Alla tua luce chiara m’abbandono,
trasparente armonia di scaglie rare,
e non sarò mai più quello che sono.
Canto d’allora, naufrago: altro mare
ho davanti, altra via. Ricominciare
esule. Nulla intorno, nessun suono,
non sogno oltre una gioia singolare,
oltre la tua dolcezza, ultimo dono.
Nuda l’anima, solo vestimento
la nostalgia al crepuscolo del giorno.
Odo appena: una musica leggera
s’insinua sussurrando sulla sera.
Adesso e sempre, ennesimo ritorno,
infinito incantesimo nel vento.
In questa luce chiara, che sa già di vanità crepuscolare, tutto sa d’altrove. Anche il cuore s’abbandona, galleggia sospeso lontano, su una liquida superficie splendente che spinge al di là, che porta oltre, in un «palpitare / lontano di scaglie di mare» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 9-10), anche se «i brevi dì» ora «sembrano tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-14). Oggi in particolare il giorno pare rallenti sull’orizzonte, invictus per definizione a fine autunno e a inizio inverno, quando anche i Romani festeggiavano i Saturnalia in un reciproco scambio di doni.
E il dono è questa luce soffusa in cui sentirsi parte del tutto, in cui «sento che il mio volto / s’indora nell’oro / meridiano» (G. d’Annunzio, Meriggio, 70-72), simile al dono panico dell’estate, quando ci si perdeva «dentro il meridiano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Altra stagione adesso frastorna questo tempo in bilico sulle porte del buio, in cui è così dolce cogliere il bagliore di un sorriso di cielo, occhio che si chiude sul mondo stretto dal freddo cristallino. Anche i rumori soffondono a poco a poco, come eco nell’anima, ricordo di un tempo che va, di un tempo che viene, forse immobile come la nave sull’acqua tranquilla alla ricerca di chissà che porto indecifrabile.
È sufficiente una voce, musica antica alle orecchie, canto di culla e di oblio, a trascinarmi con sé. Risorge e si confonde in questo tempo il senso delle cose. Forse non tutto è perduto. Il viaggio ricomincia, anche più lieve di prima. Il naufragio in questa chiarità dell’aria risveglia la brace di emozioni mai sopite del tutto. Arde l’ansia dell’ora, il cuore vive e rivive in cerca di un porto sicuro. Fine e inizio di nuovo si confondono nel circolo dell’anno che si chiude, che si apre senza sosta. Ma «il varco è qui?» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19), ci si chiederebbe ancora increduli, mentre tutto è scoperto e «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7).
Ecco, dunque, il segreto, riuscire a dare del tu a questa luce chiara in cui non perdersi, bensì ritrovarsi, in cui adagiarsi per sempre, come in un sogno infinito. Laggiù gli alberi raccontano di nuovo della fine e del principio, del tempo che ritorna e si allontana senza tregua. In questo pomario esiste «la maglia rotta nella rete» (E. Montale, In limine, 14), la via di fuga, la redenzione di queste ombre anelanti alla vita, alla vita vera. È questo il sole che ci irradia di una luce nuova, di quella luce chiara che ci fa amare e sperare.
© Federico Cinti
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