Solstizio invernale

 

Alla tua luce chiara m’abbandono,

trasparente armonia di scaglie rare,

e non sarò mai più quello che sono.

Canto d’allora, naufrago: altro mare

 

ho davanti, altra via. Ricominciare

esule. Nulla intorno, nessun suono,

non sogno oltre una gioia singolare,

oltre la tua dolcezza, ultimo dono.

 

Nuda l’anima, solo vestimento

la nostalgia al crepuscolo del giorno.

Odo appena: una musica leggera

 

s’insinua sussurrando sulla sera.

Adesso e sempre, ennesimo ritorno,

infinito incantesimo nel vento.

 

 

In questa luce chiara, che sa già di vanità crepuscolare, tutto sa d’altrove. Anche il cuore s’abbandona, galleggia sospeso lontano, su una liquida superficie splendente che spinge al di là, che porta oltre, in un «palpitare / lontano di scaglie di mare» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 9-10), anche se «i brevi dì» ora «sembrano tramonti / infiniti» (G. Pascoli, I gattici, 12-14). Oggi in particolare il giorno pare rallenti sull’orizzonte, invictus per definizione a fine autunno e a inizio inverno, quando anche i Romani festeggiavano i Saturnalia in un reciproco scambio di doni.

E il dono è questa luce soffusa in cui sentirsi parte del tutto, in cui «sento che il mio volto / s’indora nell’oro / meridiano» (G. d’Annunzio, Meriggio, 70-72), simile al dono panico dell’estate, quando ci si perdeva «dentro il meridiano ozio dell’aie» (G. Pascoli, Romagna, 16). Altra stagione adesso frastorna questo tempo in bilico sulle porte del buio, in cui è così dolce cogliere il bagliore di un sorriso di cielo, occhio che si chiude sul mondo stretto dal freddo cristallino. Anche i rumori soffondono a poco a poco, come eco nell’anima, ricordo di un tempo che va, di un tempo che viene, forse immobile come la nave sull’acqua tranquilla alla ricerca di chissà che porto indecifrabile.

 

 

È sufficiente una voce, musica antica alle orecchie, canto di culla e di oblio, a trascinarmi con sé. Risorge e si confonde in questo tempo il senso delle cose. Forse non tutto è perduto. Il viaggio ricomincia, anche più lieve di prima. Il naufragio in questa chiarità dell’aria risveglia la brace di emozioni mai sopite del tutto. Arde l’ansia dell’ora, il cuore vive e rivive in cerca di un porto sicuro. Fine e inizio di nuovo si confondono nel circolo dell’anno che si chiude, che si apre senza sosta. Ma «il varco è qui?» (E. Montale, La casa dei doganieri, 19), ci si chiederebbe ancora increduli, mentre tutto è scoperto e «di questa poesia / mi resta / quel nulla / d’inesauribile segreto» (G. Ungaretti, Il porto sepolto, 4-7).

Ecco, dunque, il segreto, riuscire a dare del tu a questa luce chiara in cui non perdersi, bensì ritrovarsi, in cui adagiarsi per sempre, come in un sogno infinito. Laggiù gli alberi raccontano di nuovo della fine e del principio, del tempo che ritorna e si allontana senza tregua. In questo pomario esiste «la maglia rotta nella rete» (E. Montale, In limine, 14), la via di fuga, la redenzione di queste ombre anelanti alla vita, alla vita vera. È questo il sole che ci irradia di una luce nuova, di quella luce chiara che ci fa amare e sperare.

 

 

 

© Federico Cinti

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Fuoco perpetuo d’amore – Amoris ignis perpetuus (Sambucus XL)

 

Guarda la torcia: di qua lenta consuma al suo fuoco,

di là in una fiammata rapida si dissolve.

Vede l’amante l’amata dolcissima e triste si strugge;

è colto, pure assente, da piaga insanabile.

 

 

Niente di eccezionale, convengo; ma, davanti agli emblemata, io non riesco a non fermarmi, almeno un attimo. Li leggo, li rileggo, mi ci specchio. Non mi so sottrarre al certame e gareggio, mi provo pure io. Togliere la polvere ai secoli è un attimo. Qualcuno mi direbbe, forse con qualche ragione, quieta non movere. Eppure, non ne posso fare a meno, soprattutto oggi che tutto si riduce a una forma nuova di trasfigurazione emblematica: titolo, immagine, didascalia. Semplice, no? Intuizione geniale di Andrea Alciato, più giurista che poeta, almeno nella sua vita. quando leggo questa produzione apparentemente così lontana da noi, mi viene sempre da chiedermi se nasca prima l’occasione o la poesia. la risposta è insita nella domanda, è chiaro; ma quanto più è breve il testo tanto più si fa legittima. Ci pensavo a proposito di Marziale e dei suoi quindici libri di epigrammi. E dire che mi avevano anche chiesto di tradurlo. All’epoca non ne sarei stato capace. Adesso? Chissà, adesso mi potrebbe pure venire l’uzzolo di cimentarmici.

Eppure, di che cosa si deve parlare se non dell’amore? Qui è rappresentato da una torcia, una fiaccola che arde perpetuamente, come dice il titulus. Si consuma interamente da una parte e dall’altra è un fuoco inestinguibile. Tutto nasce dal verso petrarchesco «che da lunge mi struggo et da presso ardo» (Rvf CXCV 14), come ricorda il commento a corredo del quarantesimo Emblema di Sambucus, Amoris ignis perpetuus. Nello stesso commento ci si rifà anche alla passione amorosa di Saffo per Attide, la giovane appartenente al tiaso gestito dalla decima Musa, e a Didone, la pulcherrima per eccellenza, che caeco carpitur igni (Aen. IV 60).

 

 

 

Era il mio mondo e lo capii al meglio proprio quando mi fu chiesto di collaborare a un’antologia sulla poesia petrarchista del Cinquecento. Una vita fa, lo ammetto. Io stesso ero ben altro da quel che sono, anche se non sarei mai ciò che sono diventato senza quel percorso così strano cui mi hanno condotto i miei interessi, scoperti un po’ per gioco e un po’ per caso. In quell’antologia famosa, Lirici europei del Cinquecento (Milano, Rizzoli,) 2004) mi immersi completamente in quel mondo e ne uscii diverso. C’era un po’ di tutto, c’era pure Iohannes Sambucus, strano personaggio anche nel nome, passato pure da Bologna, autore di poesie alle volte quasi al limite dell’oscurità. Questa sull’amore mi è piaciuta, anche se non la inserii nel novero. Ci sarebbe stata, certo ed era pure nel novero delle immagini petrarchiste. Ma so bene che sarebbe tutto da rifare, oggi che padroneggio meglio gli strumenti. All’epoca ero più sprovveduto di ora, anche se lo resto parecchio. Amo imparare, ecco, visto «ch’altro piacer che d’imparar non provo» (Petrarca, Triumphi, I, 21).

Sull’amore non so quanto io abbia imparato, forse niente di più di quel che si trova scritto nei libri. Ripeto a memoria che «amor est passio quaedam innata procedens ex visione et immoderata cogitatione forme alterius sexus», come suggeriva Andrea Cappellano, e mi stupisco. Sì, mi stupisco sentirlo risuonare in me, come eco lontanissima, come nei versi baudelairiani della sconosciuta, apparizione e sparizione degna dei fedeli d’amore, che scorgevano l’amata passare «per via adorna e sì gentile / ch’abassa orgoglio a cui dona salute» (G. Guinizelli, Io voglio del ver la mia donna laudare, 9-10). Anche a me è capitato, non lo nego, ascoltando la voce celestiale di una figura eterea e di sentirmi annegare in quella luce senza tempo. Chissà, retaggi letterari. Tutto qui.

 

 

 

Quasi dimenticavo di riportare pure l’originale: sì, lo avevo aggiunto in nota, ma la pigrizia di molti che conosco è superiore a quella di Belacqua.

 

 

Amoris ignis perpetuus.

 

Hinc taedam ut suus ignis edat teretem, vide

Illinc ut rapido male liquitur a rogo.

Visae tabet amans miser igne puellulae:

Absens tabifico haud minùs ulcere carpitur.

 

 

© Federico Cinti

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Un palpito lontano

 

Rara felicità: tra lo spiraglio

opaco dell’autunno anela un raggio

buono di sole. Insolito l’abbaglio,

ennesima dolcezza di miraggio.

 

Ricomincia la via, riprende il viaggio

tra le incertezze di un perenne sbaglio.

Attesa (o solitudine?) il passaggio

rapido della soglia, ultimo vaglio

 

in vista d’un sorriso. Nulla è invano.

Tutto sa di vissuto, di passato,

oscillante inquietudine presente.

 

Resta ciò che si vuole, che si sente

nell’anima, un pensiero ritrovato

ancora vivo, un palpito lontano.

 

 

Davvero un palpito di sole «che fa tremar di chiaritate l’âre» (G. Cavalcanti, Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira, 2), lontano, chissà dove. e l’anima ricomincia a respirare, a sperare, in modo naturale, «come calore in clarità di foco» (G. Guinizelli, Al cor gentil rempaira sempre amore, 10). Nulla è invano, in un’attesa che si fa condizione esistenziale, giusto distacco dall’effimero e dal transeunte. Perché, in fondo, bisognerà pure ammetterlo che «era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare: // il sogno è l’infinita ombra del vero» (G. Pascoli, Alexandros, II 18-20). Ed è forse così, quando ci si trova – o ci si ritrova – all’inizio della fine, quando il penultimo mese sta per cedere all’incanto del Sol invictus, altra luce, unica luce, vera luce che ci è dato di fissare senza annichilire.

 

 

 

Si riparte, qualsiasi sia il luogo in cui ci si è fermati. La digressione è finita, l’excursus ci ha arricchito, nonostante la fatica, «quamquam ad hunc locum perventum est» (Gaio Giulio Cesare, De bello Gallico, VI 11): se non si perde tempo, non s’arriva da alcuna parte. In questo raggio eccentrico naufraga il pensiero, dolce mare di una ricerca inesausta. La mano è tesa a percorrere nuove strade. Ciò che è stato conta solo se ne riconosciamo il valore: «eppur mi giova / la ricordanza e il noverar l’etate / del mio dolore» (G. Leopardi, Alla luna, 10-12).

Si è tutti sulla via, si è tutti in viaggio, fino all’ultimo giorno. Tutto quello che è nostro è assieme a noi, oggi forse ancora più che in altri tempi. Ci si squaderna innanzi il volume nel suo profondo: «e quel libro era antico. Eccolo: aperto / sembra che ascolti il tarlo che lavora» (G. Pascoli, Il libro, I 5-6). Oggi ha il volto ridente di chi guarda, di chi ci si specchia, quasi senza accorgersene. Oggi è sempre con noi, sulla soglia dei liquidi cristalli. Oltre di noi o dentro di noi? Palpita quella luce, spiraglio tra le nuvole, tra i gorghi di un labirinto selvaggio. Per non perdersi è fondamentale non rimanere soli con se stessi, col proprio ego. Ecco, quindi, la luce che viene dall’alto e che ci salva, in primis dalla nostra solitudine.

Il resto sono solo chiacchiere, dibattito sul nulla e dintorni. La soglia è varcata, è vagliata. La mano è tesa e non siamo più soli: nessuno basta a se stesso, non può bastare a se stesso. Anche la comunicazione è non altro che mettere in comune ciò che siamo e che vogliamo con gli altri. A questa luce ci ritroviamo e troviamo di nuovo. Il percorso è segnato, procede anche attraverso l’erranza solita che ci contraddistingue. Ma proprio le strade laterali ci scoprono mondi e ci riportano a casa, la nostra vera casa. Le due parti del cuore spezzato, antichi symbola di un’unità ideale, si ricompongono in una misteriosa fusione.

 

 

 

© Federico Cinti

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«Alla mia donna»” – quinto posto al VIII premio Pascoli “L’ora di Barga”

 

Mi è stata consegnata una bella targa con l’effigie di Giovanni Pascoli, che non esito a definire il mio poeta. La soddisfazione è tanta, soprattutto perché mi sono avvicinato idealmente ai luoghi dove ha vissuto molti anni il poeta-fanciullino. La competizione, infatti, portava il titolo di una lirica famosissima dei Canti di Castelvecchio, ossia L’ora di Barga. Avevo visitato ai tempi dell’università anche la Casa-Museo di Barga, immersa in una pace tutta toscana e soprattutto poetica. Il mio componimento, come i Primi e i Nuovi poemetti, riprendevano le terzine. Essere tra i vincitori ha suggellato, in qualche misura, la mia vicinanza a quel sentire così malinconico, eppure così eterno, di Pascoli. In questo, forse, si gioca tutta la mia soddisfazione di questo riconoscimento.

 

 

Ti cercai dentro l’anima. La vita

è a volte avara. Limpido sorriso

alle porte del buio. Tra le dita

 

tenni un sogno: giungesti all’improvviso

tra la pioggia (o le lacrime?). Non ero

pronto; eppure, trovai il mio paradiso.

 

Quanto eri bella non so dire: il vero

si trasfigura all’ombra del reale.

Il tuo viso era semplice, sincero.

 

Nel cuore la tempesta: un fortunale

mi travolse. Un naufragio senza fine

mi sconvolse. Poi nulla fu più uguale.

 

Amai, oltre ogni cosa, oltre il confine

del lecito o possibile: ti amai,

mia dolce rosa nata in dure spine.

 

Feci per te quel che non feci mai

da quel giorno di pioggia a fine estate:

tutto per te cambiai, tutto imparai.

 

Contai gli attimi, le ore, le giornate,

fiore di primavera. Una dolcezza

mi s’agitava in cuore a lievi ondate.

 

Mi smarrii in te, mia sola, unica ebrezza:

nel tuo profumo il languido sospiro

dell’universo. Nella tua bellezza

 

la verità dell’intimo respiro

che unisce indissolubile. Da allora

mi specchio in te, in te vivo, ti rimiro

 

all’infinito, amore che innamora.

 

 

Questo il testo della lirica, questo il tributo alla grandezza dell’ultimo figlio di Virgilio, come ebbe a dire d’Annunzio di Pascoli, e a ragione aggiungo io. Molto è ancora da dire e da scoprire di lui, ma è discorso che vale per tutti i geni della letteratura e del pensiero. Mi accontento di accostarmi a lui con quella reverenza «che più non dee a padre alcun figliuolo» (Purg. I 33), per riprendere lo stato d’animo descritto dal «ghibellin fuggiasco», per fare mia la definizione che Foscolo dà di Dante nei Sepolcri (v. 174), nel momento in cui incontra inaspettatamente Catone l’Uticense.

 

 

 

© Federico Cinti

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Marriage d’Amour

 

In questa solitudine

s’allaga il cuore. Un fremito

pensarti. La memoria

sospesa in un abbraccio

 

ti cerca. Sei tu l’unico

senso di questo mio essere

fragile. Fruscia l’aria

al cadere d’un petalo.

 

E mi sorridi. Immagine

impressa dentro l’anima.

E ti sorrido. Un attimo

infinito, il miracolo

 

fuori del tempo. Un brivido

quest’amore inscindibile

più forte anche dei vortici

delle fiamme invincibili,

 

della morte. Lasciamoci

tutto alle spalle. L’ansia

del mondo è solo inutile

fardello. Ora stringiamoci

 

in questa danza, musica

d’oblio. Dolcezza languida

il respiro che s’agita

superato ogni limite.

 

 

Nella malinconia di questa musica così dolce ritornano alla mente emozioni indicibili. Marriage d’Amour. L’ho scoperto tardi, ma non importa: l’ho scoperto quando questa musica mi è entrata dentro, nel cuore, assieme a te. Marriage d’Amour, di Paul de Senneville: di più non so né voglio sapere. Abbandonarsi è un attimo. Ricordi, vero? Sentirsi sospesi tra il nulla e l’eterno. Era questo l’azzurro che ci si mostrava agli occhi chiusi sulla realtà circostante. Fuga di sensi e di vita, danza irrefrenabile sull’orlo dell’abisso, simile a un’immagine in bianco e nero che si agita di memoria. E presente. L’attimo si dilata all’infinito. Sospensione eterea tra una gravità lontana che non esiste più, che non è mai esistita veramente.

 

 

 

Sul serio ricordi? Tutto è così labile, sfuggente. Volteggia nell’aria un profumo, il tuo, solo tuo. Così vuoi che sia, non di altri. Ed è giusto. Ti riconoscerei tra mille. La musica quasi s’interrompe, interrogativa. Poi riprende, si rianima di ciò che mi appartiene, mi dà vita. Ecco, nel volteggiare sospesi chissà dove, chissà come: solo noi abbiamo senso. Un altro momento di riflessione e la musica riprende. Sempre così, in un’ultima voce che sembra la tua prima del congedo. E che cosa resta poi, che cosa resta alla fine? Una mano nell’altra, un passo lieve sulle nuvole.

Ma davvero ricordi? Sembra un sogno, che appena appena distilla nella memoria. Forse è questo che vince tutto, che vince anche l’oblio. Fusione di anime alle porte del buio. Sentirsi altrove, dimentichi di ogni cosa. È la musica, la nostra musica. Il resto non conta, non è mai contato. Lo sai bene, lo so bene. E allora volteggiamo in questo Marriage d’Amour per sempre.

 

 

 

© Federico Cinti

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I baci d’amore

 

Uno dei mirabili Basia di Janus Secundus (1511-1536), notevolissimo poeta olandese del Cinquecento, perlopiù dimenticato o semplicemente ignorato, il quarto Basium per l’esattezza, nella mia traduzione, per altro nemmeno l’unica. Già, perché è parecchio tempo che mi sforzo di darne una resa che possa avvicinarsi in qualche modo alla bellezza dell’originale. Mi sforzo, certo; eppure, ogni volta noto dettagli che nelle precedenti mi erano sfuggiti o non avevo notato. La traduzione è così: il testo non muta, mutiamo noi che lo leggiamo e lo ritraduciamo, riflettendoci ogni volta nello specchio del nostro cuore.

 

 

Non dà baci, dà nettare Neera,

dà all’anima fragranze rugiadose,

nardo, timo, cannella e miele quale

colgono tra i rosai del monte Imetto

o tra quelli dell’Attica le api

e, circondato da virginee cere,

ripongono in cestini dentro il favo.

Se molti me ne dà da consumare,

in essi sarò subito immortale

e al banchetto starò degli dei grandi.

Ma risparmia, risparmia un tale dono,

o con me, Neera, Fa’ che tu sia dea:

non voglio mensa senza te di dei,

nemmeno se dee e dei, cacciato Giove,

mi fanno re dei rutilanti regni.

 

 

 

Penso sia utile riportare pure il testo originale, in faleci, come il modello, Catullo, cui ovviamente Secundus si ispira.

 

 

Non dat basia, dat Neaera nectar,

dat rores animae suaveolentes,

dat nardumque, thymumque, cinnamumque,

et mel, quale iugis legunt Hymetti,

aut in Cecropiis apes rosetis,

atque hinc virgineis et inde ceris

saeptum vimineo tegunt quasillo.

Quae si multa mihi voranda dentur,

immortalis in iis repente fiam,

magnorumque epulis fruar deorum.

Sed tu munere parce, parce tali,

aut mecum dea fac, Neaera, fias:

non mensas sine te volo deorum:

non si me rutilis praeesse regnis,

excluso Iove, di deaequecogant.

 

 

 

Conosco Janus Secundus ormai da anni, da quando cominciai a interessarmi alla letteratura neolatina europea oltre che italiana. Fui cooptato pure per un’antologia sul petrarchismo europeo del XVI secolo, i Lirici europei del Cinquecento (Milano 2004), e inserii anche alcune sue poesie da me tradotte. Non le rileggo più: non mi ci riconosco per nulla. E dire che, all’epoca, ne ero così soddisfatto. Eppure nel tempo siamo arrivati quasi a darci del tu, a chiamarci per nome: tra poeti e traduttori, come tra autori e lettori, spesso finisce così. Non è semplice studio: è ragione di vita. In tal senso ha ragione Orazio a cantare: non omnis moriar (Odi III 6). La poesia, ossia la letteratura, rende eterni.

Il senso del tutto l’ho capito tardi, l’ho capito da solo, non certo al liceo o all’università, quando non si studia per noi, come sostiene giustamente Seneca per cui non vitae, sed scholae discimus (Lettere morali a Lucilio CVI)12. E non è la solita excusatio non petita, no: è ragione di vita la poesia. Per questo carmina non dant panem, eppure la poesia è più essenziale dell’aria che respiriamo, di quel che mangiamo. Anche la traduzione ha la sua autonomia e non solo di significante, ma soprattutto di significato. Intendo dire che questi versi sono miei nella stessa misura degli altri. Altro che la versione esatta che si ricercava al ginnasio, che pure ricordo con disincantata nostalgia.

 

 

© Federico Cinti

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A Vienna

 

Altro tempo. Un sorriso la memoria

labile di quei giorni, filo tenue

tra l’antica cortina della nebbia

in cui di nuovo perdersi.

 

Vienna era lì per noi. Ci corse il brivido

di ciò che non è più. Nulla è la storia.

Noi lì per Vienna. Il cuore non dimentica

quello che lo fa vivere.

 

Ci fermammo un istante, in Santo Stefano,

a scaldarci le dita. Dentro l’anima

un sussulto. Nell’ombra di quegli attimi

l’eco dell’indicibile.

 

Quante scale salimmo oltre la polvere

dei secoli. Davanti a noi il fastigio

d’un muto simulacro, volto pallido

tra il vuoto del silenzio.

 

Forse anche noi eravamo solo immagine

nello scorrere fragile dei secoli,

vani passi nel vento, assorto battito

d’ala lieve per l’aria.

 

Ci rivedemmo in loro, troppo simili

in quella vacuità per non accorgerci

di nulla. Era un sorriso la memoria

in quello specchio concavo.

 

Wien - Stephansdom (1).JPG

 

Nel giorno in cui ricorre il genetliaco di Francesco Giuseppe, nato il 18 agosto 1830, il ricordo di un viaggio a Vienna, non so più quanti secoli fa. Non importa: la memoria non ha dimensione, simile a un vecchio film che si ripete sempre uguale. Splendida città Vienna, nel cuore dell’Europa. Splendida ancor più adesso, se mi ci posso rivedere tra la penombra assorta di una nebbiosa lontananza. Nulla da eccepire, se occorre dare ragione a Guido Gozzano, quando disilluso canta: «Non amo che le rose / che non colsi» (Cocotte, IV, 26-27).

A Vienna tornerei, oggi come allora, anche solo per questa ricorrenza, per incontrare di nuovo le ombre di Franz e Sisi. La storia, raccontataci con troppa retorica risorgimentale, ci ha sempre mostrato un Franz Joseph mai esistito. Nella sua lunga vita, ottantasei anni, ha sempre predominato in lui l’austero senso del dovere, pure a scapito degli affetti familiari: si sentiva e si dichiarava il primo funzionario dell’impero. Ed è verissimo. La fantasia ha fatto il resto, giustamente. Il suo mondo era in bilico sull’abisso. Dopo la sua morte inizia il Novecento, secolo per fortuna breve, come è stato definito.

A Vienna tornerei per rivivere le emozioni di un Federico che non esiste più, nella mutevole metamorfosi di ogni istante, il cui nome comune è vita. nulla si perde davvero: diviene oggetto di poesia e di memoria. Siamo in fondo anche noi immagini di immagini.

 

 

© Federico Cinti

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Sogno di una notte di mezza estate

 

Ho appreso con molta soddisfazione dalla dott.ssa Valeria Di Felice che una mia poesia ha ottenuto il terzo posto nella sezione B, poesia in metrica, al XII Premio letterario Internazionale “Città di Martinsicuro” 2020. Questa la comunicazione ufficiale:

«Gentil.mo autore Federico Cinti,

la Di Felice Edizioni è lieta di comunicarLe che, per la sezione POESIA IN METRICA della XII edizione del Premio Letterario Internazionale “Città di Martinsicuro” 2020, la giuria ha deciso di assegnare il Terzo Premio all’opera: Sogno d’una notte di mezza estate».

 

 

S’intravide la luna: in un pallore

di perla sgranò lieve il suo rosario

di stelle e fiorì lieve lo stupore.

 

Un canto lontanava solitario

lungo la via, per gli orti inargentati,

tra noi sciogliendo l’ultimo divario.

 

Indugiammo nell’ombra trasognati

un tempo indefinito: in quell’istante

fummo come perduti e ritrovati.

 

Si fondeva in noi il mondo circostante

annullandosi: l’ora ci sorprese

simile al volto di un’ignota amante.

 

Le anime nostre incredule, sospese,

rincorsero il fluire della vita

oltre gli eterni secoli protese.

 

Il cuore mareggiò. Dita tra dita

fissammo nella volta ardua del cielo

la sommità dell’essere infinita.

 

Tutto fu un’eco già sentita: il velo

notturno ci coperse, quell’estate

incipiente, col suo sussurro anelo.

 

Un sogno ci rapì, parole alate,

languida ebrezza, etereo stordimento,

antico sortilegio delle fate.

 

Stormivano le fronde agili al vento

spinto verso l’asintoto e tra noi

la vertigine solo e il suo spavento.

 

Non esistette più il prima né il poi.

Tra le palpebre un dolce lacrimare

tu dentro gli occhi miei, io dentro i tuoi.

 

Chissà dove, laggiù, sentimmo il mare,

ombra di un’ombra, immagine del vero,

e quasi ci sembrò di naufragare.

 

Era l’ansia del vivere, pensiero

che ci fondeva indissolubilmente,

e attingemmo alla fonte del mistero.

 

La luna procedette indifferente

nel suo peregrinare senza fine,

oltre i monti, perdendosi silente.

 

Poi l’aurora, in un abito di trine

dal fulgore di rosa, annunciò il giorno

nascente, fino all’ultimo confine

 

della terra, in un ciclico ritorno.

 

 

Riporto di seguito il giudizio della giuria:

 

Motivazione a cura di Vittorio Verducci

 

Sogni e magie in una notte d’estate. Sotto lo sguardo compiaciuto della luna e il ridere delle stelle si fondono gli occhi degli amanti, in una percezione panica della natura che li porta a naufragare nell’oscurità della notte, tra lo stormire delle foglie e i palpiti del mare, in un tempo che si dilata all’infinito. In questa cornice di mistero che avvolge le cose e in cui batte il cuore segreto dell’universo, si snodano le terzine dantesche del poeta, perfette sul piano formale e stilistico, cui egli affida i moti più reconditi dell’anima.

 

 

All’incantesimo del solstizio estivo fa eco la pièce di Shakespeare, di cui ho mutuato il titolo: dimensione onirica e finzione reale s’incontrano e si fondono dentro la notte fulgida del cielo. Splendida metafora, forse, dell’amore, per cui tutto è possibile. Si alza il sipario al tremulo  raggio della luna, che passa nel vento assieme alle stelle. Palpita il mondo tra le case e tra gli alberi. Vicende che s’annodano e si snodano, speciosi intrecci dal sorriso ironico. È il regno delle fate, di Titania e di Oberon, che si rincorrono in un eterno gioco delle parti.

Nel Sogno di una notte di mezza estate un’altra Titania, presenza inquieta in terra europea, non trovò pace, Elisabetta, infelice imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria. Anch’io l’inseguita in quel suo viaggio senza meta, fantasia che ancora non ha raggiunto il suo compimento. Volava di sponda in sponda, simile a gabbiano senza patria. Anche questa è una storia che prima o poi racconterò. Poesia, solo poesia, specchi ad angoli deformi che si riflettono l’uno nell’altro a costruire ciò che è e che non è, metamorfosi d’irrequietudine.

 

 

© Federico Cinti

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“Ti penso” e “In dissolvenza”, menzioni d’onore

 

Al concorso poetico «Lampi di poesia», indetto dall’associazione « Monginevro cultura» di Torino, non avevo partecipato inviando solo Nevicata, cui è stato assegnato il primo posto nella sezione A (testi brevi in lingua italiana), ma pure Ti penso e In dissolvenza. Preso dallo stupore per il risultato, avevo omesso di riportare gli altri due testi che, comunque, hanno ricevuto la menzione di merito, riconoscimento non meno importante e di cui ringrazio ancora il Presidente e poeta, Sergio Donna.

riporto di seguito i due testi con il relativo giudizio critico della giuria.

 

 

Ti penso

 

Ti penso. L’anima si perde all’ombra

d’antiche immagini, d’un sogno. Eppure,

vano per l’aria riappare il volto

noto in un sibilo lieve di vento,

sorriso pallido. Nel cuore vivi

di rosea grazia, vivi di luce

lontana, tenue speranza al cuore

che attende. Gioia di quest’istante

eterno: l’attimo sfuma pian piano

dove non limite c’è, dove il tempo

non ha principio né fine. Stringo

in un abbraccio ciò che mi è caro,

oltre la soglia dell’infinito.

 

Motivazione della giuria

Intensa poesia che palpita d’amore: i versi scorrono in un attimo breve, che sfuma pian piano, e si perde oltre la soglia dell’infinito.

 

 

Mentre il primo testo è in rolliani, la riproposizione italiana inventata da Paolo Rolli per rendere i faleci della poesia classica, il secondo è in dimetri giambici, resi con settenari sdruccioli. Questa piccola nota tecnica spero non disturbi troppo i miei lettori.

 

 

In dissolvenza

 

Nell’ora immota attendere

che s’apra il varco. L’anima

appesa all’inquietudine

veglia: nel suo rifugio

 

di sogni un viso tremola

dimenticato. Pallida

dissolvenza nell’ardua

tensione: dentro l’ultimo

 

raggio nuota una nuvola

smarritasi. Il crepuscolo

si chiude come palpebra

né tenta di resistere

 

al buio. Solitudine

giunta improvvisa, brivido

che percorre la concava

vacuità che ci abbraccia

 

ormai. L’ansia dell’attimo

non ha ragione d’essere

più. Già lontano è il palpito

di cui il cuore s’inebria.

 

Motivazione della giuria

Lirica evocativa, con sapiente uso della metrica.

 

 

Non voglio aggiungere altro: i testi poetici comunicano già di per sé.

 

 

© Federico Cinti

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Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Nel giorno in cui Petrarca compie gli anni, il 20 luglio, propongo – anzi, sarebbe meglio dire ripropongo – una mia traduzione di un epitaffio neolatino di George Buchanan, poeta scozzese del Cinquecento, che dedica versi struggenti all’amore di Francesco per Laura. Il testo originale sarebbe in distici elegiaci latini, ma mi è parso buono e giusto rendere con un sonetto. Credo che Petrarca avrebbe apprezzato lo sforzo e forse pure il risultato.

 

 

Sulla tomba di Francesco Petrarca

 

Se ha memoria di sé dopo la morte,

dotto Petrarca, l’animo nel cuore,

se oltre la tomba vive intatto Amore,

morendo non patisti un tanto forte

 

tormento quanto il gaudio avuto in sorte

d’accompagnarti a Laura nel fulgore.

Lei i primi anni subì l’aspro livore

del fato, ti lasciò per vie contorte

 

nel pianto più struggente. D’ora in poi

la folta folla dell’Eliso al Lete

vi vede passeggiare. Beati voi!

 

Né la morte né il rogo estremo ha sciolto

il vincolo d’affetti in cui vivrete,

per i secoli eterni, lieti in volto.

 

 

Di seguito è doveroso che io riporti anche l’originale: non vorrei lasciare nulla, ma proprio nulla, al caso.

 

 

In tumulum Francisci Petrarchae

 

Si memor ipse sui est animus post funera, culte

Petrarcha, et cineri vivit inustus Amor,

 

certe non tantum cepisti morte dolorem,

quam gaudes Laurae nunc comes ier tuae.

 

Quae, fati invidia primis oppressa sub annis,

te summo in luctu liquerat, et lacrymis.

 

Nunc vos Letheae spaciantes margine ripae,

Elysii spectat plebs numerosa fori.

 

Felices animae, quarum dissolvere foedus

mors quoque et extremi non potuere rogi!

 

 

Confesso che non è l’unica volta, questa, che tento una resa di tale epigramma: la mia prima versione fu pubblicata nel 2004, settimo centenario della nascita del sommo vate. A Bologna si teneva un convegno internazionale sul petrarchismo Cinquecentesco, cui ebbi l’onore di partecipare, e in quell’occasione usciva l’antologia Lirici europei del Cinquecento. Ripensando la poesia del Petrarca, a cura di G.M. Anselmi, K. Elam, G. Forni e D. Monda, Rizzoli, Milano, 2004. Oggi la disconoscerei: non mi ci ritrovo più, perché appartiene ormai a un Federico che non esiste più. E dire che ne andavo molto fiero, e della traduzione e di quel Federico.

L’insoddisfazione mi ha costretto, nel tempo, a riprendere in mano questi distici per dare loro una veste e un respiro nuovi. Il labor limae credo possa essere un inesauribile stillicidio e dare lo sfinimento. Anche quest’anno non ho potuto farne a meno: il testo è cambiato ancora. Quando traduco (e ritraduco), mi torna in mente il verso dantesco « mutandom’io, a me si travagliava» (Par. XXXIII 114). Non c’è che dire: ogni volta io muto e la traduzione muta con me. È un gioco di specchi: io mi rifletto nel testo e il testo si riflette in me. il rischio di perdersi per sempre è fin troppo reale. L’ombra di Narciso incombe su questo esercizio così suadente e mai finito. Una competizione: si può azzardare questo giudizio? Già, chi è migliore: il tradotto o il traduttore? Probabilmente non è solo un atto metamorfico, la traduzione, ma una manifestazione di narcisismo in divenire.

 

 

© Federico Cinti

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