Fermo il sole nel cielo inerte indugia
fuori del tempo. Tiepido l’abbraccio
dell’azzurro, sospiro
via via sempre più languido.
Lontana una cicala, eco al prodigio,
oltre la fantasia: si fa perpetuo
un guizzo d’infinito.
Il mondo attende immobile.
In quest’attesa vibrano all’unisono
mille corde. Nell’anima una musica
risuona, eterno soffio
di vita impercettibile.
Termina il viaggio, qui? Sul monte gli alberi
sussurrano nel vento antiche nenie
dimenticate. È l’ora
che ci ridona al vivere.
Vanisce il sogno. S’aprono le palpebre
alla nuova realtà. Così si supera
l’oscura linea d’ombra,
l’estate e il suo solstizio.
Insolito il tepore che si respira nel giorno del solstizio d’estate, quando il tempo sembra fermarsi smarrito e la luce si riversa a liquide cascate. È il tempo delle vacanze, delle lunghe giornate che paiono non finire mai e tutto sembra possibile. La leggerezza è palpabile, liberi da ogni costrizione: i «nostri vestimenti / leggeri» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 24-25) non opprimono più l’anima. È un abbraccio senza fine, questo, un calore primigenio. Il cuore vaga lontano in un sogno di languida dolcezza fino quasi a smarrirsi dopo l’orizzonte in fuga.
Non vi è altro momento nell’anno in cui si percepisca ugualmente il fluire della vita. Ogni cosa trova la sua pienezza, mostra il suo senso vero nella diafana luce trasfigurata del giorno. Suoni e colori s’inseguono, come in un incanto. Così nascono le leggende che si ripetono, durante il tempo che rallenta attimo per attimo. Antichi poeti cantano, come narra uno stupito Platone, senza stancarsi mai il ciclo dell’essere: le cicale inondano l’aria di squillanti carezze soavi. È il loro tempo, è il tempo della felicità, di un presente che non sa dello sfiorire fragile dei fiori, degli alberi che bisbigliano sommesse cantilene, del «perir della terra» (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 67).
Al solstizio comincia l’estate, nel miracolo della sua bellezza. Il silenzio attinge a vertigini dimenticate. Si ritorna bambini, con la gioia nel cuore e il sorriso negli occhi. Nulla si deve più, tutto è donato in questo tempo di grazia. L’ansia si scioglie nell’ora che si ferma a contemplare ogni singola cosa che si desta di nuovo. Palingenesi di vita e di senso lanciata oltre l’ostacolo, oltre il «rovente muro d’orto» (E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, 2), alla ricerca dell’infinito in cui è «dolce naufragare» (G. Leopardi, L’infinito, 15).
Ecco dunque che, nel mondo delle fate, la realtà diviene il trastullo dei sogni e Titania continua a giocare con Oberon nel bosco incantato. Tutto vince l’amore, quella favola bella che si perpetua, come in conchiglia il mormorio del mare. Nulla d’ignoto, nulla di conosciuto ancora: si fonde la memoria nel futuro a generare un presente che tuttavia è già ricordo. S’oscilla sull’orlo della voragine nella traslucida armonia della natura tornata al suo volto originale. Solo così l’azzurro non è illusione, ma fervida realtà onirica.
© Federico Cinti
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