Frulla l’idea. Nel cuore del poeta
ride il genio. L’immagine scintilla
alchemica del sogno. Un po’ di creta
nelle mani, nell’occhio la favilla
celeste di Prometeo: a stilla a stilla
ecco a un tratto l’essenza più segreta
spira di vita nella sua pupilla
chiara. L’anima ancora si fa lieta.
Antica vanità, la fantasia
blandisce il tempo. Nell’eterna urgenza
assorto sembra il volto nel miraggio.
La via procede, ricomincia il viaggio
di chi vede e non sa. L’indifferenza
impedisce alla vista ogni poesia.
ogni tanto penso di non essere io a scrivere. Altri già l’hanno detto, certo, e molto meglio di me; eppure, mi stupisco ancora di come un pensiero, un mio pensiero, possa diventare poesia. chissà, forse «possa» è troppo pretenzioso e sarebbe meglio sostituirlo con «ardisca». Non è il singolo a essere poeta, questo è ovvio, bensì i suoi lettori a riconoscerlo tale, anche se oggi pare piuttosto il contrario. A ogni modo, «frulla a un tratto l’idea» (G. Pascoli, Il cacciatore, 1) e la si deve cogliere, cui fa eco «il frullo che tu senti non è un volo, / ma il commuoversi dell’eterno grembo» (E. Montale, In limine, 5-6).
Ecco, avevo chiesto ai miei studenti di scrivere un sonetto. Pretesa troppo alta? Forse. Ma chi decide del limite altrui? Ci si deve pure inoltrare oltre la soglia, «vaghi già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva» (Purg. XXVIII 1-2). La poesia si coglie dalla viva foresta di simboli, per parafrasare il buon Baudelaire, da quel tempio già neoplatonico che è la natura, fuori e dentro di noi. «Frulla» appunto «l’idea» «sulle soglie / del bosco» in cui non «odo / parole che dici / umane» (G. d’Annunzio, La pioggia nel pineto, 1-4), sia essa o non sia «in su’l lito di Chiassi» (Purg. XXVIII 20), come il Paradiso terrestre.
Era solo la richiesta di un sonetto, come faccio con tutti i miei studenti delle classi nuove, nulla di più. La poesia è anche mestiere, non neghiamocelo. Leggerla non basta. A me non basta, almeno, per entrare nella fucina del poeta e non solo perché egli sia «un grande artiere, / che al mestiere / fece i muscoli d’acciaio» (G. Carducci, congedo, 19-21), bensì perché è inaccettabile che tutti si dedichino alla composizione di versi senza averne coscienza e contezza. Perché fruttifichi, il campo va arato, come suggeriva l’anonimo autore dell’Indovinello veronese, per cui «se pareba boves / alba pratalia araba / et albo versorio teneba / et negro semen seminaba». In fondo, «quando / amor ci spira, notiamo, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro andiam significando» (Purg. XXIV 52-54), ma solo se abbiamo l’umiltà di chiedere al «buon Appollo» di «farci del suo valor sì fatto vaso» (Par. I 13-14), perché veramente l’autore è un altro, è quel dio presente nella parola «entusiasmo», come sottolineava pure l’ovidiano est deus in nobis (Fasti VI 5), ripreso ancora da Berchet nella Lettera semiseria. A chi scrive l’obbligo del labor limae, usando gli strumenti dell’arte, cosicché «le nove Muse ci dimostrin l’Orse» (Par. II 9).
Anch’io ho fatto il mio compitino: ho scritto il mio sonetto sulle gioie e le pene del poeta. I miei studenti lo hanno apprezzato, quando l’ho proposto alla lettura. Ora attendo i miei piccoli poeti: attendo che anch’essi siano presi dallo stesso entusiasmo che ritrasformi l’otium in vero tempo libero da dedicare a se stessi, come Titiro confessa a Melibeo: deus nobis haec otia fecit (Virgilio, Eclogae I 6). Non resta che appassionarsi, riappropriarsi dell’ardore che investe da sempre lo studium. Io ci provo, tutto qui. Ci provo a non lasciarmi fagocitare. Il più è riuscirci.
© Federico Cinti
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