto, ci si ritrova, ci si trova di nuovo, anche noi «per una selva oscura» (Inf. I 2). Ritrovarsi così, nel buio, non nella luce chiara, miracoli e contraddizioni di ciò che ci circonda, appunto, in una ciclicità che è la cifra del nostro essere nel tempo. Forse anche nello spazio, in quel piano determinato dal punto in cui ci si trova e ci si ritrova. Veramente le parole sono nere, buie. E poi quel buio e quel nero divengono luce d’incredibile bellezza. Si fanno voce, si fanno riso, si fanno realtà tangibile e appassionante.

In quell’azzurro, «interminato / spazio» dove «il naufragar m’è dolce» in quanto «mare» (G. Leopardi, L’infinito, 4-5 e 15), ritrovai le «chiare, fresche et dolci acque» (Rvf CXXVI 1) su cui «scintilla, / in testo di scaglia / come l’antica / lorica» (G. d’Annunzio, L’onda, 2-5) il lampo d’una vertigine. Nulla più fu come prima. Tutto trasfigurò se stesso in una soavità chiara, limpida, quasi fuori del tempo. Era possibile, allora, incontrare l’assoluto? Dentro e fuori di me, certo, come vedendomi dall’esterno, con occhi altrui. Fu una gioia immensa, una grazia cercata e insperata. Era un porto tranquillo, voce di madreperla che mi chiamava a un altrove, tuttavia presente e immanente, perché «il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 20). Era sogno e realtà insieme, dolcezza che distilla, profezia di Sibilla che s’avverava su quell’onda.

 

 

 

Fu così che tutto mutò in me, che io mutai nel tutto. In alto, in alto, in un lontano cielo, mi sentivo librare e liberare. Il mio dito toccò l’immensa cupola celeste. Già Orazio mi aveva preceduto colassù, cantando «sublimi feriam sidera vertice» (carm. I 1, 36), nella più vasta felicità possibile, tra la poesia dei numi e delle Muse. E così cominciò la rincorsa per ritrovare quel primo istante, quella leggerezza senza fine del volo verso le stelle. «Mi ritrovai per una selva» chiara, ti ritrovai nel vortice delle ore, punto fermo dell’eterno fluire. Anch’io rimasi «col trasognato viso di chi sogna» (G. Gozzano, Un’altra risorta, 16) davanti a quel miracolo d’eterea leggerezza. E fu così che il tutto che era nulla divenne una pienezza senza fine.

 

 

 

© Federico Cinti

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Equinozio

 

Nell’anima lo specchio dell’azzurro,

lieve sussurro d’aria, eterea brezza,

dolce carezza eterna nel ritorno

nuovo nel giorno.

 

S’allaga il giorno a un tratto d’esultanza,

luce di danza chiara tra le foglie,

limpide soglie oltre le rosee dita,

sogno di vita.

 

Sogno, realtà di vita, meraviglia,

aurea conchiglia in cui risuona il mondo

nel più profondo, in cui rinasce il fiore

vago d’amore.

 

Senso ultimo, l’amore, occhio di cielo,

dissolve il gelo dell’inverno immoto,

ricolma il vuoto, inanità dolente

di cuore e mente.

 

Mente e cuore, fusione d’infinito,

antico mito, per cui Orfeo felice

vede Euridice al soffio d’un sussurro

tenue d’azzurro.

 

 

Eppure, il vecchio Orazio, lo stesso che diceva al suo amico albio Tibullo che, quando avesse voluto ridere, avrebbe semplicemente dovuto andare a trovarlo, lui che era un ben pasciuto porco dalla pelle assai lucida e curata del gregge di Epicuro (Epistulae, I, 4, 15-16), amava i paesaggi invernali, algidi, rappresi dal gelido cristallo della neve. Anch’io non disdegno l’inverno, anche se il sorriso della primavera riaccende a speranze del tutto mai sopite. Se lo chiede anche il pastore errante o, meglio, lo chiede alla luna, silente pellegrina, «a qual suo dolce amore / rida la primavera» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 73-74), perché in effetti è così, ci si sente meglio, rigenerati, la stessa rigenerazione dell’«Aeneadum Genetrix, hominum divomque voluptas» (T. Lucrezio Caro, De rerum natura, I 1).

insomma, «giunt’è la primavera, e festosetti / la salutan gli augei con lieto canto» (A. Vivaldi, La primavera, 1-2) e ci si sente rinascere. Io almeno mi sento rinascere, nell’aria chiara e tiepida. È come uno zampillo di luce e di gioia fuse insieme e «finite in un rivo canoro» (G. Pascoli, La mia sera, 18). Non so, la primavera ce la si sente addosso e nel cuore. Tutto cambia, come se si fosse varcata un’impercettibile soglia. Psicologico, certo, il senso che se ne ha e se ne trae, ma così dolce e lieto. È come se la poesia si facesse colore, odore, sapore. Si tocca, si sente, si ascolta in modo nuovo, diverso, come quando ci s’innamora e tutto assume un abito rinnovato. Un flusso vitale, ecco. E l’inverno è solo un ricordo, algido sì, ma soltanto un ricordo.

 

 

In qualche modo si era pure festeggiato, stamane, per un compleanno. Una torta verde, al pistacchio, anche se di pistacchio sembrava esserci solo il colore. Chissà, quel verde presagiva già la primavera, oggi che è il compleanno della musica, oggi che è il compleanno di J.S. Bach. Mi adagio a quel suono, racchiuso in conchiglia, dentro i nostri ventricoli del cuore. Pulsa come linfa vitale una musica arcana, lontana. In tal senso, in questo giorno così denso di significato, mi pare di scorgere Orfeo che esce dall’Ade assieme alla sua Euridice, finalmente felice. Era sceso nelle viscere della terra, nell’intimo del suo cuore. Euridice era lì ad attenderlo, in un diafano candore d’asfodelo. Lo attendeva, forse senza saperlo, e la sua poesia l’ha salvata dalla perdizione eterna. Il mito che ritrova vita in una luce nuova, perché tutto riprenda a essere come già è stato, in un ciclico ritorno. Anche Proserpina si commuove all’amore che salva e rigenera. Ecco perché mi sento anch’io Orfeo e salverò la mia Euridice.

 

 

 

© Federico Cinti

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Favola di Amore e Psiche

 

Di quel momento fragile mi resta

il tuo sorriso. Il tempo si è fermato

a quel giorno indicibile. Fu festa,

miracolo nell’anima insperato.

 

Ora è in me la vertigine. Il passato

restava muta immagine molesta.

Emozione d’un attimo provato

Eternamente. In me fu la tempesta.

 

Poi il cuore rifiorì di gioia rara

sulla soglia dell’essere. Oltre il velo

invisibile un palpito d’azzurro.

 

Chiuso nella conchiglia il tuo sussurro

ha il vero senso limpido del cielo,

esilio in terra, dolce luce chiara.

 

 

In uno specchio mi ritrovo ancora a comprendere chi sono e chi non sono. È la bella fabella (Apuleio, Metam. VI 25) in cui si racconta il viaggio iniziatico di un’anima. Ha nome, certo, è figlia e sposa. Si chiama Psiche. Anima, appunto. A un certo punto trova sulla via ciò che più di tutto le corrisponde. Trova in sostanza la sua completezza, parte di un tutto scisso per invidia degli dèi. Anche a me è capitato così, non c’è che dire: è successo come a tutti, prima o poi, nella vita. niente di nuovo; eppure, eternamente unico. Tutto mutò in un attimo senza fine. tempo e spazio s’annullarono nella dolce luce chiara.

Una vertigine mi prese, ecco tutto. Avvertii in me la levità del fanciullo che fluttuando confessava a tutti coloro che incontrava: «Oh! Voi non siete il bosco, che s’afferra / con le radici, e non si getta in aria / se d’altrettanto non va su, sotterra!» (G. Pascoli, La vertigine, I 7-9). Uno stato di grazia singolare iniziò a mostrarmi le cose sotto una diversa luce, cambiando in me il modo s’ascoltare e percepire l’universo fuori e dentro di me. Anche i miei piccoli versi presero vita, vera vita in quella tenerezza che completa l’essere fino a trasfigurarlo. Era un candore, lungo quella soglia su cui mi muovevo ormai spinto dalla ricerca di non sapevo bene che cosa. In quel «non so che» trovai la giustificazione al mio travaglio interiore. Era questo, forse, come nel mito, il desiderio d’Amore che la bella Psiche vagheggiava ogni giorno, ogni notte, ogni istante.

 

 

 

Rinacque in me, come un fiore dalla roccia, il senso delle cose, il senso vero, quello che o si prova o non esiste. Molti vagano alla ricerca di ciò che non hanno, senza sapere che tutto è già scritto in loro, nelle eterne pagine di chi ci ha preceduto. È la voce della poesia a guidarci sul sentiero che porta all’assoluto, all’infinito. Un volto luminoso, certo, una voce dolcissima ci attrae. La s’incontra, presto o tardi, e non la s’abbandona più, «come in conchiglia murmure di mare» (G. Pascoli, Alexandros, IV 36). Così rivissi il mito, rivisse in me la bella fabella che narrava di un tempo fuori del tempo. Nulla fu invano. Attendo ancora sulla soglia immota il giorno in cui quest’anima, l’antica Psiche, potrà congiungersi per sempre con Amore. Sarà un giorno di festa senza fine. la mano è tesa, aperta a ricevere quella così amata. La poesia, come una corona, cingerà il capo della principessa. Una corona è pronta già nelle mie mani, dono estremo di questo altissimo sentire che mi ridonò la vita.

 

 

 

© Federico Cinti

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Dal primo giorno

 

Sorrisi. Il giorno naufragò all’incanto,

eternità dell’attimo sepolto

in quella sospensione. M’eri accanto:

tutto vanì alla luce del tuo volto.

 

Ultima linea, l’ansia dell’ascolto,

lontananza dell’anima in un pianto

antico di un piacere mai risolto.

Mareggiò il cuore, schianto dopo schianto.

 

Infinità dell’essere sul ciglio

ancestrale del tempo e dello spazio

la voce chiara tesa all’assoluto.

 

Urgenza d’una soglia, d’un saluto,

chiamò, mi richiamò, di te mai sazio.

Eri lì, rosa rossa, bianco giglio.

 

 

Non so, mi capitò proprio così, senza volerlo certo, senza cercarlo. Nelle situazioni ci si trova, tutto qui. Penso lo sappia bene pure tu. Non si è sempre nello stesso stato d’animo; eppure, a un tratto il velo si squarciò nel mezzo e m’apparve il tesoro prima nascosto. Impossibile prevederlo. Nemmeno tu, credo, lo immaginavi. Un tuffo in un mare inaccesso, immensità non più così lontana. Voci e colori si fusero insieme, inscindibile realtà ormai nel ricordo di quell’attimo. Eternità dell’attimo, «punto / a cui tutti li tempi son presenti» (Par. XVII 17-18). Trovarti fu un dono insperato, l’improvviso sbocciare di una rosa.

 

Il cuore poi «rimareggiò rinfranto» (G. Pascoli, Il tuono, 5), scosso da un turbamento luminoso. Era la voce chiara, la tua voce chiara, di madreperla. La visualizzai così, tra il tumulto dell’anima. Di qualche cosa si parlò, forse di quella «felicità nuova», data dall’indistinto «non so che» (G. Pascoli, Il gelsomino notturno, 24) che mi s’agitava dentro. Non te ne accorgesti nemmeno. O forse sì? Prima o poi cercherò di scoprire l’arcano tra le pieghe di quell’indecifrabile mistero. E fu come la commozione, allora come adesso, immaginarti «sì che par tu pianga, / ma di piacere» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 98-99).

Dal primo giorno, vedi, sei la mia luce. La poesia crea e ricrea incessantemente ciò che la logica tende a distruggere o a ottundere. Sia qui o altrove, come eravamo quel giorno fuori del tempo, «chi sa dove, chi sa dove!» (G. d’annunzio, La pioggia nel pineto, 94), resta il fragile stupore di qualcosa che ci sopravanza e ci trascende. Tu lo sai, io lo so. una gioia leggera permea ancora ogni istante. Non si fugge dall’essere. Purezza incalcolabile è il tuo volto di una rara bellezza. In quel candore diafano tutto risplende, la stella diana, «nunzio del giorno» (G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, 4), e la purezza limpida del giglio.

 

 

 

 

© Federico Cinti

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